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14 febbraio 2024

 

Aristotele Topici

 

In questo testo di Teofrasto, Metafisica, ho trovato delle cose interessanti, degne di essere prese in considerazione. Teofrasto era allievo di Aristotele, quindi, era un suo contemporaneo. La questione che si pone qui in Teofrasto è quella della possibilità della conoscenza. È una questione complessa perché facilmente si può giungere a mostrare l’impossibilità della conoscenza, cosa a cui si giunge attraverso la conoscenza, naturalmente. Se anche alcune cose fossero conoscibili per il fatto di essere inconoscibili, come dicono alcuni, questo sarebbe un modo proprio, ma che richiede una qualche divisione. Forse, nei casi in cui ciò è possibile, sarebbe più appropriato parlare per analogia che in base allo stesso inconoscibile, come se l’invisibile fosse visibile in base all’invisibile. Bisogna, dunque, cercare di distinguere quanti sono i modi e in quanti modi si dice il conoscere. Cioè, conoscere una cosa attraverso il suo negativo. Il punto di partenza per queste medesime questioni, prima cosa da fare è definire il sapere, ma ciò potrebbe sembrare un po’ troppo difficile; in effetti, è impossibile cogliere qualcosa di universale e di comune nelle cose che si dicono in molti modi, in quanto questo è anche aporetico e non facile a dirsi, cioè, fino a che punto e di quali cose si devono cercare le cause, similmente negli enti sensibili e in quelli intelligibili. In entrambi i casi, infatti, il processo all’infinito è inappropriato e distrugge il pensiero. Ma entrambi sono in un certo modo punti di partenza; forse, però, uno lo è per noi e l’altro in senso assoluto, ovvero l’una cosa è il fine e l’altra il punto di partenza nostro. Fino a un certo punto, dunque, possiamo indagare mediante una causa, assumendo punti di partenza dalle sensazioni, mentre quando passiamo alle cose supreme prime non possiamo più, sia perché esse non hanno una causa, sia a motivo della nostra debolezza nel volgere lo sguardo verso le cose più luminose. Forse, però, è più vero questo, e cioè che l’indagine su tali cose avviene per mezzo dell’intelletto stesso, che le tocca, sta con esse, per così dire, a contatto, ragion per cui non è possibile inganno a loro riguardo. Sembra di sentire Gentile: noi pensiamo sì le cose, ma pensandole non pensiamo le cose, pensiamo il nostro pensiero. Ma difficili sono anche a questo riguardo la comprensione e la credenza, poiché è anche particolarmente rilevante e necessario per le singole indagini, e soprattutto per le più importanti, sul dove bisogna produrre la definizione, per esempio, a proposito delle ricerche sulla natura e di quelle anteriori. Infatti, coloro che ricercano una ragione di tutte le cose distruggono la ragione. Ma insieme anche il conoscere. Teofrasto sta parlando di Aristotele. Per Aristotele non c’è la causa, è questo che ci ha detto in buona parte dell’Organon. Perché non c’è la causa? La causa sarebbe la premessa maggiore del sillogismo, ma questa premessa maggiore non è dimostrabile; se non c’è la causa del sillogismo, non c’è quella cosa che Leibniz chiamava il principio di ragione. Lui lo descrive così: nihil est sine ratione, non c’è nulla che non abbia un motivo. Però, qui la ragione è data dalla premessa maggiore, è data dall’universale, ma l’universale che ragione può dare? L’induzione, cioè, l’analogia, niente di più di questo. Or, dunque, se neppure nel caso degli animali si deve indagare la vita o la si deve indagare in certo modo, neppure nel caso del cielo e dei corpi celesti si deve indagare la rotazione o la si deve indagare in qualche modo definito. La presente aporia si presenta in qualche modo anche al movimento ad opera di ciò che è immobile. Quanto all’essere, tutte le cose in vista di qualcosa e niente invano, la definizione non è per niente facile… Dice tutte le cose in vista di qualcosa e niente invano: richiama, certo, il leibniziano nihil est sine ratione, ma questa ragione, se la cerchiamo fuori dalla ragione, non la troveremo mai. Questa ragione non è nient’altro