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14 giugno 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Tutto ciò che abbiamo letto, detto, considerato in tutte queste pagine ci porta a queste poche righe, in cui Heidegger pone la questione essenziale. Tutto è riassunto qui, in queste poche righe. A pag. 276. Aristotele fornisce una formulazione diversa, più precisa, ripetendo costantemente: in ogni prendersi cura sono compresenti sia la ἡδονή che la λύπη (soddisfazione e insoddisfazione), in ogni πάθος, ma anche, analogamente, in ogni percepire, pensare, ponderare, nonché nella θεωρία. Tutti questi casi, nella misura in cui si tratta di modi fondamentali della vita, sono inseparabilmente accompagnati dalla ἡδονή. Ecco, ha detto quello che c’era da dire. Ha detto che sono le emozioni ciò da cui si parte, sono ciò che costituisce l’avvio di ogni pensiero, e ci ha detto di che cosa sono fatte le emozioni: di soddisfazione e insoddisfazione. Sottolinea però che questi due momenti sono inseparabili, si coappartengono. Sappiamo anche perché si coappartengono. In tutto ciò che abbiamo visto fino ad adesso una cosa è stata importante. Quando affermo qualcosa – per controllarla, per dominarla, questa cosa che affermo, che deve essere fermata, costituisce anche un problema, perché quella cosa è quella che è, come dicevano gli antichi, πρός τί, in relazione a un’altra: ciascuna cosa è quella che è in relazione a un’altra, in vista di un’altra. Ora, dominare una cosa, controllarla, conoscerla, determinarla, ecc., è ciò che consente la soddisfazione, ma questa soddisfazione non può eliminare la insoddisfazione, che procede dal fatto che ciò che sto controllando è quello che è in vista di altro; ma per controllarla deve essere quello che è, sennò non controllo nulla, e questa cosa lo è quello che è, ma in vista di altro; da qui l’insoddisfazione. Stiamo usando questi termini, soddisfazione e insoddisfazione, non del tutto appropriati ma che rendono conto bene del fatto che questi due termini sono, come direbbe Hegel, due momenti dello stesso, non c’è l’uno senza l’altro, per il motivo che per dominare una cosa deve essere quella che è ma è quella che è in virtù di ciò che non è. Ciò che quella cosa non è, è il nemico. Lo diceva anche Platone, l’Uno è il bene, i molti sono il male, e cercava di separarli. Separandoli, immediatamente creo il nemico, perché se quella cosa che affermo posso affermarla solo a condizione che non sia ciò che è – perché comunque è sempre in vista di altro – allora per identificarla, e quindi per identificarmi, ho bisogno del nemico. Per dirla in termini un po’ rozzi, la mia esistenza dipende dall’esistenza del nemico, senza nemico io non esisto. Questo rende conto del motivo per cui le cose sono andate così come sono andate in questi ultimi due milioni di anni, giorno più giorno meno. Questo nemico sono i molti nella tradizione antica, i molti – Platone lo sapeva – sono ciò che impedisce di determinare l’Uno in quanto tale, in quanto Uno. Questo in Platone, ma ricordate Eraclito: ἒν πάντα εἰναι, l’uno è tutte le cose, cioè, l’uno è i molti o, se vogliamo usare i termini rozzi di prima, l’amico è il nemico. È quando si tengono separati che in realtà si crea il nemico, sennò amico e nemico sono lo