INDIETRO

 

14 maggio 1998

 

Intervento: Abbiamo definito l’etica e dobbiamo dare un significato pratico, ciò che mi ha fatto riflettere è che per lei in ambito pratico la ricerca teoretica fosse una delle cose maggiormente perseguibili... la cosa mi aveva un po’ inquietato...

Intervento: Perché l’etica tende al bene?

Era distratto la volta scorsa? Perché abbiamo detto che chiamiamo bene ciò a cui gli umani tendono. (Sì, il tendere, ma cosa vuol dire tendere al bene o tendere al male?) Cesare lei preferisce stare bene o stare male? (Bene!) Preferisce ciò che gli è di vantaggio o ciò che è svantaggioso? (Vantaggioso!) Preferisce ciò che è buono o ciò che è cattivo? (Certo, a mio gusto ciò che è buono!) Ecco, quindi praticamente ha già risposto al quesito. Ciò a cui tende lei, il suo discorso, è grosso modo qualche cosa che è definito da queste prerogative. Ora, chiamiamo queste prerogative il bene, che sono esattamente ciò a cui il suo discorso tende, potremmo dire in una parola a suo vantaggio, qualunque cosa il suo vantaggio sia. Ora, che il vantaggio che lei persegue sia, come dice lei, soggettivo, questo glielo possiamo concedere, ma il fatto che invece ciascuno persegua il suo vantaggio questo non è soggettivo, ciascuno lo fa e quindi potremmo dire che è universale. Perseguire il bene appunto, al posto di tutte le cose dette in precedenza noi mettiamo il significante bene, chiamiamo così “bene” ciò a cui ciascuno tende naturalmente, come il proprio vantaggio, ecc. ( ...) Più universale di così! (...) Questa è la morale che tende a regolamentare ciò che per ciascuno è il bene. Se allora il mio bene è rapinare le banche ecco che le assicurazioni, per esempio, cercheranno di impedirmelo, perché poi loro devono pagare e per loro questo è male, e allora ecco che va regolamentato ma di fatto io, al pari delle assicurazioni, che hanno assicurato la banca che intendo rapinare, perseguiamo il nostro bene, solo che il mio viene impedito da tutta una serie di regolamenti e divieti imposti dallo stato... però io tendo al bene, l’assicurazione tende al bene, il bancario tende al suo bene quando di fronte alla mitragliatrice del rapinatore alza le mani e consegna tutto l’incasso, oppure la difende con il proprio corpo (Il problema è che per ciascuno tutto ciò che fa va bene) No, non tutto ciò che fa, tutto ciò che ritiene il suo bene...( Io dicevo l’etica tutto ciò che è bene e tutto ciò che è male) Queste sono le leggi non l’etica (....) ma sempre al bene cioè a ciò che gli è di vantaggio, direttamente o indirettamente. Ora, abbiamo detto il bene ciò che è di vantaggio per ciascuno, però va precisata questa questione. Dicevamo, forse la volta scorsa, del discorso in cui ciascuno si trova, e il bene del discorso ciò a cui il discorso tende è il suo proseguimento, dicevamo così in termini molto ampi, molto generici, molto vaghi in effetti, però vediamo se è possibile precisare. Che cos’è intanto il proseguire del discorso dal momento che sappiamo che inesorabilmente il discorso prosegue, che non può arrestarsi, e che quindi sarebbe assolutamente inutile temere che possa arrestarsi, perché non lo può fare, nulla può farlo, dunque di che si preoccupa? È una bella questione da affrontare, cioè se necessariamente il bene è la ricerca teoretica oppure no? Proviamo a considerare. Intanto abbiamo detto che il discorso non può arrestarsi ma inesorabilmente procede e tende quindi al suo proseguimento: questo lo abbiamo chiamato bene. Ma l’affermare che il discorso in nessun modo può arrestarsi è necessario? Potremmo dire che riguarda l’aspetto logico, il linguaggio è una procedura, tuttavia ci troviamo di fronte ad una questione molto complicata. Supponiamo