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14 agosto 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Questo capitolo che approcciamo è intenso; è anche controverso, perché ci sono interpretazioni differenti sulla questione dell’autocoscienza. Come spesso accade, le letture non sono mai univoche. In ogni caso, vedrò di porre la questione nei termini che a noi interessano di più: termini linguistici, semiotici. Ciò che Hegel sta facendo, la scienza dell’esperienza della coscienza, non è altro che la scienza, cioè un sapere di come si ha esperienza del linguaggio. Senza linguaggio non c’è nessuna coscienza, di nessun tipo. Quindi, è un modo per intendere che gli umani sono parlanti. Hegel pone una questione importante: mostra in modo ancora più preciso il funzionamento del linguaggio. Pone la questione della coscienza: la coscienza si volge in autocoscienza nel momento in cui c’è un prendere atto che ciò di cui si ha coscienza è per sé in quanto è altro da sé, cioè è per sé ma anche per altro; e questo sarebbe l’“Io sono Io”. Ma possiamo pensarla anche in questo modo, e cioè la coscienza, l’in sé, come l’affermare qualcosa. L’affermare è qualcosa che è in sé, sembra indipendente, è ciò che per Hegel sarebbe il signore: ciò che è in sé e per sé, ma è identico, non è per altro, almeno apparentemente. Il ciò che affermo, invece, è ciò che è per altro, è, cioè, per ciò che ho affermato, è per la mia affermazione; come dire che il ciò che affermo è ciò che lavora. Qui c’è l’avvio per ciò che affermerà Marx, perché ciò che affermo sarebbe il servo, ciò che è per un altro. Dunque, dicevo, il ciò che affermo è ciò che lavora per potere far sì che ciò che affermo sia effettivamente ciò che affermo; così come il significante ha un significato. Il significato “lavora”, nel senso che crea, produce, costruisce ciò che, poi, il significante, alla fine, risulta, cioè come qualcosa che significa qualcosa. Per cui, questa autocoscienza, come dicevo, è la coscienza che prende atto del fatto che ciò di cui è cosciente è per sé in quanto è altro da sé. Anche l’autocoscienza, come la coscienza, ha un oggetto cui si rivolge. Già nelle prime pagine Hegel diceva che la coscienza è un muoversi verso qualcosa, cioè verso l‘oggetto. L’oggetto, come dice lui, è per la coscienza, non è per sé in quanto tale; è per la coscienza che c’è l’oggetto. Ora, potete pensare l’autocoscienza - ciò che risulta da questo lavoro della coscienza rispetto al suo oggetto, che è quello che è in quanto differisce da sé, cioè per sé e per altro – l’autocoscienza non è esente dalla dialettica, non è esente quindi da questo movimento. Anche l’autocoscienza pone un oggetto, solo che l’oggetto che pone l’autocoscienza è sempre l’autocoscienza. A questo punto Hegel dice che questo sdoppiarsi dell’autocoscienza è ciò che dà l’avvio alla dialettica servo-padrone. La prima autocoscienza coglie questo oggetto, che non è altro che se stessa, cioè, pone se stessa come oggetto, ma, ponendosi come oggetto, questo oggetto differisce dalla prima autocoscienza e, quindi, è un’altra autocoscienza. Ed è qui che ci sono le interpretazioni che differiscono: per es. l’interpretazione di De Negri, il traduttore classico di Hegel, pone queste due autocoscienze come opponentesi, si oppongono tra loro; per Sini, invece, non c’è questa opposizione, nel senso che questa opposizione si risolve in un’unica autocoscienza: non rimangono due autocoscienze, l’autocoscienza è una. Ma il problema, che in Hegel in effetti non è molto chiaro, è se queste due autocoscienze appartengano alla struttura stessa dell’autocoscienza, cioè del discorso, in definitiva – l’autocoscienza non è altro che un discorso – cosa che in effetti sembra dire in alcuni punti, ma in altri punti invece parla di queste due autocoscienze come di due individui, di due persone. E, allora, è l’una cosa o l’altra? E se sono entrambe, come avviene il passaggio da una struttura dell’autocoscienza, che si sdoppia, alla posizione di due individui, come servo e padrone? Non è molto chiaro in Hegel. La posizione di Sini è, in effetti, abbastanza interessante perché pone la questione di un’unica autocoscienza, e cioè lo sdoppiarsi dell’autocoscienza è uno sdoppiarsi che poi si risolve in un’unica autocoscienza, perché la prima autocoscienza vede nell’altra autocoscienza, ponendo se stessa come oggetto, questo oggetto; si confronta con questo oggetto. Naturalmente, questo oggetto è il negativo, ciò che deve essere tolto perché la prima autocoscienza possa affermarsi