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14 luglio 2021

 

Lezioni sulla storia della filosofia di G.W.F. Hegel

 

In questa seconda sezione ci occuperemo in primo luogo dei Sofisti, in secondo luogo di Socrate, in terzo luogo dei socratici in senso stretto, dai quali separiamo Platone, che studieremo insieme ad Aristotele nella terza sezione. Il nous (intelletto), inteso dapprima solo in modo soggettivo come ciò che è fine per l’uomo, cioè come il bene, da Platone e da Aristotele viene considerato in maniera universalmente oggettiva come genere o idea. In questo periodo vien posto come principio il pensiero, e poiché questo dapprima si manifesta soggettivamente come attività soggettiva del pensiero, in quanto l’assoluto vien posto come soggetto, ne segue un’età della riflessione soggettiva. Vale a dire, in questo periodo, il quale coincide col dissolvimento della Grecia nella guerra del Peloponneso, comincia il principio dell’età moderna. Certo, ma che cosa incomincia veramente con i presocratici? Il pensiero, sì, certo, ma una cosa in particolare incomincia e che prima non c’era in questo modo: l’argomentazione, si incomincia ad argomentare. Interviene la coscienza di sé, che non è nient’altro che il potere pensare a quello che faccio e al perché faccio quello che faccio. Questa è l’autocoscienza, cioè, un’argomentazione. Incomincia ad argomentare e, infatti, incomincia, insieme con l’argomentazione, la retorica. Incomincia nel momento in cui ci si accorge con i sofisti, ma già prima, che il pensiero può fare tutto, è il pensiero che costruisce tutto e da allora diventa l’arma più potente. La retorica non è nient’altro che l’addestramento a usare bene quest’arma e l’argomentazione è il suo strumento. A un certo punto la retorica diventa logica e lo diventa nel momento in cui c’è la necessità di potere stabilire con relativa rapidità la verità, cioè il come stanno veramente le cose. A questo è servita e serve la logica. La logica taglia corto con la retorica. La retorica fa intervenire cose che non sono calcolabili, mentre la logica è un calcolo e, infatti, è stata utilizzata per costruire i computer, che si chiamano appunto calcolatori. Il calcolo, cioè, trasformare la retorica in qualcosa che desse come risultato l’esattezza, la certezza. Ed ecco appunto la logica. Però, qui siamo ancora con i sofisti. I Sofisti sono precisamente l’opposto di quelli che noi oggi chiamiamo scienziati, i quali non mirano che ad acquistare cognizioni e cercano che cosa è e che cosa è stato, mentre cotesta scienza non è che un ammasso di materiale empirico, dove passa per grande ventura la scoperta di una nuova forma, di un nuovo verme o di un altro insetto qualsiasi. Sotto tale riguardo i nostri dotti professori sono molto più innocenti dei Sofisti, ma di codesta innocenza la filosofia non sa che farsi. Innocenti nel senso che prendono le cose così come appaiono loro senza domandarsi niente. Orbene, allorché il concetto si volge contro questa ricchezza che la coscienza crede di possedere… Quando ci si accorge della coscienza, cioè, quando mi accorgo di potere sapere. …ed essa subodora il pericolo per le sue verità… Così come hanno fatto i sofisti. …senza le quali non sarebbe allorché le sue salde essenze cominciano a scompigliarsi, essa perde la bussola e il concetto, che si realizza in tal modo nelle verità comuni, attira su di sé odio e vituperio. Questa è la ragione del clamore universale contro la sofistica, è il clamore del buon senso umano che non saprebbe a quali altre difese ricorrere. Sono stati i Sofisti ad applicare per la prima volta in generale agli oggetti mondani il semplice concetto, in quanto pensare e a penetrare con esso tutti i rapporti umani, hanno cominciato a utilizzare il pensiero argomentativamente. Il pensiero difatti acquista coscienza di sé come dell’assoluta e unica essenza, esercita gelosamente la sua potenza e la sua signoria contro ogni altro che pretenda valere come un determinato che non sia pensiero. Il pensiero si accorge di essere la cosa più potente. Con grande entusiasmo per la volontà di potenza perché finalmente ha trovato qualche cosa che le consente di avere il dominio su tutto: è questo poi il passaggio dalla retorica alla logica. Il pensiero identico a sé svolge la sua forza negativa contro le molteplici manifestazioni particolari della teoria e della pratica, contro le verità della coscienza naturale, contro le leggi e i principi vigenti nella loro immediatezza. Quindi, anche contro la religione che precedentemente sostituiva il pensiero: gli dei decidevano e si obbediva facendo quello che volevano gli dei. E ciò che alla