stesso, quindi, in fondo non c’è né l’uno né l’altro. Tenere separate le due cose, come abbiamo detto tante volte, è la condizione perché possa esserci il nemico, nemico che è indispensabile per la mia esistenza, ma in un ambito religioso, perché soltanto religiosamente si separano le due cose. Nel momento in cui separo l’uno dai molti, in quello stesso momento ho creato la religione, cioè il bene e il male, ché nella religione vanno tenuti ben separati, sennò la religione perde la sua ragione di esistere. Questo ci porta immediatamente a un’altra considerazione. L’emozione, così come la descrive Aristotele, è fatta di soddisfazione e insoddisfazione, simultanee e non separabili. Però, si può tentare di separarle, così come si fa con l’uno e i molti, con l’amico e il nemico, ed è in quel caso che interviene la possibilità di credersi dio. Nel momento in cui le due cose si separano la fantasia è quella di avere il controllo totale sulla cosa. Un controllo totale per cui, come dicevamo qualche volta fa, è come se ogni volta che affermo qualche cosa è come se creassi dio, o come se lo fossi perché sono io che creo dal nulla le cose. Quindi, ecco che sorge la possibilità di credersi dio, ma qui occorre distinguere. Il dio dei cristiani è quel dio che ha il massimo potere su tutto, quel dio che ha la potenza assoluta. Ciascuno a modo suo accarezza questa idea, che si può naturalmente manifestare in tanti modi. Ma se io creo le cose dicendole o, più propriamente, se posso determinarle, le faccio esistere così come sono grazie al mio potere, perché io so come stanno le cose. Generalmente, non si pensa di crearle ex nihilo, ma di sapere esattamente cosa sono, quindi, di averle fermate, perché soltanto fermandole posso affermare con certezza che cosa sono. È il dio nella massima potenza immaginabile. In fondo, è quello che aveva pensato Anselmo nella sua celebre prova ontologica dell’esistenza di Dio: è possibile pensare la cosa più grande in assoluto? Sì, la sto pensando, quindi, è possibile. Alcuni dicono: sì, la pensi, puoi solo pensarla, ma non è reale. No, dice Anselmo, perché se la penso come la cosa più grande e non è reale allora manca di qualcosa, quindi, non è la cosa più grande; se è effettivamente la cosa più grande, e la posso pensare, allora è necessariamente anche reale, dunque Dio esiste. Questa è la prima volta in cui Dio appare come risultato di un calcolo. Quindi, è sempre pensato come la massima potenza e, pertanto, credersi dio è l’apoteosi della volontà di potenza. È un po’ differente, invece, la cosa che diceva Aristotele rispetto a dio. In Aristotele questo dio non è la massima potenza ma è, per dirla con Hegel, il pensiero assoluto, è il pensiero che pensa se stesso, il pensiero pensante. Questo pensiero pensante ha bisogno di altri? Il Dio dei cristiani, il Dio della massima potenza sì, ha bisogno degli adoratori, di gente che lo preghi e che faccia tutta una serie di cose. Il θεῖον di Aristotele, invece, se è pensiero pensante, ha bisogno di fedeli, di persone che lo adorano? Parrebbe di no, non saprebbe cosa farsene. Se proseguiamo questa sorta di allegoria si tratta a questo punto non di credere di essere dio ma di esserlo, in questa accezione ovviamente, in quella aristotelica, che vi ho appena illustrata.