in quanto per sé. Però, dice giustamente Hegel, se toglie questa altra autocoscienza toglie se stessa, perché è sempre lei. Ora, non si tratta tanto di risolvere questo problema, che non so neanche se sia risolvibile, Hegel è abbastanza oscuro a questo riguardo. Rimane il fatto che sicuramente l’autocoscienza, prendendo se stessa come oggetto, si trova nella condizione dialettica, per cui c’è un elemento, che è il negativo, che deve essere tolto a vantaggio della sintesi. Quindi, tutto si svolgerebbe nella struttura dell’autocoscienza, senza richiedere la presenza di altri. D’altra parte, c’è un’altra questione che interroga, e cioè il fatto che noi nasciamo nel linguaggio, come ci ha detto Heidegger moltissime volte; nasciamo in un linguaggio che non abbiamo inventato noi ma che ci troviamo. Quindi, ci troviamo immersi in discorsi che non sono il mio discorso, ovviamente. Ma questi altri discorsi, perché possano essere presi in quanto discorsi, occorre che intervenga tutto quel lavoro che Hegel descrive, della coscienza che coglie un elemento, coglie ciò che in definitiva le appartiene. Come dice Hegel: non c’è qualcosa fuori della coscienza; se c’è qualcosa è perché è nella coscienza. E, quindi, che cosa accade? Accade qualcosa per cui è come se il mio discorso – usiamo discorso al posto di autocoscienza – si sdoppiasse, cioè prendo il mio discorso come oggetto; quindi, ho il mio discorso, il mio dire, e poi la consapevolezza del mio discorso; per cui, ecco, è come se ci fossero due discorsi, che sono sempre il mio, ma sono due, perché il primo ha preso se stesso come oggetto, cioè lo ha considerato come oggetto.

Intervento: C’entra qualcosa la questione del metalinguaggio?

Non c’entra la questione del metalinguaggio, siamo ancora al di qua, nel senso che sarebbe il modo in cui, in effetti, il discorso percepisce se stesso. Perché la coscienza possa percepire se stessa, porsi cioè come oggetto, deve percepirsi, quindi, non c’è ancora metalinguaggio. Potrà intervenire dopo, ovviamente, ma è come se nel riconoscersi si sdoppiasse, cioè, per potere riconoscersi deve sdoppiarsi, deve porsi come sé ma anche come altro da sé. È questo punto che è complesso in Hegel. Come nell’esempio che facevamo, io sono io: per potere dire che io sono io è come se mi dovessi sdoppiare; ci sono io e poi io che dico “io sono io”. Sono due cose diverse: il primo io non è il secondo io, il secondo io è l‘oggetto del primo io. È come se Hegel dicesse che perché ci sia questa autocoscienza, ché mi renda conto delle cose, queste cose si sdoppiano. È inevitabile, perché devo prendere il mio stesso dire come oggetto. Ciò che Hegel sta descrivendo appare come qualcosa di strutturale, cioè che non può non essere; se c’è percezione c’è questa struttura, se c’è percezione c’è sdoppiamento; per percepire me, io devo sdoppiarmi. È come se non potessi non farlo, fa parte del modo in cui funziona il linguaggio. D’altra parte quando affermo qualche cosa, questa mia affermazione, in effetti, si sdoppia in ciò che affermo e in ciò che è l’affermato; possiamo dire l’affermante e l’affermato. Questo sdoppiamento non è altro che la distanza che il linguaggio instaura, e senza la quale distanza non c’è niente; se non c’è questo sdoppiamento non c’è la distanza e io non sono più io, cioè, non sono niente. Fuori dal linguaggio, dove non c’è questa distanza, non ci sono neanche le cose; perché ci siano le cose da percepire occorre che ci sia questa distanza. Hegel chiama sdoppiamento questa distanza, sdoppiamento dell’autocoscienza, che è la stessa cosa. Per questo, dicevo, è qualcosa di assolutamente strutturale. Come accennavo prima, se questa cosa appartiene unicamente alla struttura del discorso, potremmo dire il linguaggio, o se si rileva tra individui – Hegel lo dice: due individui, uno di fronte all’altro. Heidegger ci indica una via, e cioè il fatto che nasciamo nel linguaggio, nella chiacchiera, per essere più precisi. Quindi, nasciamo immersi in discorsi che, di fatto, sono già tutti sdoppiati: chiunque affermi qualche cosa si sdoppia nell’affermante e nell’affermato. Che sono due cose diverse, così come lo sono il significante e il significato: l’affermato è il significato, l’affermante è il significante, ma perché questo significante sia significante occorre che ci sia il significato, e cioè che ci sia qualcosa di affermato. Ma, allora, questo qualcosa di affermato è ciò che, ritornando sul significante, lo rende quello che è, cioè un significante. Che tuttavia non è più quello