che io affermi che il discorso può fermarsi e confrontiamo questa proposizione con quella precedente che afferma che il discorso non può fermarsi, e vediamo se una delle due è necessaria oppure no. Della prima abbiamo verificato la necessità, essendo il discorso fatto di elementi linguistici, ciascun elemento linguistico è tale perché inserito all’interno della combinatoria linguistica quindi, se è un elemento linguistico, è connesso con altri elementi linguistici e cioè comporta un rinvio e questo impedisce l’arresto. Ora, invece, consideriamo la seconda proposizione, quella che afferma che il discorso si arresta e vediamo se è necessaria oppure no: se il discorso si arresta allora c’è almeno un elemento che non ha nessun rinvio, ma l’elemento che non ha nessun rinvio può essere un elemento linguistico? E se sì, come? Adesso non so se devo rifare tutti i passaggi, ma potremmo giungere a considerare che affermare che il discorso si arresta non è necessario, nel senso che ciò che afferma è un non senso. Come fa una proposizione che è un non senso, per esempio, ad arrestare un discorso, cosa che sappiamo essere impossibile, non può farlo. Tuttavia, lo si può pensare e qui inseriamo un elemento, intendo dire che è possibile costruire quella proposizione che afferma che il discorso si può fermare. Che si può fermare lo si può affermare, lo si può dire, si può costruire una proposizione che lo afferma. Qui ci troviamo di fronte a una questione che da una parte potrebbe apparire assolutamente banale e anche senza senso ma che tuttavia può avere dei risvolti di qualche interesse, cioè il fatto che il linguaggio può costruire proposizioni che affermano cose che per esempio il linguaggio non può fare, ma non può fare in che senso? E qui forse sta la questione, che non è che non lo possa fare, ché lo afferma e quindi lo fa, ma questa affermazione che viene enunciata può essere negata, come dire che il linguaggio è strutturato in modo tale che può consentire a delle proposizioni di venire costruite ma consente anche di negarle, altre no, consente di costruirle e non consente di negarle, come per esempio quella che afferma che gli umani parlano, come se in questo caso, la regola del linguaggio funzionasse in questo modo. Come è noto, una regola funziona limitando le operazioni, questo è un limite. Vediamo ancora che è vero che il linguaggio consente di costruire qualunque proposizione ma è altrettanto vero che consente anche di negarla e quindi di fatto non la istituisce perché così come l’afferma può anche negarla. Il bene non è altro che il proseguire del linguaggio, perché il linguaggio può proseguire in qualunque verso, in qualunque direzione, può proseguire continuando ad affermare cose che il linguaggio stesso può negare, ma eppure, considerate adesso un aspetto molto meno astratto, molto più banale, cioè il fatto che ciascuno quando argomenta discute, ecc., cosa tende a fare? Tende a fare affermazioni che sono assolutamente negabili, confutabili oppure cerca di stabilire qualche cosa di solido, di stabile, di fermo anziché affermare cose assolutamente squinternate? (...) Però la domanda è perché si prefigge di ottenere questo, cioè se Roberto ed io conversassimo in un agone dialettico, l’aspetto pragmatico, cioè il fatto che vinca io o che vinca lui, di fatto, non cambia nulla ...(...) Sempre, necessariamente, diciamo che cerca di ottenere la vittoria quanto meno, perché non vuole essere confutato? Perché gli umani si infastidiscono se vengono confutati (di aver trovato il giusto modo di essere) quindi dovremmo dire che è questo che cercano? Il giusto modo delle cose e quindi la verità delle cose potremmo anche chiamarla così...