Intervento: Sennò è delirio di onnipotenza.

È credersi dio, che è quello che fanno tutti. Ciascuno a modo suo crede di esserlo, in varie forme, come l’essere il più bravo, ecc., come quello che tutti devono riconoscere come il più bravo, ecc. La questione che pone Aristotele è invece di grande interesse, che è poi la cosa che ha ripreso Gentile, quando parlava del pensiero pensante. In effetti, quando penso qualcosa non penso la cosa, non la posso pensare, posso pensare solo il mio pensiero che la pensa, ma non posso pensare la cosa. Se penso la cosa, per pensarla devo fermarla. Sì, la fermo per pensarla, ma la fermo e, fermando la cosa, questa si rivela essere in quanto in vista di altro e, quindi, in realtà mai la stessa, mai ferma. E questo è il problema del linguaggio, cioè, devo fermare qualcosa, ma per fermarla devo fermarla in quanto qualcosa che è in vista di altro: come la fermo se è quella che è perché è in vista di altro? Non la fermo, posso fermarla con un atto di volontà, sempre tenendo conto che ciò che voglio fermare non è quella cosa che io posso identificare ma è sempre e soltanto un’idea, ciò che io fermo è comunque e soltanto un’idea e non la cosa; le cose non ci sono, le abbiamo inventate, costruite, create. Non ci sono le cose come referenti, come ancora voleva de Saussure, per il quale c’erano il significante, il significato e il referente: il significante, l’immagine acustica dell’albero; poi, c’è il significato, ciò che significa e, infine, il referente, l’albero in quanto tale. Questo albero, anche lui, è un’idea, non c’è in quanto tale: non c’è accesso alla cosa. Kant lo aveva intuito, anche se poi risolve la questione in modo alquanto discutibile, ma non c’è accesso alla cosa e se non c’è accesso alla cosa allora questa cosa l’ho inventata io, è una mia fantasia. Essere dio, nell’accezione aristotelica, comporta questo: sapere e non potere non sapere che le cose con cui ho a che fare non ci sono, ma sono invenzioni, fantasie. Ecco, quindi, che cosa comporta ciò che sta dicendo in queste poche righe: ἡδονή e λύπη sono la stessa cosa, sono due momenti dello stesso, non c’è soddisfazione senza insoddisfazione, non c’è un pensiero senza il negativo, direbbe Hegel: ciò che pongo lo pongo in relazione al suo negativo, è sempre in relazione a… Questo i greci lo avevano capito molto bene. Alcuni, i cosiddetti presocratici, lo avevano posto in modo evidente, altri, come Platone e in parte Aristotele, hanno cercato di rimediare a questo problema.

Intervento: È come se la soddisfazione coincidesse con l’ultima parola.

E che parola è quella? È la parola di Dio.

Intervento: Quando parla dello θεῖον parla dell’essere-sempre, dell’eterno.

Anche in quel caso Aristotele non è così determinato. Anche l’άεί ὅν, l’ente che è sempre, sì, è sempre, ma che cosa è sempre? È sempre πρός τί, in vista di, è questo che è sempre, che non può togliersi. Ed è per questo motivo che Aristotele, nelle parole di Heidegger, arriva a dire che la soddisfazione e l’insoddisfazione si coappartengono. Questa coappartenenza di soddisfazione e insoddisfazione non si può intendere se non si intende la questione del linguaggio: ecco dove si fermano tutti. Soltanto se si intende il linguaggio ci si rende conto che qualcosa posso determinarla, fermala, quindi, conoscerla, sempre e soltanto in quanto in vista di un’altra, perché è così che funziona il linguaggio: per determinare qualcosa lo determino con altro. Era il problema di Platone: determinare l’ente senza nient’altro che si aggiunga. Ma se non si aggiunge niente, è niente, perché è ciò che quella cosa non è che la determina. Di nuovo de Saussure: il significante è quello che è perché è in una relazione differenziale con tutti gli altri significanti. Se io togliessi tutti gli altri significanti scomparirebbe anche quello, è ovvio; sarebbe come immaginare una parola fuori dal linguaggio, coma la penso? È una contraddizione in termini. Quindi, ecco, può intendersi il tutto tenendo conto del funzionamento del linguaggio, sennò si arriva solo fino a un certo punto e ci si scontra poi contro un muro di gomma, che rimanda indietro continuamente e non consente di fare quel passo tale per cui ci si accorge che è parlando che avvengono queste cose. La filosofia ha pensato di descrivere le cose che sono; sì, sono ma sono perché le sto dicendo io in questo momento. Da qui anche il genio di Heidegger: sono io che sto dicendo, queste cose “ci” sono per me e “ci” sono per me in quanto soddisfazione e insoddisfazione. E questa è la situatività, cioè, il modo in cui mi situo: soddisfatto oppure no, se controllo sono soddisfatto, se non controllo sono insoddisfatto. Per Aristotele è questa l’emozione e ogni altra emozione è riconducibile a questo, a qualcosa che mi fa piacere o che mi fa dispiacere.