rappresentazione appare saldo nel pensiero si dissolve... Vi ricordate di Zenone: lo vedo ma non lo posso dimostrare, lo vedo ma non so che cos’è. Ecco ciò che appare saldo alla rappresentazione: lo vedo, sì, ma non so determinarlo, non so che cos’è. …e lascia così da un lato che la soggettività particolare faccia di se stessa un primo e un saldo e riferisca tutto a sé. Tutto diventa pensiero, cioè, il pensiero diventa onnipotente: questo con i sofisti. Si può affermare che i Sofisti furono i maestri della Grecia e che per merito loro la cultura in generale venne per la prima volta all’esistenza in Greci. In tal modo essi sottentrarono ai poeti e ai rapsodi che precedentemente erano stati i maestri universali. La religione, difatti, in Grecia non era docente perché non si impartiva con essa alcun insegnamento; i sacerdoti offrivano sacrifici, profetavano e interpretavano gli oracoli, ma l’insegnamento è tutt’altra cosa. I Sofisti invece hanno insegnato la sapienza, le scienze in generale, la musica, la matematica, ecc. e a questo mirarono in particolar modo, a insegnare. Prima di Pericle il pensiero, la riflessione aveva risvegliati in Grecia il bisogno della cultura; gli uomini aspiravano a venire istruiti nelle loro rappresentazioni, dovevano venire avviati ad agire nelle loro contingenze con la scorta del pensiero e non più semplicemente degli oracoli. Questo è il passaggio decisivo. Oppure del costume, delle passioni, delle impressioni del momento, come del resto in generale è scopo dello Stato universale, cui viene concepito come subordinato il particolare. I Sofisti, in quanto ebbero di mira e diffusero questa cultura, costituirono quasi un ceto a sé, che esercitava l’insegnamento come affare o industria, come professione, sostituendosi alle scuole. Essi peregrinarono per le città della Grecia istruendo la gioventù. /…/ L’uomo colto sa dire qualche cosa su qualunque argomento e trovare punti di vista relativi ad esso. Orbene, di questa cultura la Grecia è debitrice ai Sofisti… La Grecia, quindi, il pianeta intero. …che insegnarono agli uomini ad avere dei pensieri su ciò che doveva aver valore per loro. Hanno insegnato a pensare. Per la prima volta qualcuno insegna a pensare. Zenone non si era interessato a insegnare, neanche Parmenide; pensavano, certo, hanno creato pensieri potenti, ma questo passaggio dal pensiero all’insegnare il pensiero è stato opera dei sofisti. Ecco perché dice La loro cultura avviava così alla filosofia come all’eloquenza. Per conseguire questo loro scopo i Sofisti sfruttarono la brama di diventare sapienti. Hanno sfruttato la volontà di potenza. Infatti, la sapienza consiste nel conoscere ciò che costituisce potenza fra gli uomini e nello Stato. È ciò che io debbo riconoscere come tale. Conosciuta questa potenza so anche indurre gli altri ad agire secondo il mio fine. Da ciò nacque l’ammirazione di cui furono fatti segno Pericle e altri uomini politici, che sapevano appunto quel che volevano e avevano la capacità di collocare gli altri al loro giusto posto. È potente l’uomo che sa far risalire le azioni degli uomini agli scopi assoluti, che mettono in movimento gli uomini. Questo è il potente insegnamento retorico. È potente l’uomo che sa far risalire le azioni degli uomini agli scopi assoluti, cioè, dare o far credere di dare a qualcuno uno scopo assoluto, uno scopo grande, che sia più grande di lui, che sia la cosa più importante. Mostrargli questo, mostrare che lui partecipa di questa cosa così grande, questo è il principio fondamentale della retorica. Quindi i Sofisti presero a insegnare appunto che cosa sia la potenza nel mondo. Qui la potenza è diventata connessa con il sapere. Ciò arriverà fino a Dante e oltre. Chi più sa più vale, diceva Dante. E siccome solo la filosofia sa che la potenza risiede nel pensiero universale, che dissolve ogni particolare… Il pensiero universale sono i concetti, i significati. …essi divennero anche filosofi speculativi. Non furono veri e propri scienziati, già per il fatto che non esistevano ancora scienze positive e separate dalla filosofia, incapaci nella loro aridità di cogliere il complesso dell’uomo nei suoi lati essenziali. Quindi, vediamo come l’eloquenza in quel momento particolare diventa fondamentale. E, infatti, lì sorgono i grandi retori: Gorgia, Demostene, Lisia e lo stesso Pericle. È l’epoca dei grandi oratori, l’epoca dell’eloquenza. L’arte di assoggettare gli eventi a quelle forze… Cioè, alle mie. …è insegnato dall’eloquenza, la quale s’avvale appunto dell’ira e della passione suscitate negli ascoltatori per conseguire un dato fine. Perciò i Sofisti divennero in modo particolare maestri