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14 marzo 2018

 

C. Sini, Semiotica e filosofia

 

Siamo a pag. 79. Quale che sia, egli dice, l’opinione che possiamo avere circa lo scopo della logica, tutti saremo unanimi nell’accettare che il punto essenziale di tale scopo riguarda la classificazione e la critica dei ragionamenti. È una delle definizioni possibili di logica. Ma non v’è ragionamento che non sia riferibile a qualche classe più generale di ragionamenti. Sicché, un’inferenza che sia vera per un ragionamento, lo è altrettanto per tutti i casi o ragionamenti simili. Ma ogni inferenza di questo tipo comporta un “atto di approvazione” e cioè un atto di “auto-controllo”. Ogni inferenza, dice, comporta un atto di approvazione. Vi sono operazioni mentali che sono del tutto estranee al nostro controllo, allo stesso modo in cui non possiamo ad esempio controllare la crescita della nostra capigliatura; a proposito di tali atti ogni approvazione o disapprovazione è una questione senza senso. Ma i ragionamenti che si riferiscono alla nostra comune esperienza oppure a questioni di tipo scientifico sono “atti volontari” che, in quanto tali, incontrano la nostra approvazione o disapprovazione logica. Ora, “l’approvazione di un atto volontario è un’approvazione morale. L’etica, perciò, è lo studio di quei fini dell’azione che siamo deliberatamente preparati ad adottare”. Possiamo dunque definire l’azione giusta “in quanto è in conformità con i fini che siamo deliberatamente preparati ad approvare”. Questo è tutto ciò che possiamo intendere come appropriato alla nozione di “giusto”. Questo è il motivo per cui Peirce fa procedere la logica dall’etica, nel senso che il ragionamento appare giusto, secondo lui, se sono disposto, preparato ad accogliere una certa argomentazione. Il fatto di essere pronto ad accogliere una certa argomentazione è ciò che Peirce individua come etica: ciò che si è disposti ad accogliere. Non ciò che si è costretti ad accogliere ma ciò che si è disposti, che è diverso. Quindi, ponendo l’etica come ciò che dà alla logica il suo valore di verità, ci si trova in una posizione difficile. Se dovessimo riprendere in parte il discorso che fa Severino, ci troveremmo nella condizione di dovere affermare che il principio di non contraddizione segue all’etica, non la precede ma segue all’etica. Intendiamo l’etica sempre nell’accezione di Peirce, cioè, come ciò che sono disposto ad accogliere. Nella posizione di Severino è ovvio, invece, che il principio di non contraddizione, il principio fondamentale della logica, precede qualunque altra considerazione, anzi, è la condizione di qualunque considerazione. Ci troviamo quindi di fronte a un dilemma, che dovremo adesso risolvere, cioè se affermare che ciascuna cosa è quella che è è necessario per costruire qualunque argomentazione, oppure, se affermare che una qualunque cosa è quella che è procede da ciò che io sono disposto ad ammettere. Come dire che il fatto che io accolga oppure no il principio di non contraddizione dipenderebbe da ciò che sono disposto ad ammettere, ma sappiamo che senza il principio di non contraddizione non posso costruire argomentazioni che mi conducano a questo dilemma. Come affrontare la questione? Posta in questi termini, appare come una sorta di aporia, per cui è vera una cosa o l’altra, o la logica precede l’etica o l’etica precede la logica, tertium non datur. Però, se consideriamo bene la questione, possiamo accorgerci che ovviamente il principio di non contraddizione, anche se in alcuni passi Severino sembra porre la questione in questi termini, non precede il linguaggio. Non è che c’è il principio di non contraddizione e poi il linguaggio, senza il linguaggio non si dà