Intervento: Freud…

Il problema è che la quiete non c’è senza il movimento, il finito non c’è senza l’infinito, per cui la soddisfazione non c’è senza l’insoddisfazione. È questo che sta dicendo qui, lo dice chiarissimamente: ogni prendersi cura, in ogni percepire, pensare, ponderare, nonché nella θεωρία. La θεωρία muove dall’emozione, muove dal mio sentirmi situato, soddisfatto e insoddisfatto: se sono insoddisfatto cerco la soddisfazione, se un problema non mi soddisfa cerco la sua soluzione per ricondurre il tutto al noto, cioè al fermo, al determinato, allo stabilito, il quale non esiste – e qui sta il problema – non esiste senza l’indeterminato. Per questo vi dicevo prima che ciascuno esiste in relazione al nemico, ha bisogno del nemico per esistere, così come Dio ha bisogno dei fedeli o il padrone ha bisogno del servo. Altro, invece, come vi dicevo, il θεῖον di Aristotele, cioè il pensiero che pensa se stesso che, a questo punto potremmo dirla anche così, è quel pensiero che in ciascun atto, in ciascuna espressione, non può non tenere conto che ciascuna cosa è quella che è in virtù di un’altra, e quindi tiene conto del linguaggio, non può non farlo.

Intervento: La ricerca della felicità…

Anche linguisticamente, come determino la felicità? Come so di essere felice se non sono mai stato infelice? Ho sempre la necessità di avere il negativo per potere affermare il positivo, nel senso di ciò che ho posto; l’ho posto, sì, ma sempre in virtù di qualche altra cosa, che non è quella ma un’altra cosa, appunto il negativo. A è B, quindi, non è A ma B; per essere A non deve essere A. È un modo un po’ spiccio, però… Ecco perché adesso ci parla del φόβος, della paura, che Heidegger mette in strettissima e indissolubile connessione con il perdere il controllo. La paura è questo, è perdere il controllo, e lo dice qui in modo preciso. Intanto distingue la paura come l’essere fuori di sé dall’altro aspetto che è la paura come strumento di controllo degli altri; siccome anche gli altri temono di perdere il controllo, se io pavento l’idea che possano perdere il controllo se non faranno quello che dico io, ecco che li controllo. A pag. 278. …“com’è fatto ciò di cui si ha paura, quali uomini, e il come dell’“avere se stessi”, il sentirsi-situati quando si ha paura. Vedete l’orientamento di fondo sul senso del πάθος in quanto “essere nel mondo”, “porsi in relazione agli altri” e, nel fare ciò, sentirsi-situati. Ogni πάθος presenta tutti questi aspetti. Su questa base Aristotele cerca di fornire la prima definizione. Nondimeno, la paura diviene comprensibile in senso proprio solo quando egli indica il πῶς ἒχοντες. A pag. 279. Parla della paura come una minaccia che è presente o che si sta avvicinando, e che non ho il potere di contrastare. Bisogna prestare attenzione al fatto che ciò di cui ho paura, ciò che mi caratterizza nel mio “essere in preda alla paura”, si determina come ciò che mi riguarda in questo e quel modo, un λυπερόν (pauroso) che può farmi perdere il controllo. Cioè, un qualcosa di male che mi accade e che può farmi perdere il controllo: questa è la paura, né più né meno. Quindi, è sempre stato di questo ciò di cui ha parlato: avere il controllo è non avere paura, perdere il controllo è avere paura. Qui Heidegger, seguendo Aristotele, in fondo ci sta dicendo che l’unica paura è questa: perdere il controllo. Ogni paura, di qualunque tipo, forma e configurazione, è riconducibile a questa, cioè a una perdita di controllo. Dice poi varie cose. Per esempio, cosa è minaccioso, per cui esso deve mostrarsi in quanto fatto in questo e in quel modo… e poi mi può danneggiare qualcosa nei cui confronti mi sento impotente. Interviene continuamente nella paura la questione dell’impotenza: sono impotente di fronte a qualcosa che è più forte, più potente di me. Il timor Dei, il timore di Dio, in fondo è anche questo, la paura che ciascuno ha necessariamente di fronte alla potenza di Dio. Questo alcunché di potente, che è tale nella possibilità del potere sopraggiungere, una volta “portato nella prossimità”, trasforma la minaccia in “pericolo”. /…/ Il minaccioso si costituisce come la possibilità indeterminata di qualcosa che mi può colpire, mi è superiore, si concentra su di me, non di fatto, ma nel carattere peculiare dell’“incalzare nella mia prossimità”… Insiste sempre sulla questione del più forte, del più potente, che mi è superiore e che deve essermi prossimo, vicino. Adesso fa tutta la catalogazione delle vare paure: fanno paura i potenti, quelli che sono stati danneggiati e che possono vendicarsi, ecc. Ma andiamo oltre. A pag. 288. Il capitolo è La paura in quanto πίστις. La πίστις è il modo di persuadere l’altro. Quindi, la paura come strumento di persuasione. In relazione al parlare l’uno con l’altro nella quotidianità, la paura si mostra come il sentirsi-situati che induce a parlare. Questo è interessante: sentirsi nella situazione in cui qualcosa induce a parlare. E se avesse ragione? Se fosse la paura, il timore di perdere il controllo a indurci a parlare, allora parlare non sarebbe nient’altro che un continuo cercare di avere il controllo, e cioè si parlerebbe per questo. È la paura che fa parlare, la paura di perdere il controllo sulle cose, quindi, su ciò che dico. Φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, diceva Eraclito, cioè ciò che sorge, sorgendo dilegua: è la parola.