dell’eloquenza. Questo è infatti il mezzo col quale l’individuo può acquistare potenza fra il popolo e anche portare ad effetto ciò che ritiene il bene del popolo. Questo sarà poi Socrate. Il che supponeva naturalmente una costituzione democratica nella quale l’ultima decisione spettasse ai cittadini. Se c’è un tiranno, a che cosa gli serve persuadere il popolo, che da parte sua non può fare niente? Ci deve essere uno Stato in cui decidono i cittadini; allora, sì, devo persuadere i cittadini del bene di una certa cosa. Fare questo, persuadere i cittadini del bene di una certa cosa, ha un nome in retorica, si chiama discorso epidittico, quello col quale si accendono gli animi. Siccome in tal modo l’eloquenza diventava uno dei requisiti più necessari per governare un popolo o per persuaderlo di qualche cosa muovendo dal suo modo di intendere, i Sofisti preparavano a quella che era la vocazione generale della vita greca, preparavano alla professione di uomo politico. Non già per avventura a quella di impiegato, quasi che preparassero ad un esame su conoscenze speciali, ma all’eloquenza s’appartiene specialmente l’abilità di mettere in rilievo i molteplici aspetti di una data questione, e di far valere quelli che sono d’accordo con ciò che a me pare più utile. Essa consiste dunque nell’insegnare a saper mettere in rilievo nel caso concreto gli aspetti più utili allo scopo e tenere nell’ombra invece gli altri. Questo è un altro aspetto della retorica, che viene oggi utilizzato ininterrottamente. L’abilità, che dovevano procurare i Sofisti, era quella precisamente di aver presente allo spirito gli svariati punti di vista e di poter disporre immediatamente di questa ricchezza di categorie nello svolgimento di un argomento. Avere presente immediatamente tutti i punti di vista in modo da poter utilizzare quello più utile al momento. Socrate e Platone hanno preso a lottare coi Sofisti e si sono contrapposti ad essi. Il compito assuntosi dai Sofisti in Grecia era di dare in generale al loro popolo una cultura più elevata. In tal modo acquistarono bensì delle grandi benemerenze verso la Grecia ma al tempo stesso andarono incontro all’accusa che suole colpire la cultura. Infatti, i Sofisti, essendo diventati maestri nell’arte di ragionare per argomenti e trovandosi dentro la cerchia del pensiero riflessivo, si proposero procedendo dal particolare all’universale di svegliare con rappresentazioni ed esempi l’attenzione su ciò che all’uomo, sulla base della sua esperienza, dei suoi sentimenti, ecc., sembra il giusto. Senonché questo corso necessario della libera riflessione pensante, che è stato adottato dalla cultura anche presso noi moderni, doveva oltrepassare i limiti della fiducia e della fede ingenua nel costume nella religiosità dominante. È chiaro che prima o poi li mettevano in discussione. Che però i Sofisti si siano inoltre compiaciuti di principi unilaterali significa propriamente che nella cultura greca non era ancor giunto il tempo in cui dalla stessa coscienza pensante si potessero ricavare i principi ultimi e, quindi, si potesse pervenire a qualche cosa di solido come fondamento, come nei tempi moderni. Qui è da vedere, perché non era nell’intenzione dei sofisti di stabilire dei principi saldi, ultimi. Lo stesso Socrate, lo vedremo, che diceva che occorre inseguire il bene, quando però si metteva a discutere con gli altri metteva in crisi le loro credenze come facevano i sofisti, ma di fatto non c’è nessuna conclusione nei dialoghi di Platone e quindi di Socrate, non giunge a nessuna affermazione, a nessun teorema, direbbe la logica, ma lascia la questione aperta. C’è una differenza fondamentale tra i sofisti e Socrate: Socrate lascia la questione aperta, però credendo che sia possibile chiuderla, che fosse possibile raggiungere il bene assoluto; i sofisti no, loro sapevano che non era possibile, e quindi non avevano la velleità di giungere a qualcosa di fermo, di solido, di stabile, non gliene importava assolutamente niente. Per quel che concerne l’aspetto intrinseco il pensiero ragionante, diversamente da quello di Platone, è contraddistinto specialmente dal fatto che il dovere, ciò che si deve fare, non è ricavato dal concetto in sé e per sé della cosa bensì da motivi estrinseci, coi quali si decide sul giusto e sull’ingiusto, sull’utile e sul dannoso. Com’era prima nei Greci, cioè, si decide per via di qualche cosa di estrinseco, perché l’ha detto il dio, perché la tradizione lo vuole, ecc. Adesso invece si cerca il bene dall’argomentazione. Capite che qui il passaggio è notevole, perché l’argomentazione è fatta di linguaggio. Come dire che l’argomentazione incomincia a