di prima, perché c’è stato un lavoro nel frattempo, il lavoro di ciò che Hegel chiama il servo, vale a dire, ciò che è per altro. Mentre per il signore il godimento è immediato, vuole la cosa e se la prende, per il servo, invece, è mediato; mentre il signore è indipendente, il servo è dipendente, sarebbe il “per altro”. È il per altro nel senso che si pone come quell’elemento che serve al padrone per ottenere l’oggetto che vuole. Il servo si occupa di fare questa operazione, cioè fornire questo oggetto al signore. Il signore si pone come per sé, come qualche cosa che è indipendente, ma che ha bisogno tuttavia del servo perché il servo gli fornisce l’oggetto di cui ha bisogno, che desidera, che vuole. Ora, la cosa si può intendere anche in termini strutturali, e cioè se poniamo il servo, il per altro, come il significato – il significato è sempre per altro, è una relazione, quindi, è sempre uno spostamento. L’affermazione, invece, no, è uno, è come se fosse l’uno: io affermo qualcosa; e questa affermazione, certo, è in attesa che l’affermato confermi la mia affermazione. È in questo senso che l’affermato sarebbe la figura del servo, che è per altro, cioè per l’affermante, il signore. In questi termini si semplifica un po’ la questione di Hegel ma non toglie questa difficoltà di cui dicevo prima, anche se si può poi intendere, in effetti, come funziona. Il discorso pone se stesso come oggetto. Quando fa questo? Quando ha bisogno di porsi come vero. Allora, il discorso cerca di stabilirsi ponendo se stesso come oggetto, quindi come opposizione, da togliere, in modo da rimanere identico a sé. Deve togliere questo sdoppiamento. Non può farlo, naturalmente, perché è la struttura stessa del linguaggio che sdoppia. Come dicevo questo sdoppiamento non è altro che la distanza che la parola stessa, dicendosi, instaura e che consente di prendere le distanze tra soggetto e oggetto. Sono poi la stessa cosa, ma questa distanza che si instaura è quella che mi consente di pensare un oggetto, sennò non lo posso pensare, perché non c’è. Il tentativo, dunque, è quello di togliere lo sdoppiamento. Sembra che Hegel voglia andare in questa direzione, da parte sia del signore, che immagina che servendosi del servo possa raggiungere l’oggetto, e, quindi, goderne immediatamente; come dire che il significante – perdonate l’antropomorfismo – come se il significante volesse raggiungere il significato immediatamente, che il significato sia identico a sé, che sia quello che vuole il significante. Ciò che incontra è, invece, un significato, che è il lavoro, nel senso che è una relazione continua con altre cose, e quindi è come se non riuscisse a trovare la sua verità. E, in effetti, Hegel lo dice: la posizione del padrone è in un certo qual modo deficitaria rispetto a quella del servo, perché il padrone non raggiungerà mai l’autocoscienza piena, perché sempre debitore nei confronti del servo, il quale servo continua a lavorare ma, lavorando, continua a spostare la questione, e quindi non avrà mai la certezza di sé. È come se il significante cercasse nel significato la certezza di sé. Cosa trova? Trova un rinviare infinito. Mentre, dice sempre Hegel, per il servo la situazione è migliore: il servo si trova a essere strutturalmente per altro e, quindi, si pone nei confronti dell’oggetto non come qualcosa che deve essere immediatamente appetito e posseduto, ma come qualcosa che deve essere conosciuto, manipolato, elaborato, perché è per altro, è per il signore, cioè lavora per il signore. Quindi, la sua relazione con l’oggetto è sempre dipendente dal fatto di dovere modificare l’oggetto. Ciò che fa il servo è elaborare continuamente la relazione, perché è di questo che è fatto, è fatto di relazioni. Ma, compiendo questa operazione, può raggiungere la coscienza di sé, cioè l’autocoscienza; cosa che, invece, è negata al padrone per i motivi che dicevo prima. Per Hegel, tra i due il servo è l’unico che possa raggiungere l’autocoscienza, nel senso che il lavoro che compie è quel lavoro che gli consentirà di acquisire la consapevolezza di sé, cioè di essere lavoro in atto. In seguito, Marx prenderà tutto da lì. Essendo lavoro in atto il servo ha la possibilità di porsi come autocoscienza, cioè autoconsapevolezza di sé. È soltanto attraverso questa fase, dice Hegel, di essere lavoro in atto, che il servo, mano a mano, passo dopo passo, può acquisire l’autocoscienza, cioè la sua verità. Quella verità che è inaccessibile al padrone diventa accessibile al servo, attraverso il lavoro. Per tradurla