nessuna possibilità di alcun principio, né di non contraddizione né di altro; però, sappiamo anche che il principio di non contraddizione è ciò che consente di affermare che qualcosa è quello che è. Dunque, ciò che sono disposto ad ammettere, ad accogliere, in che modo ha a che fare con il principio di non contraddizione? È questa la questione: potrei non accoglierlo? Ma forse dipende dal modo in cui l’accolgo. Certo, il principio di non contraddizione è qualcosa che consente al linguaggio di funzionare, tuttavia, pensate la cosa in questi termini. Pensate al linguaggio, al suo funzionamento, che prevede, sì, il principio di non contraddizione ma a che scopo lo prevede? Il solo fatto di potere affermare qualcosa, quindi, per potere procedere. Il principio di non contraddizione dice che una cosa è quella che è. Quindi, a questo punto la questione si risolve, si supera, in questo modo. Peirce non ha del tutto torto nel dire che l’etica precede la logica, perché ciò che sono disposto ad accogliere non è tanto il principio di non contraddizione ma il modo in cui il principio di non contraddizione funziona nel linguaggio. Quando dico che una cosa è quella che è sono costretto a fare questo? Apparentemente sì, perché se dicessi di no mi troverei di fronte esattamente ciò a cui ci stiamo trovando di fronte adesso, e cioè un dilemma, in cui una cosa oppure l’altra, o una cosa è quella che è oppure non lo è, e se non lo è allora è un altro discorso, se non lo è sarà un’altra cosa ma questa altra cosa sarà quella che è. Superare una cosa del genere, tra l’altro, ci mette di fronte a un’altra questione, e cioè alla domanda: perché dobbiamo superarla o risolverla? A che scopo? Se poniamo la cosa in questi termini forse appare un pochino più semplice. Il fatto di volere superare questa aporia in realtà ha una funzione particolare, che è quella di controllare la cosa: se è quella che è, la controllo. Il termine “controllarla” prendetelo come “poterla utilizzare”, poterla utilizzare per costruire altre sequenze. Quindi, superare un’aporia è, sì, la condizione per potere proseguire ma anche e probabilmente soprattutto è qualcosa che risponde a una volontà di potenza, a una volontà di controllo, a una volontà di sapere, tutte cose riconducibili alla volontà di potenza. Potremmo porre la volontà di potenza al posto che Peirce chiama etica, ciò che voglio fare di qualcosa; Heidegger direbbe “qual è il mio progetto”. Il progetto, come sappiamo, è sempre lo stesso: il controllo sulle cose, il dominio sulle cose. In effetti, non c’è propriamente un’aporia. Il linguaggio funziona in un certo modo e questo modo è quello della volontà di potenza. Ricordate la formuletta a è b, in questa formuletta c’è, sì, il funzionamento del linguaggio ma c’è il funzionamento del linguaggio in quanto volontà di potenza, potremmo dire in quanto volontà di sapere, in quanto volontà di controllare, cioè di sapere che cosa è la a, per poterla utilizzare, per poterla trasformare in un utilizzabile. Quindi, l’etica non è altro che l’utilizzo del modo in cui il linguaggio funziona, e lo utilizza per potere avere il controllo sulle cose, per cui è, sì, necessario il principio di non contraddizione per costruire le proposizioni ma, allo stesso tempo, è necessario il volerne fare qualcosa, e il volerne fare qualcosa è propriamente l’etica. Altrimenti non si intenderebbe la questione perché a questo punto il principio di non contraddizione apparirebbe come un qualche cosa che sta lì indipendentemente da ogni altra considerazione, certo, pronto per l’uso, ma che non dipende, a questo punto, neanche dal linguaggio. Se, invece, dipende dal linguaggio allora dipende dall’uso che io voglio farne, dipende dal progetto.