diventare onnipotente, anche se non se ne accorgevano. Infatti, Socrate immaginava ancora che discutendo, dialogando, quindi, argomentando, fosse possibile raggiungere la conoscenza del vero bene, ma sono argomentazioni. Ora, non è che i sofisti ne fossero totalmente consapevoli; semplicemente sfruttavano il fatto che con l’argomentazione è possibile andare in qualunque direzione e chiaramente seguivano quella che più conveniva. Incomincia a crearsi con Socrate una sorta di mito dell’argomentazione, che poi prevarrà fino ad oggi, e cioè il fatto che attraverso l’argomentazione sia possibile giungere al vero essere, alla verità. È per questo che l’argomentazione diventa così importante e diventa lo strumento che si utilizza anche senza sapere di che cosa è fatto esattamente, ma che è lo strumento che si utilizza per giungere all’essenza delle cose, alla vera essenza. Ma, torno a dire, sono argomentazioni, sono costruzioni. Gli eleati se ne erano accorti, ma anche i sofisti in buona parte, che l’argomentazione può andare da qualunque parte a seconda di cosa si sceglie come premessa: se si sceglie una cosa, l’argomentazione andrà in una direzione; se si sceglie un’altra premessa, andrà in un’altra direzione; sempre correttamente, sempre costruendo argomentazioni corrette, ma è la premessa che è diversa. Questo fu il problema di Aristotele: come troviamo una premessa universale che debba valere sempre? Vale a dire, quella premessa che muove tutto ma che non è mossa da nulla, cioè, non ha altre argomentazioni, è lei stessa l’argomentazione. Naturalmente, Aristotele non lo trova, non lo trova perché non poteva trovarlo, perché l’unica cosa che risponde a questa domanda è il linguaggio. È il linguaggio che non può avere altro al di fuori di lui, che non è il frutto di argomentazioni, ma è lui che crea argomentazioni. Quindi, è un momento storico interessante, anche travagliato intellettualmente, nel senso che si stava incominciando ad accorgersi della potenza del pensiero. E la prima cosa che è stata fatta con i sofisti è stata quella di utilizzarlo a proprio vantaggio, cioè mettere a frutto tutto questo a vantaggio della volontà di potenza. Ma una volontà di potenza – sta qui il punto – che ancora non aveva quell’arma creduta così potente come la logica, ma aveva solo la retorica, la persuasione. Giustamente, perché sapevano che le premesse sono arbitrarie, non c’è modo di stabilire con assoluta certezza una premessa, mentre la logica crede di potere muovere da una premessa certa. Ancora oggi si pensa così: in logica, nella costruzione di teoremi logici, si muove da un assioma; l’assioma non è nient’altro che una proposizione sempre vera. In base a che cosa? In base ai criteri di verità, alle tavole di verità. Si crede, quindi, di partire da qualcosa di certo, ma in fondo è una tautologia, ma la tautologia non dice niente, non garantisce niente. C’è un problema che è insito nella natura del pensiero. Una volta reso incerto e vacillante dalla riflessione il campo dei motivi di ciò che per la coscienza valeva come certo, quale sarà lo scopo ultimo? Non si può difatti fare a meno di qualche cosa di saldo… Naturalmente, neanche Hegel sa perché. Orbene, questo sarà o il bene, l’universale oppure l’individuale, all’arbitrio del soggetto, e le due cose si possono anche trovare congiunte, come apparirà più tardi in Socrate. Nei Sofisti l’individuo era l’ultimo appagamento di se stesso, e mentre rendevano incerta ogni cosa il loro punto saldo diventava questo: io mi pongo come fine il mio piacere, la mia vanità, la mia fama, il mio onore e la mia particolare soggettività. Dopo tutto, perché no? Chiaramente, è l’apoteosi della volontà di potenza. Come dicevo prima, nel momento in cui si accorsero della straordinaria potenza del pensiero, e cioè del linguaggio, immediatamente la volontà di potenza è andata nella direzione della costruzione di argomentazioni, e non poteva non essere così: nel momento in cui il pensiero si accorge della sua potenza incomincia a trovare gli strumenti per metterla in atto e gli strumenti sono le argomentazioni, i sillogismi. Arriviamo a Protagora di Abdera. Abdera era un paesino della Grecia. Protagora fu anche lui cacciato come Anassagora, bandito da Atene. La causa di questa condanna è stata un suo scritto che incominciava così: “Quanto agli dei io non so dire, né che esistano né che non esistano, giacché molti sono gli impedimenti a saperlo, così come l’oscurità della cosa e la brevità della vita umana”. Questo libro fu anche arso pubblicamente in Atene per ordine dello Stato e a quanto si sa fu il primo a cui toccò questa sorte. Ma non l’ultimo. … L’uomo è