Intervento: Il fatto è che non si può non parlare.

E cioè non si può non dominare.

Intervento: E quindi non si può non avere paura di perdere il dominio.

È per questo che abbiamo detto varie volte che la volontà di potenza è il linguaggio, non è qualcosa che arriva da chissà dove. Quello che emerge qui nell’ambito della quotidianità è un fenomeno che ha un fondamento assai più originario, nella misura in cui, quanto all’esserci dell’uomo, si può avere a che fare con la paura anche in un altro senso, che chiamiamo angoscia o orrore: il che avviene quando ci sentiamo spaesati, quando non sappiamo di che cosa abbiamo paura.

Intervento: Heidegger e Nietzsche…

Heidegger ha scritto un libro su Nietzsche di mille pagine, si è anche ammalato dopo, ma non ha colto appieno la questione della volontà di potenza, che si ritrova ovunque, parlando con il tabaccaio o leggendo Platone, si ritrova dappertutto, sempre e inesorabilmente. Nietzsche l’aveva posta in evidenza, l’aveva sottolineata; certo, non l’aveva posta nei termini del linguaggio, ma forse non aveva gli strumenti; Heidegger, invece, non l’ha colta, è some se gli scivolasse tra le dita questa cosa, come se non riuscisse a fermarla. Quando ci sentiamo spaesati, cominciamo a parlare. È un accenno, questo, alla γένεσις ontologica del parlare, cioè al fatto che il parlare è strettamente connesso con la determinazione fondamentale dell’esserci caratterizzata dallo spaesamento. Uno parla in quanto è spaesato. Parla per riprendere il controllo. E qui c’è la genesi ontologica, dice Heidegger, cioè la genesi dell’essere del parlare, il perché si parla effettivamente: si parla per avere il potere, è questo che sta dicendo a chiare lettere, per avere il dominio sulle cose. Infatti, parliamo quando pensiamo di non avere più questo controllo, cioè continuamente, perché gli umani, come sapete, parlano ininterrottamente. Qui sta accadendo qualcosa di importante in ciò che ci racconta Heidegger, rispetto al dire, al parlare. Noi parliamo per la paura di non riuscire a dire quello che vogliamo. Potremmo anche dirla così: io voglio dire qualche cosa, ma non riesco mai a dirla. Sappiamo anche perfettamente perché, ma la persona generalmente non lo sa e, quindi, si trova presa in questo vortice per cui deve continuamente aggiungere cose, perché l’altro sicuramente non ha inteso quello che voglio dire io – ma nemmeno lui lo sa quello che vuole lui – e continua a parlare, parlare, parlare, per avere finalmente il dominio, il controllo su quella cosa che lui vuole dire e che deve essere quella cosa lì, deve essere determinata e si scontra inesorabilmente con il problema del linguaggio: la determina sì, ma in relazione ad altro, per cui non è più quella cosa lì. A pag. 290. Se i πάθη non sono soltanto un annesso dei processi psichici, ma costituiscono il terreno da cui nasce e si sviluppa il parlare e al cui interno cresce a sua volta ciò che parlando è stato espresso, allora essi sono le possibilità fondamentali in cui l’esserci si orienta