Intervento: Direi che se fossero continuamente confutati non potrebbero più parlare…

Sì, hai detto bene, se tutto ciò che si dice fosse confutato o confutabile non sarebbe possibile parlare. Questo è interessante, e perché non sarebbe possibile parlare? (Perché per parlare ci devono essere delle premesse.) Ma io posso partire anche da premesse che so essere false come avviene per esempio in un agone retorico al solo scopo di vincere l’avversario. Dicevo prima della vittoria per esempio in un agone dialettico che stabilisce soltanto la maggiore abilità di uno dei due, niente più di questo, prendiamo questo caso perché è il caso limite, dove di fatto non c’è nessun utilizzo pragmatico ma soltanto la vittoria fine a se stessa ...

Intervento: Il sapere che è falso è una certezza.

Certo, infatti, se io costruissi, battendomi contro Roberto in un agone dialettico, un’argomentazione che so assolutamente falsa ma in condizioni di confutare la sua tesi, vincerei Roberto, muovendo comunque da un’argomentazione che so essere falsa. Come so che è falsa? So che è falsa perché so che la verità sta altrove, non lì. Tutto questo per porre una questione, in definitiva: che cosa cercano gli umani parlando, che cosa inseguono? Tenendo conto che siamo partiti da una proposizione che afferma che gli umani tendono al bene, che tendono a qualcosa che chiamiamo bene e quindi il loro discorso necessariamente tenderà alla stessa cosa. Qual è il bene del discorso? In questo caso è raggiungere un qualche cosa, consolidare un qualche cosa che possa essere stabile, vero. La verità in genere si chiama così e la verità quale prerogativa dovrebbe avere? Quella di alterarsi e mutare ogni quindici secondi regolarmente? Oppure ... non è la verità, per definizione. È qualcosa di duraturo, qualche cosa che non è più confutabile, perché abbiamo visto, e Roberto ce lo ha ricordato, che se tutto ciò che dico fosse confutabile non riuscirei più a parlare e quindi occorre che qualcosa non lo sia. Quindi, siamo giunti a considerare che perché il discorso possa proseguire occorre che si giunga ad una qualche cosa che non sia confutabile, cioè che costituisca un riferimento, un punto di partenza, molto banalmente. E, in effetti, tutti i discorsi, come per esempio quello intorno all’angoscia esistenziale di cui dicevamo tempo fa, non vertono forse proprio su questo, non muovono dalla impossibilità di trovare un principio, una fine che siano credibili, soddisfacenti, affidabili? Dunque, è questo che cerca il discorso, un elemento affidabile, qualcosa su cui appoggiarsi?

Intervento: Wittgenstein dice che ci appoggiamo su certezze che non sono probabili....

Qui siamo un passo al di là, cioè stiamo cercando qualche cosa che non sia più una regola per giocare, ma la condizione per giocare, è diverso (Non ho capito) Cesare citava Wittgenstein il quale diceva: ho bisogno di certezze, ma queste certezze non sono fondabili né fondate e quindi non ci sarebbe la necessità di fare tutta questa operazione. È lì che io ho distinto fra una regola del gioco, come quella che per esempio stabilisce che questa è la mia mano, che è assolutamente negabile, anche se è una regola del gioco, di quel gioco. Certo, funziona come una certezza però non ha nessun fondamento né è fondabile in nessun modo, come lui stesso rileva, e quindi, anziché una regola del gioco, si tratta di qualcosa che ne sia la condizione eventualmente, qualcosa di molto più stabile, di più affidabile di qualcosa che invece non è assolutamente fondabile, in nessun modo. Cercando questo cerchiamo in definitiva, per usare termini antichi, il bene ultimo del discorso e quindi di ciascuno. Roberto è preoccupato perché vede arrivarsi sinistramente la conclusione di questa premessa. Ora, dunque, inseguendo questo pensiero che si volge al bene del discorso, che è il suo proseguimento e il suo proseguimento è inevitabile, abbiamo visto che ciò che risulta essenziale in tutto ciò è la possibilità per potere continuare a parlare. In fondo, quando Wittgenstein disse “ciò di cui non si può parlare si deve tacere” alludeva a qualcosa di non così lontano: occorre trovare quindi un qualche cosa, qualche cosa di assoluto, solo allora, solo a questa condizione, allora potremmo parlare effettivamente perché non sarebbe confutabile, avremmo la certezza che non è confutabile, ciò che si dice, se muove da qualche cosa che è assolutamente inalienabile, assolutamente assoluto, definitivo, perché altrimenti... Perché Wittgenstein giunge a questa conclusione così terribile? Perché qualunque affermazione è costruita su nulla e quindi non se ne può parlare di fatto, non si può verificare attenendosi ai criteri di verifica, si può sapere se è ben costruita, se è fatta come dio comanda, ma fondarla no; dunque, tutto ciò che si dice è costruito su niente, cioè è assolutamente confutabile e quindi non si può parlare, quindi ciascuno di voi taccia per sempre, nel senso che non potrà mai costruire nulla che sia sostenibile, chiunque in qualunque momento potrebbe smontare tutto, sgretolare ogni cosa. Eppure gli umani cercano nel loro discorso, come giustamente diceva Cesare, un qualche cosa che non sia confutabile su cui costruire effettivamente qualche cosa se no, come giustamente poi ha ripreso Roberto, sarebbe difficile parlare, anzi impossibile. Adesso vediamo dove ci conduce questo discorso. Abbiamo detto dunque che, posta la questione in questi termini, di fatto non sarebbe possibile parlare o comunque ciascuno parlerebbe praticamente dicendo nulla e pertanto ciascuno continua a inseguire questo bene del discorso che non è altro che la verità, come già gli antichi avevano avvertito in ogni caso, sono saggi gli antichi, continua a inseguirla senza trovarla mai. In molti questo ha ingenerato una sorta di depressione, ad altri angoscia, ad altri follia, a seconda delle strutture in cui si trovavano, perché ciascuno di questi, che si è soffermato più di altri a riflettere sulla questione, si è scontrato con delle aporie terribili, insolubili, in definitiva con il crollo della ratio, a cui è seguito il crollo loro personale.