Intervento: Lei diceva che io potrei non accogliere, ma io accolgo sempre qualche cosa. Il principio di non contraddizione funziona anche nel non accogliere qualche cosa…

Qui, però, stiamo parlando dell’accogliere oppure no il principio di non contraddizione, che è diverso. Non è che non lo accolgo, lo accolgo come ciascuna cosa che mi consente di fare funzionare il linguaggio, ma ciò che ci sta suggerendo Peirce è che lo accolgo nella misura in cui voglio farne qualche cosa. Questo già Heidegger in qualche modo lo suggeriva, cioè, anche il principio di non contraddizione non è fuori dal progetto. Questo scoglio apparente che abbiamo incontrato mostra anche come si articola normalmente un’argomentazione, e cioè si articola e si svolge a seconda di ciò che io voglio farne, a seconda del progetto in cui è inserita. E così anche il principio di non contraddizione che pure apparirebbe immutabile in sé, ma così come appare immutabile in sé il fatto che ciascun elemento linguistico è necessariamente connesso a un altro elemento linguistico, non può essere disgiunto, perché in questo caso sarebbe fuori dal linguaggio e quindi non sarebbe un elemento linguistico. Anche in questo caso ci troviamo di fronte a qualcosa che appare necessario, è necessario che un elemento si agganci a un altro, sì, certo, ma sappiamo benissimo che ciò che non è necessario è qual è l’elemento a cui si aggancia, qual è l’uso che voglio fare di questa necessità. Il fatto è che non posso non utilizzarla, così come non posso non utilizzare il principio di non contraddizione, non posso non utilizzare il fatto che ciascun elemento è vincolato a un altro, e cioè che ciascun parola è un segno, come dice Peirce, un representamen. Lui ha scomposto artificialmente il segno in tre parti, che non possono ovviamente essere disgiunte ma questo gli è servito anche per mostrare come l’ultima parte, cioè il simbolo, l’abito, decide di ciò che io voglio fare di una certa cosa. L’abito è ciò che io sono avvezzo a pensare, ciò che io sono stato addestrato, abituato a pensare da chi mi ha preceduto, dalle cose che ho lette, dalle persone con cui ho parlato, da infinite circostanze. Tutte queste cose costituiscono l’abito, che è quello che, secondo Peirce, dà un significato a ciò che incontro, dunque anche al principio di non contraddizione. Come già accennavamo la volta scorsa, così come fa procedere la logica dall’etica, da ciò che voglio fare di una certa cosa, fa procedere l’etica dall’estetica. È curioso, lui fa questo gioco, da una parte a ritroso ma poi anche nell’altro senso, cioè, fa procedere la logica dall’etica e l’etica dall’estetica, ma dice al tempo stesso che l’estetica, e cioè ciò che viene percepito, l’ασθησις è la percezione, poi si volge in oggetto, che viene riconosciuto come tale perché lo trasforma in simbolo, cioè un qualche cosa che rappresenta un qualche cos’altro. Per Peirce l’oggetto è sempre una rappresentazione, ma una rappresentazione di che? Di ciò che è apparso. Senza una rappresentazione, cioè, senza uno spostamento non c’è, e questo lo dice in modo esplicito. Quindi, è come un circolo, e cioè i tre aspetti del segno, la qualità, il quale che mi si presenta così com’è, che conduce poi all’oggetto, cioè io percepisco una qualità, percepisco che è un qualcosa, un oggetto; infine, attraverso logica, il ragionamento, c’è il simbolo, la rappresentazione, per cui decido che questo oggetto è una certa cosa, non è più solo un qualche cosa ma è una certa cosa. Questo ragionamento, questa logica, è preceduto dall’etica, cioè da ciò che io voglio fare di quella cosa, la quale è preceduta ancora dall’estetica, vale a dire, dal fatto che un qualche cosa mi si presenta. Mi si presenta, certo, perché voglio farne qualcosa, ma voglio farne qualcosa perché lo ritengo buono, bello, utile, giovevole, καλός, dicevano i greci. Quindi, è perché c’è un qualche cosa che viene giudicato bello, interessante, ecc., che interviene in seguito la percezione di questa cosa come qualche cosa, ma deve essere qualche cosa che interessa. Qualche cosa mi deve interessare, e questo è il motivo per cui Peirce pone l’estetica come primo elemento del segno: la prima cosa è che questa cosa è bella e, quindi, questo stabilisce che io la voglio ottenere, cioè stabilisce un’etica, io voglio questa cosa; poi, stabilisce una logica, cioè stabilisce un ragionamento che mi consente