la misura di ogni cosa, di ciò che è a quel modo che è, di ciò che non è a quel modo che non è. Occorreva da un lato intendere il pensiero come determinato e come pieno di contenuto; dall’altro lato, scoprire anche ciò che determina il dà il contenuto; appunto questa determinazione universale è quella che fornisce la misura del valore di ogni cosa. Cosa è accaduto con l’argomentazione, incominciando a utilizzare, a sfruttare l’argomentazione? Si è incominciato a determinare le cose, cioè, a dire che cosa sono, a determinarle. Determinandole, si è pensato che fossero determinabili. Questo è stato l’“inganno”, l’abbaglio che ancora oggi funziona: siccome io determino le cose, e se le penso le determino, come diceva Gentile: il pensiero pensato è il modo che ho di pensare il pensiero pensante, non posso pensarlo se non come pensiero pensato, cioè, come determinato, allora, se lo determino, allora è determinabile. Vedete il passaggio immediato alla costruzione della realtà, cioè, al determinato, al pensiero che le cose stanno così. Chiaramente, un abbaglio che, sì, è determinato ma è determinato in quanto lo sto pensando, in quanto lo sto dicendo. Ma che cosa manca? Ci sono voluti più di duemilacinquecento anni per accorgersene. Manca questo elemento, che qualcosa è determinabile a condizione che ci sia l’indeterminabile, che ci sia l’πείρων. Questo in Anassimandro: è vero che posso determinare, ma non potrei determinare se non ci fosse l’indeterminato, cioè, se non ci fosse il linguaggio. Quindi, posso determinare a condizione del linguaggio, cioè, dell’indeterminato. Il linguaggio non ha termine, non lo chiudo da nessuna parte. Questo è l’abbaglio di cui dicevo, abbaglio inevitabile se non ci si accorge che per determinare occorre che ci sia l’indeterminato o, per dirla con Severino, per cogliere l’astratto occorre che ci sia il concreto. Evocando la famosa “lampada che è sul tavolo”, non posso cogliere questa lampada come astratto se non per il fatto che questa lampada è sul tavolo, cioè, è insieme con infinite altre cose; allora c’è anche la lampada e, quindi, essendoci la lampada, posso determinarla, astrarla, farne quello che mi pare. Quindi, questo è l’elemento che era mancante allora e che è rimasto mancante per una infinità di tempo, ancora oggi è pressoché mancante ovunque, e cioè che posso determinare perché c’è l’indeterminato; ma il fatto che posso determinare qualcosa induce quindi a pensare che sia determinabile, in assenza dell’indeterminato. Sarebbe l’astratto dell’astratto, cioè, l’astratto pensato come il concreto, per cui è tutto qui, la lampada è tutta qui. No, la lampada non è tutta qui, la lampada è quella che è perché è qui sul tavolo, perché è circondata da miliardi di cose, di pensieri, di immagini, di reminiscenze, per cui la lampada per me è qualche cosa che esiste. Per un bruco la lampada non è né sul tavolo né altrove, semplicemente non è. L’uomo è misura in quanto pensa e si dà un contenuto universale. Questo è stato l’altro elemento importante: pensare significa costruire concetti, cioè, costruire universali. E, allora, si è cominciato a cercare questi universali, perché il particolare è sempre una cosa soggettiva che sfugge e che ha poco valore, è l’universale che occorre trovare; qui interverrà poi Platone con tutta la potenza del suo pensiero. L’universale è molto semplicemente il significato, il che cosa significa una certa cosa: se trovo il significato di questa cosa trovo l’universale, cioè, il significato di questa cosa e di tutte quelle simili. È così pronunciata la grande parola, che costituirà il perno intorno al quale si muoverà ogni cosa, giacché il progresso ulteriore della filosofia si limita alla semplice delucidazione di questo principio. Esso significa soltanto che la ragione è il fine di tutte le cose. Più esattamente, questo principio è l’espressione di quel notevolissimo rivolgimento, secondo il quale ogni contenuto, tutto l’oggettivo è solo in quanto si riferisce alla coscienza. Qui c’era già in nuce la questione, perché dice e, quindi, in ogni vero si esprime ormai come momento essenziale il pensiero. In tal modo l’assoluto assume la forma della soggettività pensante, come appare con molta evidenza specialmente in Socrate. Poiché l’uomo, come soggetto in generale, è la misura di ogni cosa, ciò che è non soltanto è ma è per il mio sapere. Vedete che poi anche Gentile non è che sia andato lontanissimo. Sì, ha fatto cose importanti, ma erano già qui. Il contenuto dell’oggetto in sostanza è prodotto dalla coscienza. Vi rendete conto, è stato detto duemilacinquecento anni fa. L’attività essenziale è dunque quella del pensiero