in termini semiotici: il lavoro del significato, che non è altro che la messa in atto di relazioni, è ciò che consente al significato di stabilire il significante in quanto significante, il quale, però, a quel punto non è più padrone, è il significato che determina il significante, è lui che lo determina. Il significante non si determina da sé; mentre il significato, attraverso il suo lavoro, può determinare il significante, cioè lo fa essere quello che è. La questione del servo e del padrone non è altro che una descrizione teorica delle basi su cui si fonda la volontà di potenza. Tutta la dialettica servo-padrone, cioè tutto ciò che riguarda la volontà di potenza, è qualche cosa che appartiene alla struttura del linguaggio. O si prende coscienza di questo, oppure, se non si prende coscienza di questo, se non si giunge cioè alla autocoscienza, se la coscienza non giunge a considerare che ogni volta è un atto linguistico e che, in quanto tale, è sempre per sé in quanto è per altro ed è per altro i quanto è per sé, se non si raggiunge questa consapevolezza, questa autocoscienza, allora si immagina che tutto questo avvenga al di fuori del linguaggio, e cioè che il servo e il padrone siano realmente due persone. Hegel lo dice a un certo punto: due individui, l’uno di fronte all’altro. Ma perché sia possibile pensare in questi termini a due individui, l’uno di fronte all’altro, è necessario che si sia già compiuto questo percorso dell’autocoscienza. In altri termini ancora, è necessario che ci sia accorti che si sta parlando e che, per parafrasare Heidegger, ci si sia fatti carico di questo problema, e per problema intendo il linguaggio. Se non ci si fa carico di questo, allora si immagina che tutto questo avvenga fuori dal linguaggio, e cioè che il signore e il servo siano due personaggi. Possono esserlo, naturalmente, nel momento in cui anche questi due personaggi si immaginano fuori dal linguaggio. Questa consapevolezza, questa autocoscienza, nell’accezione che sto indicando, non è altro che ciò che Heidegger indica come l’autentico. Se non c’è questo allora c’è la chiacchiera, il servo e il padrone rappresentati sono nella chiacchiera. Nell’autocoscienza, nell’autentico, il servo e il padrone sono momenti dell’atto linguistico, indissolubili e inscindibili, esattamente come lo sono il significante e il significato. È una lettura di Hegel che autorizza a fare queste considerazioni, però, non è esattamente in questa direzione che lui va: Hegel non è interessato alla semiotica. Però, il dire che l’autocoscienza, il discorso, il dire - un dire consapevole - si sdoppia, che è necessariamente sdoppiato, questo non è altro che ciò che la semiotica, un secolo dopo, ha detto. Si sdoppia l’autocoscienza, cioè, il dire, dicendosi, si sdoppia. A pag. 153. L’autocoscienza è in sé e per sé in quanto e perché essa è in e per sé per un’altra; ossia essa è soltanto come un qualcosa di riconosciuto. Qualcosa di riconosciuto: questo ci dice che è necessario questo sdoppiamento, questa distanza; solo a questa condizione posso riconoscere qualcosa. Se non c’è questo sdoppiamento, questa distanza, non posso riconoscere niente, perché non c’è nulla di determinato, non essendoci la distanza non ci sono né io né l’oggetto. Punto 14. Per l’autocoscienza c’è un’altra autocoscienza; essa è uscita fuori di sé. Questa autocoscienza che è uscita fuori di sé non è altro che il discorso che vuole se stesso come oggetto. A pag. 154. Punto 15. Essa deve togliere questo suo esser-altro. Pensate al significante e al significato. Il significante è l’affermante, dicevamo prima; il significato è l’affermato. Il significante, per porsi in quanto significante, in quanto uno, deve muovere verso il significato, che lo fa essere quello che è, ma una volta che il significato lo ha determinato in quanto significante, è come se il significante avesse tolto il significato. Questo perché il significante, a questo punto – ed è per questo che è differente dal primo significante – è un significante che è diventato veramente significante, cioè, è tornato a essere quell’uno, quell’intero, il quale naturalmente è tale perché c’è stato qualcosa che è per altro, cioè il significato. Dovete tenere conto di questo movimento continuo, anche perché l’autocoscienza, nel momento in cui il significante ha tolto il significato per potersi stabilire come significante, si trova nuovamente preso nella dialettica: continuerà a porre se stesso come oggetto e, quindi, a estroflettersi in qualche modo come autocoscienza; sarà