di farne un uso. Vedete come tutti questi elementi sia in realtà impossibile isolarli l’uno dall’altro, sono tutti aspetti della stessa cosa in modo inscindibile. Lui, certo, li scinde ma lo fa a scopo didattico, per mostrare come funziona, ma fa un’astrazione, in realtà tutto ciò è in una simultaneità. Non posso disgiungere la percezione dell’oggetto da ciò che voglio fare di quell’oggetto, e non posso disgiungere l’intenzione di ciò che voglio fare di quell’oggetto dai modi con cui poi, di fatto, metto in atto questa intenzione di fare ciò che voglio fare. Tutte queste cose sono tutti aspetti della stessa cosa che ci mostrano, a questo punto, una questione di notevole interesse, che abbiamo già vista in Heidegger ma è ripresa qui da Peirce in modo più specifico, perché mentre Heidegger pone la questione in termini molto più generali, astratti, quasi universali, rispetto all’Esserci, Peirce la pone rispetto al segno, cioè, la parola: il representamen è un segno, parola è un segno, in quanto è un qualche cosa che rinvia a qualche cos’altro. La percezione di questa cosa rinvia all’intenzione che ho di farci qualche cosa; questa intenzione rinvia al modo in cui lo farò, ma il modo in cui lo farò ha a suo fondamento l’intenzione di farlo; l’intenzione di fare qualche cosa ha come suo principio il cogliere qualche cosa. Ciò che colgo non lo colgo mai come pura cosa in sé ma lo colgo sempre come intenzione di farci qualcosa, e questo è propriamente Heidegger, cioè lo colgo come un utilizzabile. Questo, come dicevo, è interessante in Peirce perché lui compie un ragionamento che percorre per molti tratti le stesse argomentazioni di Heidegger, però, riferite unicamente alla parola, cioè al segno. È come se stesse dicendo che tutte le cose che dice Heidegger, sì, certo, vanno bene ma, di fatto, sta parlando del segno, della parola che, quindi, rinvia continuamente a qualche cos’altro, e rinviando a qualche cos’altro, ovviamente, trova in questo rinvio la propria essenza. Il segno è questo: un rinvio, uno spostamento continuo su qualche cos’altro. La stessa cosa che accade nel segno rispetto a qualunque altro segno, cioè un segno è un segno per un altro segno, anche ciò che fa del segno quello che è, cioè questi suoi tre aspetti, questa tripartizione, anche questa è continuamente un rinvio. Questo rinvio ci dice continuamente che ciò che percepisco, la qualità, è quella che mi fa percepire l’oggetto: se questo qualche cosa è un qualche cosa allora vuol dire che questo qualche cosa sarà qualche cosa di determinato, la famosa è della formuletta a è b: questa è, è una pura possibilità, che poi si concretizza in ciò che è effettivamente, cioè la b di a è b. Questo è per Peirce il modo in cui funziona il linguaggio, cioè il modo in cui funzionano gli umani. A pag. 82. L’inserimento della logica nell’etica e poi di entrambe nell’estetica viene così energicamente ribadito, nonostante la difficoltà di riconoscere all’estetica lo statuto di scienza normativa, difficoltà poco prima denunziata e non ancora risolta. L’inserimento stesso di logica ed etica nell’estetica viene dichiarato operazione essenziale per la validità della massima pragmatica, già corretta nel senso a suo tempo segnalato a proposito della lettera a James: l’essere totale che la massima tiene di mira non è la “reazione”, ma il fine totale. La reazione, come semplice abito di risposta (pura secondalità), lascia fuori il problema dell’estetica; e consente in tal modo quella versione Jamesiana e corrente del pragmatismo che pone nell’azione per l’azione lo scopo finale. Tale versione Peirce ha più volte criticato come assurda, e anzi come contraria, nel suo fondamentale irrazionalismo, allo spirito genuino del pragmatismo che, almeno in Peirce, volle sempre presentarsi come strumento logico, connesso al problema del significato logico dei concetti (terzialità) in quanto incarnati in abiti di comportamento. Il fine razionale è dunque il vero fine totale; ma ciò, includendo per essenza il fine morale, del quale il fine razionale – come si è mostrato – è parte, solleva inevitabilmente il problema del fine estetico, e cioè di ideali che “siano ammirevoli per se stessi”, e quindi terreno di radicamento della condotta morale e di quella logica: loro condizione di possibilità. Il problema dell’estetica si rivela dunque, ancor più di quello morale, problema decisivo per il