subiettivo. Vale a dire, le cose sono per la mia coscienza. È il primo modo di pensare che ciascuna cosa è in relazione ad altro. L’uomo è misura di tutte le cose, cioè, le cose sono a misura mia, queste cose sono in quanto sono in relazione a qualche cosa, a me che le sto pensando. Da qui Gentile: quando penso qualche cosa, di fatto sto pensando il mio pensiero, qualcosa che è relativo a me. L’immediata ulteriore determinazione implicita nel principio di Protagora (l’uomo è misura di tutte le cose)… egli dice “La verità è ciò che appare alla coscienza, non è una cosa unica in sé e per sé, ma tutto ha soltanto verità relativa, vale a dire, ciò che è lo è soltanto per un altro”. Che è l’uomo, solo l’uomo parla, solo per l’uomo qualcosa può essere in relazione. Ma era già presente nel pensiero; nel momento in cui il pensiero ha incominciato ad argomentare ci si è accorti della distanza che c’è nel linguaggio, senza vederla, senza ravvisarla, però i sofisti hanno colta questa distanza. Protagora l’ha colta a modo suo: l’uomo è misura di tutte le cose, cioè, queste cose sono per me, cioè sono per altro, non sono per sé, per sé non c’è niente; senza me che parlo queste cose non ci sono, non sono mai esistite, esistono per chi? E qui è partita la teoria della relatività, non quella di Einstein ma la relatività come la condizione di esistenza di qualunque cosa: qualunque cosa è in quanto è relata. Come diceva già Hegel, questa relazione è tale per cui non posso toglierne una senza togliere anche l’altra: è questa la questione fondamentale. Ancora un passo su Protagora. Ma se ora anche l’esperienza è stata chiamata a buon diritto apparenza, cioè qualcosa di relativo, perché non si verifica se non è determinata dall’attività dei nostri sensi o dalle categorie del pensiero, cioè per altro, era però necessario che quell’Uno, quell’alcunché di intimo, quell’universale che permea tutta l’esperienza, e che Eraclito chiama necessità, fosse recato alla coscienza. Con i sofisti la coscienza prende veramente il posto che deve occupare, e cioè la consapevolezza di sé, del fatto che si parla, del fatto che si pensa. Si vede che Protagora possiede una grande forza di riflessione ed è precisamente la riflessione sulla coscienza che è pervenuta in lui alla coscienza. Ma questa è la forma dell’apparenza, la quale fu poi di nuovo assunta dagli scettici posteriori. L’apparire non è l’essere sensibile. Quando io pongo questo come qualcosa che appare, affermo a un tempo anche il suo niente… Se mi appare e non c’è un rinvio, se non è in relazione a qualche cosa, è niente. Senonché l’affermazione che ciò che è è soltanto per la coscienza oppure che la verità di tutte le cose è l’apparire di esse per e nella coscienza, sembra contenere un’intima contraddizione. Sembra, infatti, che vi si affermino due cose opposte: da un lato, che niente sia in sé come appare… Perché è tutto nella coscienza. …e dall’altro che sia vero come appare. Senonché al positivo, che è il vero, non si deve dare significato oggettivo, quasi che per es. una data cosa sia bianca in sé così come appare... La questione qui è quella che poi verrà direnta da Hegel con l’in sé e il per sé e con l’Aufhebung, cioè con l’integrazione dei due momenti. La cosa appare così come l’essere semplice, è l’in sé, ma questo in sé non dice nulla se non c’è il per sé, se non c’è il significato, l’universale; sono, quindi, entrambi necessari, non possono darsi l’uno senza l’altro. il momento della coscienza, posto in risalto da Protagora, secondo cui l’universale esplicato ha in lui il momento del negativo dell’essere per altro… Ciascuna cosa, se è in relazione, è sempre per altro. …deve adunque affermarsi come un momento necessario, ma in quanto è soltanto per sé e isolatamente è unilaterale… Perché è altrettanto necessario anche il momento dell’essere in sé. Siamo a Gorgia, che fu anche uno dei più grandi retori dell’antichità. Gorgia di Lentini, in Sicilia, nella Magna Grecia. Si dice che sia stato discepolo di Empedocle, conobbe tuttavia anche gli eleati e la sua dialettica risente della loro maniera e del loro metodo. Difatti, Aristotele, che ci ha conservato questa dialettica nel Libro, pervenutoci soltanto frammentariamente, De Senophane, Zenone et Gorgia, lo cita insieme con essi. La dialettica di Gorgia ci è stata tramandata diffusamente anche da Sesto Empirico. Egli fu valente nella dialettica oratoria ma si distinse specialmente nella dialettica pura applicata alle categorie universalissime dell’essere e del non essere, è vero dire non alla maniera dei Sofisti. E qui il Tinnemann, contro cui si scaglia spesso Hegel, afferma molto erroneamente