C’è ancora un elemento da inserire prima di concludere. Se abbiamo detto che ciascuno insegue necessariamente questa verità, il bene del discorso, cioè ciò che consentirebbe di avere un riferimento a cui appoggiare per dire qualche cosa che non sia totalmente confutabile, potrebbe non farlo? Potrebbe non cercare questo? Supponiamo che non lo cerchi, il suo discorso quindi cessa di cercare questo, cessa cioè di cercare la verità, qualcosa di affidabile, stabile, sicuro, non lo cerca più, come sarà fatto il suo discorso, come argomenterà ciascuno di voi? Si troverà in una condizione piuttosto bizzarra in cui tutto ciò che argomenta può partire da una qualunque cosa, indifferentemente, io posso partire dal fatto che questo aggeggio è verde per dimostrare che domani pioverà, perché no? Ecco, occorre che intervenga allora una teorizzazione di questo e cioè deve provare che è vero, mentre a lui non gliene importa niente (....) No, a questo punto a lui non gliene importa più, non può più se non ha nessuna elemento che lui possa indicare come vero o come falso (....) Può seguire, certo, la traccia che gli fornisce l’interlocutore, però nella costruzione di una qualunque argomentazione, attenendosi per esempio alle regole inferenziali che sono quelle che gli consentono di costruire il discorso, con buona probabilità farà una scelta di quelle più opportune ma opportune sempre rispetto per esempio all’interlocutore. Facciamo il caso che l’interlocutore sia se stesso, cioè che pensi tra sé e sé, il suo discorso come procederà se procederà? Si arresta in questo caso in assenza di input, c’è l’eventualità che non possa proseguire. È come l’asino di Buridano, quello che messo fra due greppie equidistanti e che muore di fame perché gli è assolutamente indifferente da che parte andare e quindi muore lì sul posto, così vuole la tradizione. È la questione che Roberto poneva tempo fa: in assenza di riferimento, di punto di partenza, il discorso si ferma, non ha più nessuna direzione, certo, eppure d’altra parte sappiamo anche che non può fermarsi, come risolvere questo problema? Non può fermarsi allora perché comunque allora c’è una verità? O più propriamente viene inseguita una verità? Indirettamente. Il discorso prosegue lungo una direzione ma la ricerca della verità, adesso vi pongo una bella domanda, è strutturale al linguaggio oppure no? Non precipitarti a rispondere, è una domanda difficile. È strutturale alla struttura del linguaggio che il discorso persegua una direzione attraverso le procedure del linguaggio per cui necessariamente tende a qualche cosa che, diciamola così, sia una certezza, oppure no? Abbiamo considerato prima l’aspetto più folcloristico, considerando che ciascuno in qualche modo persegue la verità parlando e come sia in effetti difficile costruire un discorso se questa non si dà. Consideriamo l’ipotesi, che la ricerca della verità sia strutturale al linguaggio, cosa vogliamo dire affermando questo? Che qualunque discorso attraverso una serie di inferenze tenta di giungere ad un elemento che chiama conclusione e questo elemento occorre che sia vero, ma vero in quale senso? Perché fino a qui anche il calcolo matematico per esempio adempie a questa funzione, necessariamente, e lì è arrivato Wittgenstein: vero rispetto alle regole che sto utilizzando per costruire quella proposizione, rispetto alle regole del calcolo proposizionale. Ma solo questo o qualcosa in più? Oppure è tutto necessariamente soltanto un gioco sprovvisto di senso in attesa di un senso che si compia? C’è anche questa eventualità, stiamo considerando...