pragmatismo: ne va della sua possibilità e del suo significato razionale. (pagg. 82-83). Vedete bene che la questione estetica appare fondamentale perché se qualcosa mi interessa perché bello, questo bello non è bello in sé. Come faccio a dire che è bello? Da dove viene questa cosa? A pag. 84. Se così stanno le cose, ne deriva che non ha senso parlare di “bontà” estetica, poiché buono o cattivo sono termini correlativi e reciprocamente delimitantesi. Tutto ciò che si può dire è che vi sono “varie qualità estetiche”, sicché si deve, in definitiva, dubitare seriamente “che esista una qualche distinzione del puro meglio o del puro peggio estetico”; il concetto appropriato è che vi sono “innumerevoli varietà di qualità estetiche, ma nessun grado puramente estetico di eccellenza”. Cioè, nulla che sia bello per sé. … L’estetica propone una qualità come ideale, come fine ultimativo; a questo punto interviene “un imperativo categorico” che si pronuncia a favore o contro. Più avanti a pag. 85. È pacifico, egli scrive, che le due condizioni dell’accordo col libero sviluppo delle qualità estetiche dell’agente e dell’accordo con le qualità estetiche del mondo esterno all’agente “possono venire adempiute insieme solo se accade che la qualità estetica verso la quale tende il libero sviluppo dell’agente e quella dell’azione dell’esperienza ultimativa su di lui sono parti di un’unica totalità estetica”. Il che ci porta già a considerare che è dubitabile che esista qualcosa di buono di per sé, ma è sempre bello oppure buono in relazione, ovviamente, a un giudizio morale, quindi, all’etica. Tuttavia, dice La soluzione dei rapporti fra etica ed estetica è dunque compiutamente delineata in tutto ciò che precede e noi dobbiamo ora cercare di intenderne la portata. Che significa che la soluzione, come dice Peirce, fa appello alla teoria categoriale? … Dire che l’estetica è una scienza normativa (e cioè partecipa della secondalità della filosofia) perché pone in relazione la terzialità del suo essere scienza (“rappresentazione” di qualcosa, non mero feeling ma concetto) con la primalità delle qualità estetiche, significa voler risolvere il problema dell’estetica per definizione o a priori, ovvero in modo puramente verbalistico. (pagg. 85-86) All’ultimo capoverso. Più in generale, poi, Peirce sostiene, varie volte nel corso dei suoi scritti, che una sensazione, nella sua “qualità” estetica, è il risultato di un’inferenza ipotetica. Se il fine dell’estetica è l’espressività (expressiveness), come si legge nelle Lowell Lectures, tale fine è perseguito mediante una relazione tra i fenomeni (le parti dell’oggetto estetico complessivo o totale), come vuole la natura peculiare delle scienze normative (relazione dei fenomeni a un fine). Sicché la primalità estetica è una primalità derivata o “seconda”, e perciò normativa, e la scienza estetica ne è la teoria. (pagg. 86-87). Quindi, è una primalità derivata. La semplice sensazione non è una qualità primaria ma è derivata. A si può dire (secondo punto) che la primalità estetica è derivata in modo consapevole, in virtù di un’azione “sotto controllo”? ciò è manifestamente impossibile. Peirce lo nega e proprio per questa ragione si dichiara in dubbio circa la natura strettamente normativa dell’estetica. La scienza estetica è normativa in objecto, ovverosia nelle relazioni che costituiscono i suoi oggetti. Normativa, cioè, stabilisce come stanno le cose. È chiaro che l’etica e la logica lo fanno, stabiliscono come devono stare le cose, come sono le cose, ma l’estetica, che è la primalità, come dice lui, la prima relazione con la cosa, è normativa? Dice no, non può esserlo. Qualche riga dopo dice La sensazione, infatti, è la qualità materiale del pensiero, ovvero la primalità del pensiero, non il pensiero completamente dispiegato nei suoi abiti di astrazione e di attenzione volontaria, cioè nella terzialità delle sue inferenze consapevoli. Ciò aiuta però a chiarire il nostro problema. Il pensiero, come sappiamo, è un segno e la sensazione è la qualità materiale di quel segno che è il pensiero. In se stessa la sensazione non è pensiero… Sta dicendo una cosa che appare assurda. …ma un pensiero, e cioè un segno, privo di qualità materiale, è qualcosa di impensabile. Un segno, privo di qualità materiale, è impensabile. Ciò che vi dicevo prima “voglio fare qualcosa di questo”, ma se non c’è un “questo” che faccio? Non