che Gorgia è andato molto oltre il segno cui può giungere un uomo di buon senso. Gliel’ha offerta a Hegel su un piatto d’argento. Questo avrebbe potuto dirlo di ogni filosofo. Infatti, ogni filosofo va oltre ogni sano intelletto umano, perché ciò che suol chiamarsi sano intelletto umano non è filosofia e spesso è tutt’altro che sano. Il sano intelletto umano contiene il modo di pensare le massime e i pregiudizi della proprietà ed è governato dal pensiero determinato di essa senza averne coscienza. In questo senso certamente Gorgia è andato più in là del sano intelletto degli uomini. /…/ La dialettica di Gorgia si muove nei concetti in maniera più pura che non quella di Protagora. La relatività o il non essere in sé di ogni essere, affermata da Protagora… Protagora ha affermato l’in sé e il per sé, ma ha mancato l’Aufhebung. …e soltanto in relazione ad un altro, che per lui è essenziale, gli ha punto la coscienza. La maniera in cui Gorgia mostra il non essere in sé dell’essere è perciò più pura perché quello che vale come essenza egli lo prende in se stesso senza presupporre quell’altro; ne fa pertanto vedere la nullità in lui stesso e ne distingue il lato soggettivo e l’essere che è per esso. Secondo Sesto Empirico, Adversus mathematicos, lo scritto di Gorgia Della natura, la dialettica è divisa in tre parti. Nella prima egli dimostra che oggettivamente nulla esiste; nella seconda, soggettivamente, che seppure esiste qualcosa esso non è conoscibile; nella terza, a un tempo soggettivo e oggettivo, che se anche fosse e potesse conoscersi non sarebbe tuttavia possibile comunicare il contenuto conosciuto. Naturalmente, un’affermazione come quella di Gorgia è impegnativa. Nulla è: intanto dà esistenza al nulla, se è, è qualcosa. Poi, estendendo alla locuzione “nulla è”, beh, questa è un’affermazione, e un’affermazione non è nulla ma è qualcosa, per l’appunto un’affermazione. Quindi, qui c’è un paradosso, un’aporia, perché pone proprio il paradosso principale, il paradosso in cui il porsi di qualche cosa si pone dicendo di non porsi. Chiaramente, ci si trova in imbarazzo di fronte a una cosa del genere. Non sto affermando: anche questa è una contraddizione. Sono i paradossi più comuni, più diffusi, quelli che affermano di non fare ciò che stanno facendo o, più propriamente, di non dire ciò che stanno dicendo. Abbiamo qui determinazioni di pensiero molto astratte, i momenti più speculativi dell’essere e del non essere, del conoscere e del conoscere che si fa ente e che si comunica, né queste sono chiacchiere, come si suol credere, e l’etica è di natura affatto oggettiva e di contenuto interessantissimo. Allora, comincia dicendo “se qualcosa è”. Questa è l’argomentazione di Gorgia che ci è stata tramandata da Sesto Empirico, di Gorgia mi sembra sia rimasto solo l’Encomio a Elena, in cui doveva difendere Elena dall’accusa di avere fatto tutti i malanni. “Se qualcosa è”, ma questo qualche cosa è però un ripiego a cui abbiamo l’abitudine di ricorrere nella nostra lingua sebbene sia propriamente poco adatto, implicando l’opposizione di un soggetto e di un predicato, mentre invece si tratta soltanto dell’è; dunque, se l’è è l’essere o il non essere o l’essere e il non essere insieme. E dimostra (Gorgia) che non è alcuno dei tre casi. È curioso che parta non dall’essere ma dal non-essere. Il non essere non c’è poiché se ci fosse sarebbe e non sarebbe insieme. Infatti, in quanto vien pensato non essere non è, ma in quanto è non essere invece sarebbe. È non essere. Come diceva prima “Nulla è”, quindi, è qualcosa. E, altrimenti, se il non essere c’è allora l’essere non c’è, giacché sono contrari tra loro. Se adunque al non essere toccasse di essere, all’essere toccherebbe di non essere; ma come l’essere non è, così non è il non essere. Ecco il genuino modo di ragionare di Gorgia. Se al non essere toccasse di essere, all’essere toccherebbe di non essere; ma come l’essere non è, così non è il non essere. È giunto a considerare che l’essere non è a partire dal non essere, chiedendosi se il non essere sia, perché se è allora non è non essere. Ma se non è non essere è essere, perché sono due negazioni che si escludono: dicendo che non è non essere sta affermando l’essere. Ma abbiamo visto che il non essere non è, perché se il non essere fosse allora non sarebbe non essere. Vi rendete conto della finezza del ragionamento di Gorgia, che sfrutta l’argomentazione, sfrutta la possibilità di attribuire significati alle parole. È ovvio che facendo questo discorso attribuisce all’essere un certo significato, che è quello che a lui serve; così come alla negazione attribuisce il significato che a lui