Intervento:…

Sì, in effetti fino a questo punto dove siamo arrivati giustamente. In effetti è così, c’è qualche cosa che è insito nella struttura del linguaggio tale per cui, partendo da una qualunque premessa, il discorso tenderà a giungere ad una conclusione vera. Qui “vera” non è altro che il conformarsi alle regole che sono state adottate per costruire la conclusione, quindi è soltanto adeguata e confacente ad un sistema di regole, nient’altro che questo. Fin qui anche Wittgenstein c’era arrivato, non ha inventato niente. Ma prendete dunque una qualunque argomentazione che muove da premesse e giunge ad una conclusione, abbiamo detto che cerca di attenersi a delle regole per giungere alla conclusione, ma perché deve giungere alla conclusione? Perché un discorso tende ad una conclusione anziché rimanere sospeso nel nulla? Adesso questa è una questione ancora retorica, poi vedremo se ci sono le condizioni per porla in termini più rigorosi, perché un discorso tende ad una conclusione? Supponiamo di prendere invece alla lettera ciò che abbiamo affermato fino adesso. In effetti, se così fosse, e cioè l’assoluta consapevolezza del gioco e della inesorabilità del gioco, la conclusione potrebbe essere non necessaria, ma invece se voi osservate bene praticamente tutti i giochi comportano una conclusione quasi necessariamente, potremmo domandarci qualche cosa intorno a questa necessità di giungere alla conclusione, perché? Questo stesso discorso che sto facendo persegue questo stesso obiettivo di giungere alla conclusione, certo, può essere una regola del gioco, che il gioco non rimanga in sospeso e cioè si risolva per così dire, in un modo o nell’altro (...) Sì, per questo, per definizione potrei quasi dire, lo scopo del gioco è comunque la vincita o comunque il raggiungimento di un obiettivo particolare, se noi riflettiamo sul gioco del linguaggio qual è questo obiettivo? La vincita, come il gioco degli scacchi, o che altro? (...) Questo abbiamo detto che è inevitabile, c’è qualche cosa che si aggiunge, potremmo anche dire la vincita, perché no? Vincere rispetto all’atto linguistico è, per esempio, avere ragione, trovare una ragione, stabilire qualche cosa, qualunque cosa non ha nessuna importanza (...) Sì, è possibile questo, stavo considerando l’aspetto retorico e da lì trarre degli elementi per precisare meglio. In ambito retorico lo scopo è vincere, cioè giungere alla fine del gioco, la quale fine possiamo chiamarla vincere e poi che cosa sia non ha nessuna importanza. Vi ricordo sempre che l’obiettivo che cerchiamo in questo caso di raggiungere è valutare se la ricerca teoretica è necessaria oppure no e stiamo dicendo che nel gioco linguistico lo scopo è quello di vincere ma vincere rispetto al gioco linguistico è che cosa se non stabilire una qualche cosa, raggiungere anche wittgenstianamente la verità muovendo da premesse assolutamente arbitrarie? Però insisto, comunque questa ricerca della verità, per quanto io la faccia seguire semplicemente ad assiomi arbitrari - tutti gli assiomi della logica formale sono arbitrari, non le conclusioni, così generalmente si afferma, la conclusione è vera necessariamente - c’è qualche intoppo che è connesso con la struttura stessa del linguaggio, perché se il linguaggio costruisce discorsi che vanno in una certa direzione, e andando in una certa direzione tende comunque a raggiungere un obiettivo che è quello che abbiamo chiamato la verità, potremmo chiamare bene in questo caso la verità? Occorrerebbe però un elemento e cioè qualcosa che ci consentisse di affermare inesorabilmente che il discorso tende alla verità. Sappiamo che tende a una conclusione, e sappiamo anche che la conclusione a cui tende è almeno in ambito retorico sempre la verità, si argomenta infatti per sostenere qualche cosa. Si tratta di stabilire se questo elemento, che poi ci consentirà di fare il salto finale, è qualcosa di assolutamente necessario in tutte queste operazioni e cioè se il linguaggio necessariamente tende ad un qualche cosa che sia la verità e cioè tenda a una conclusione come se, adesso la dico così in termini molto animistici, cercasse qualche cosa che non potrebbe essere altrimenti che così. Che cosa non può essere altrimenti che così se non se stesso?

Intervento:…

Posta così potrebbe essere verosimile, sì, direzione possibile. Cesare qualche contribuzione a ciò che afferma Roberto? (...) Dicevo prima che questo è proprio il passo che ci manca per giungere a una conclusione che tuttavia pare inesorabile, considerare se il linguaggio tende necessariamente a qualche cosa. Se io tendo necessariamente a qualche cosa posso chiamare questo qualche cosa obiettivo oppure no? In teoria sì.