comunque sempre di nuovo in questo movimento per cui si pone di nuovo come identico, ma questo identico è identico per avere tolto una differenza, avere tolto un altro significato, e così via all’infinito. A pag. 158, punto 24. In questa esperienza si fa chiaro all’autocoscienza che a lei la vita… Cioè l’oggetto, le cose. …è così essenziale, come lo è l’autocoscienza pura. Nell’autocoscienza immediata l’Io semplice è l’oggetto assoluto, che peraltro per noi o in sé è l’assoluta mediazione, e ha per momento essenziale l’indipendenza sussistente. L’Io semplice è l’oggetto assoluto, che è assoluta mediazione. È mediazione perché comunque è sempre per sé in quanto è per altro. Resultato della prima esperienza è la risoluzione di quell’unità semplice; mediante quell’esperienza son poste un’autocoscienza pura e una coscienza la quale non è pura per se stessa, ma per un altro: vale a dire che è come coscienza nell’elemento dell’essere o nella figura della cosalità. Significante è, diciamo, questa coscienza pura, la quale è tale sempre in relazione, in vista di, direbbe Heidegger, di qualche cos’altro, di ciò che ha tolto per potere essere quella che è. Entrambi i momenti sono essenziali; poiché da prima essi sono ineguali ed opposti… Sono ancora tenuti come astratti rispetto al concreto. …essi sono come due opposte figure della coscienza; l’una è la coscienza indipendente alla quale è essenza l’esser-per-sé… È evidente che questa è la figura del padrone. …l’altra è la coscienza dipendente alla quale è essenza la vita o l’essere per un altro; l’uno è il signore, l’altro il servo. È abbastanza chiaro se pensate al significante e al significato. L’uno è per sé, l’affermante; io affermo ed è chiaro che se affermo, affermo qualcosa; quindi, l’affermante è debitore del fatto che per esserci l’affermante deve esserci qualcosa che viene affermato. C’è sempre un qualche cosa che viene affermato; e io lo tolgo; è il significato cui il significante si rivolge per essere significante: passa dal significato e torna al significante, ma questo significante è sempre affermante, ha sempre un qualche cosa che afferma. Per quanto lo tolga c’è sempre perché per poterlo togliere ci deve essere; e qualcosa si determina, si stabilisce per sé, solo se toglie ciò che quella cosa non è. Questo è il criterio fondamentale, che poi Severino ha ripreso in tutta la sua opera: perché qualcosa sia quella che è occorre che abbia tolto ciò che quella cosa non è. È questo che sta dicendo Hegel ed è questo ciò su cui Severino ha costruito il suo discorso. Poi qui spiega che il signore si rapporta all’oggetto come qualcosa di indipendente, come un qualche cosa che sta lì e che lui deve prendere. Come lo prende? Utilizza il servo per questo, ha bisogno del servo, il quale si fa carico di lavorare per lui per modificare l’oggetto, per renderlo usufruibile, per rendere l’oggetto dipendente, anche perché, finché è indipendente, gli si oppone e quindi non sa che cosa farne. L’opera del servo è quella di rendere l’oggetto dipendente e, quindi, fa in modo che il signore se ne serva. Tenete conto che tutto il discorso circa il significante e il significato - il significante come il signore e il significato come servo - è esattamente la stessa cosa. La cosa più importante qui da intendere è che tutto questo processo porta all’autocoscienza, alla consapevolezza, al farsi carico del problema, a lavorare il problema. Questa scienza dell’esperienza della coscienza, non è altro che un percorso che punta a fare in modo che chi lo percorre giunga a questa autocoscienza. Questa autocoscienza, quindi, non è altro che la consapevolezza di essere parlanti e di non potere non esserne consapevoli, con tutto ciò che questo comporta. La prima cosa è una delle prime che ha detto, che l’oggetto è per la coscienza, non è per sé, e che per essere quello che è, è necessario che ci sia la sua negazione, tolta ma è necessario che ci sia, perché solo così, e questo Severino lo dice continuamente, ho la certezza incontrovertibile che qualcosa è così; solo che questo processo è infinito, viene rilanciato ininterrottamente in Hegel. La consapevolezza di tutto questo processo potremmo chiamarla autocoscienza o discorso consapevole di sé. Il prossimo capitolo è Libertà dell’autocoscienza; stoicismo, scetticismo e coscienza infelice. Sono movimenti filosofici ma per Hegel sono figure di come queste altre due figure, il servo e il padrone, si siano strutturate, configurate, nella storia della filosofia, nella storia del pensiero.