faccio niente. A pag. 88. Non a caso Peirce chiama l’etica scienza normativa “per eccellenza”. È l’etica che stabilisce le norme, le norme di comportamento. L’etica dice ciò che devo fare, ciò che è giusto fare, ciò che occorre che faccia. A un certo punto, si interroga su ciò che è ammirabile o desiderabile per sé. A pag. 93. … “il solo oggetto ammirevole in modo ultimativo è la gratificazione senza restrizioni di un desiderio, indipendentemente da quale possa essere la natura di quel desiderio”. Qui ci ha detto come stanno di fatto, secondo lui, le cose. Perché mi appare bello? Perché mi appare desiderabile, perché appaga il mio desiderio di qualche cosa, è per questo che lo ritengo bello, ma appaga che cosa? Freud avrebbe detto il desiderio. Nietzsche avrebbe detto che appaga la volontà di potenza: è bello ciò che appaga la volontà di potenza. Il desiderio poi è sempre un desiderio di un qualche cosa, ma l’appagare il desiderio, cioè la volontà di potenza, è ciò che mi fa percepire un elemento, che me lo fa vedere, che lo fa esistere. Vale a dire, qualche cosa esiste se esiste in quanto utilizzabile per la volontà di potenza. È questa la questione centrale, per Peirce ma non soltanto, perché rispetto al segno, ciò che costituisce l’avvio di tutto, ciò per cui qualcosa mi appare, poi mi appare qualche cosa, quindi, come un oggetto; e, infine, come qualcosa che devo ottenere, ma ciò che mi appare mi appare perché utilizzabile, utilizzabile per la volontà di potenza. Siamo in pieno Heidegger, però, qui è riferito al segno, alla struttura del segno: un segno è quello che è perché, secondo Peirce, ha questi tre momenti in cui il primo, quello che mette in moto tutto quanto, non è altro che ciò che è desiderabile, ciò che è bello, bello in quanto utilizzabile per qualche cosa, in quanto mi serve per il superpotenziamento. Questo è davvero interessante, e cioè porre la volontà di potenza come qualcosa che appartiene al segno stesso, non soltanto al funzionamento del linguaggio ma al segno stesso. Ovviamente, il segno fa parte del linguaggio ma diciamo che mostra come la volontà di potenza fa parte integrante della struttura della parola, non solo del linguaggio ma della parola, della parola come segno, segno che è all’interno di una struttura per cui il segno si connette in certi modi, ecc., e questo lo stabilisce il linguaggio. Possiamo dire che senza la volontà di potenza non c’è segno, ma senza segno non c’è volontà di potenza. È come se fossero le due facce della stessa cosa. La stessa cosa è rispetto al linguaggio: il linguaggio è volontà di potenza, la volontà di potenza è il linguaggio stesso, il modo in cui funziona. La questione è che non funziona in un altro modo. …il piacere è il solo concepibile risultato che è soddisfatto in se stesso; e perciò, dal momento che noi stiamo cercando ciò che è bello e ammirevole senza altra ragione al di là di esso, il piacere, la felicità, è il solo oggetto che possa soddisfare le condizioni richieste. Questo, conclude Peirce, è un argomento che merita rispetto e considerazione. Le sue premesse (che il piacere è il solo concepibile risultato che sia perfettamente soddisfatto in se stesso) devono venire accettate. Cioè, ha trovato quell’elemento che viene soddisfatto in se stesso, non ha bisogno di altro, il piacere come soddisfazione per il raggiungimento dell’obiettivo prefissato. Se si legge tutto questo tenendo conto di ciò che dice Nietzsche allora ci si rende conto anche del superpotenziamento. A pag. 95. … “l’essenza della ragione è tale che il suo essere non può mai esser stato completamente perfezionato. Esso deve esser sempre in uno stato di inizio, di incremento”. La ragione, la logica, il terzo elemento del segno, non può mai essere completamente perfezionato, come dire che il piacere viene, sì, soddisfatto ma mai completamente, e questo lo sappiamo, perché ciascuna parola rinvia sempre a un’altra. Peirce ci sta dicendo esattamente la stessa cosa che ci dice Nietzsche: si trova sempre in uno stato di inizio, di incremento, non può fermarsi mai. Questo rispetto alla ragione, il terzo elemento del segno, che dà il significato a tutto quanto. Vedete come si annodino, si intreccino, vari discorsi, quello di Heidegger, quello di Peirce, di Nietzsche, a indicare sempre e comunque una questione, e cioè che cosa veramente è da pensare: la parola, il modo in cui funziona.