serve. Continua Aristotele nel passo citato Però, nel dare la prova che l’essere non è egli segue lo stesso procedimento di Melisso e di Zenone. Si tratta cioè della dialettica che abbiamo già incontrata presso di essi. Se l’essere è, è contraddittorio predicare di esso alcunché di determinato. Qui Aristotele lo critica mutando il significato di essere, cioè dando all’essere un significato che è quello che intende Aristotele, perché dice Se l’essere è, è contraddittorio predicare di esso alcunché di determinato. Però, Protagora non diceva esattamente questo, semplicemente valutava l’essere e il non essere, senza nessuna determinazione. È chiaro che se incominciamo a riflettere sul fatto che per parlare dell’essere occorre fornirgli una determinazione e che, quindi, questo essere è altro da sé, allora cambia tutto il discorso. Qui non dobbiamo intendere essere e non essere come enti di natura, ma come arguzie argomentative, pure e semplici. Invece, Aristotele, da persona seria qual era, vede subito essere e non essere come enti di natura. Lui dice no, perché l’essere deve essere determinato. E se noi facciamo ciò affermiamo di esso alcunché di affatto negativo. Cioè: se lo determiniamo vuol dire che c’è. Infatti, Gorgia dice che l’essere è, o in sé e senza principio oppure generato, e dimostra che non può essere né l’una cosa né l’altra perché ciascuna condurrebbe a contraddizioni. Già affermare che l’essere è, è una contraddizione di per sé, ma a Gorgia interessava poco questa cosa, a lui interessava mostrare che cosa può fare l’argomentazione. Questo è il suo obiettivo: che cosa si può fare con le parole. …né può essere in sé, giacché ciò che è in sé, non avendo principio, è infinito e, quindi, indeterminato e indeterminabile. L’infinito non è in alcun luogo, perché se fosse in qualche luogo ciò in cui è sarebbe diverso da esso. Dove è è in altro, orbene, non è infinito ciò che è diverso da un altro o contenuto in un altro. Anche qui, vedete, queste nozioni di luogo, di infinito, ecc., non sono da prendere come enti di natura, sono argomentazioni, costruzioni. Lui sta mostrando come è possibile costruire dei paradossi, come è possibile piegare il linguaggio facendogli dire tutto quello che si vuole. L’infinito non è. Da un lato, questa dialettica di Gorgia contro l’infinito è limitata poiché l’essere immediato non ha bensì né principio né limite, ma pone il progresso all’infinito. Senonché il pensiero in sé, il concetto universale, ha in quanto negatività assoluta il limite in se stesso. Come dire che il limite del significato è il significante, il limite del per sé sta nell’in sé. Da un altro lato Gorgia ha perfettamente ragione. Infatti, l’infinito sensibile, il falso infinito, non è presente in alcun luogo e, quindi, in sostanza non è, è soltanto un al di là dell’essere. Noi però dobbiamo ammettere, come diversità in generale, ciò che Gorgia chiamava diversità di luogo. L’essere non è contenuto in qualche cosa, non può nascere né morire. In maniera analoga Gorgia dimostra che l’essere dovrebbe essere o uno o molti, che potrebbe anche essere né l’una cosa né l’altra. Le sue argomentazioni puntano sempre a mostrare che i due corni del dilemma sono equivalenti, nessuno dei due prevale sull’altro. Questo è il principio fondamentale della sofistica: mostrare come i due corni del dilemma sono la stessa cosa. Poi, sarà Hegel a integrarli con l’Aufhebung, ma uno non ha nessuna priorità sull’altro, cioè l’essere è infinito ma è anche no. Se esso (l’essere) non è Uno non può nemmeno molti, giacché molti è molti Uno. Parimenti essere e non essere non possono esistere contemporaneamente, giacché il non essere non è e, quindi, anche l’essere, che è identico con quello; né essi possono viceversa essere l’uno e l’altro, giacché se sono identici io non posso parlare di due e, dunque, non sono l’uno né l’altro; infatti, quando dico l’uno e l’altro dico diversi. Questa dialettica, che anche Aristotele attribuisce specificatamente a Gorgia, ha la sua perfetta verità allorché si parla di essere e non essere si dice sempre anche il contrario di ciò che si vuol dire. Su questo si basa la sofistica: dicendo una qualunque cosa si ammette necessariamente anche l’esistenza della contraria. Mercoledì prossimo ci occuperemo di Socrate. Con Socrate avviene ancora un altro passaggio. Contrariamente a ciò che hanno fatto i sofisti, Socrate illude che uno dei due corni del dilemma sia quello giusto. Non lo dice mai, in nessun dialogo afferma una conclusione, ma allude al fatto che uno dei due debba essere per forza vero, perché il bene è il fine ultimo e, quindi, ci deve essere per forza il vero bene.