primariamente riguardo a se stesso, si trova situato. Le emozioni sono il terreno in cui nasce e si sviluppa il parlare. Quindi, niente a che fare con la logica. La logica, quella che comunemente conosciamo come logica, non è altro che quel sistema che consente di confermare ciò che le emozioni hanno posto: se io sono soddisfatto allora devo dimostrare che le cose stanno così; se sono insoddisfatto allora devo dimostrare che devono andare in quell’altro modo. La dimostrazione sorge sempre contro qualcuno o qualcosa. Lo diceva Reale a proposito di Zenone: il primo che ha utilizzato quella che lui chiamava la dialettica, questa forma particolare, un dialogo dove si combatte dialetticamente l’altro, e lui doveva farlo perché doveva difendere Parmenide dai detrattori. Tale primario essere orientato (delle emozioni), la chiarificazione del proprio “essere nel mondo”, non è un sapere, ma un sentirsi-situato… Un sentirsi situato, cioè, un sentirsi soddisfatti oppure no. Quindi, non è un sapere, il sapere viene utilizzato dopo per confermare, per giustificare, per dimostrare che le cose stano così. …che può essere determinato in modo diverso a seconda del modo di esserci di un ente. Solo all’interno di un sentirsi-situato ed “essere nel mondo” così caratterizzato è data la possibilità di parlare delle cose spogliate dell’aspetto che hanno nella pratica più quotidiana. Soltanto a partire dalle emozioni è possibile fare una teoria. Nasce così la possibilità di pervenire a una determinata oggettività, che in un certo senso fa passare in secondo piano il modo di vedere il mondo prefigurato dai πάθη. Questa idea di oggettività, che nasce dal πάθος, a un certo punto si separa dal πάθος, cioè, vuole avere lei il dominio; così come la filosofia nasce da mito, ma è da lì che nasce, che sorge; dopo, la filosofia diventa scienza, pretendendo di essersi allontanata dal mito. È un po’ come la questione della δόξα: è dalla δόξα che nasce il pensiero, non c’è qualche cosa di determinato, si determina dopo a partire dalla δόξα. È la δόξα che fornisce gli elementi per quella cosa che noi chiamiamo determinazione. Solo se si vede l’esserci in questo modo si possono mettere da parte i πάθη. Cioè, si vede l’esserci come un essere situato nel discorso scientifico, per esempio, dove le cose sono regolamentate, ogni cosa è al suo posto, non si transige, il 5 rimane il 5, ecc., cioè si stabiliscono delle regole e si suppone che queste regole siano naturali. Solo in base a quanto detto fin qui si può comprendere quanto fosse difficile per i greci – che erano per così dire innamorati del λόγος – sottrarsi al dialogo e alla chiacchiera per pervenire a un’oggettività, e che è ingannevole ritenere in genere la Grecia un paese della cuccagna dove ogni giorno si scopriva qualcosa di nuovo, come se a questi grandi uomini le cose piovessero dal cielo. Ai greci importava il λόγος, λόγος come dire, parlare, a loro non interessava l’oggettività. Si tratterebbe qui di riflettere sulla connessione tra oggettività e religione.