che la ragione della parola, che rinvia a qualche cos’altro. …e proprio per il fatto che alcune cose non sembrano stare così ma talune aver luogo per coincidenza, altre per qualche necessità, come nelle cose celesti e in numerosi casi sulla terra. In vista di che cosa hanno luogo, infatti, l’irrompere e il defluire del mare? O di che cosa gli avanzamenti o i disseccamenti e le umidificazioni? Già allora ce l’avevano con il cambiamento climatico. Come mai avvengono queste cose? E, in generale, i mutamenti, ora in un senso ora nell’altro, e le corruzioni e le generazioni, in vista di che cosa sono nella stessa terra le alterazioni e i mutamenti che si producono per spostamento ora in un senso ora nell’altro, e altre cose non poco simili a queste. Qui c’è Democrito che comincia a fare capolino. Bisognerebbe, infatti, se fossero in vista di qualcosa che fossero sempre allo stesso modo e in egual maniera. Inoltre, nelle piante e ancor più negli enti inanimati che hanno una natura definita per quel che sembrano e per le figure e per le forme e per le loro proprietà, si potrebbe indagare in vista di che cosa esse siano. Questa stessa cosa, infatti, suscita aporia, cioè, che anche queste cose non abbiano spiegazione in altri enti più produttivi, anteriori e più nobili. Per questa ragione, anche, sembra avere un che di credibile l’argomento che, quindi, tali cose abbiano luogo per un caso spontaneo e acquistino certe forme e differenze reciproche per la rotazione del cielo. Ma se non sono in vista di qualcosa e indirizzate all’ottimo, bisogna assumere certe definizioni e non porle assolutamente per tutti i casi, giacché anche siffatti enunciati suscitano incertezza, sia in senso assoluto sia in senso particolare; in senso assoluto, quando si afferma che la natura in tutti i casi desidera il meglio e che nei casi in cui è possibile rende partecipi del sempre e dell’ordinato, e così egualmente anche nel caso degli animali perché, laddove il meglio è possibile, non viene mai meno; per esempio, l’essere la trachea davanti all’esofago, che è difatti la posizione più nobile, e l’essere la migliore mescolanza del sangue nella cavità mediana del cuore… /…/ Infatti, anche se il desiderio è così… Desiderio del meglio. …ciò evidenzia tuttavia perché molte cose non obbediscano al bene né l’accolgano, anche la gran parte di esse non sembrano affatto puntare al meglio. L’animato è infatti una piccola porzione mentre smisurato è l’inanimato e degli stessi enti animati l’essere è piccola cosa, seppur migliore. Ma dire che in generale il bene sia qualcosa di raro e in poche cose e il male invece in quantità molto abbondante, però, non solo nell’indeterminatezza… È classico nel pensiero questo accostamento del male all’indeterminato. …,e per così dire, nella forma della materia, è proprio di chi quasi ignora del tutto le cose della natura. Infatti, così dicono anche quelli che parlano della totalità di ciò che è, come Speusippo, che fa del nobile qualcosa di raro che sta nella regione del centro mentre il resto è agli estremi; dunque, le cose che sono si sono trovate in buona condizione. Platone e i pitagorici invece affermano che grande è la distanza poiché tutte le cose vogliono imitare.... Vogliono imitare l’Idea, cioè, il Bene assoluto. …e, tuttavia, fanno sussistere una qualche opposizione tra l’indeterminata e l’Uno, nella quale diade risiedono l’indefinito e il disordinato, per così dire, ogni assenza di forma di per sé; e dicono che, in generale, è impossibile senza di essa la natura del Tutto, ma essa quasi pareggia o anche sopravanza l’altro principio in quanto anche i principi sono contrari… Che i principi siano contrari, questo viene da Aristotele; ma in Aristotele non è mai esplicitato che i principi sono i contrari, e cioè che il principio, per esempio l’universale, è il contrario di se stesso, perché lui afferma una cosa che non può affermare. Questa è anche la ragione per cui neppure Dio, per tutti quelli che ne riportano la causa, può condurre ogni cosa all’ottimo, ma per quanto è possibile se appunto lo fa. Forse, però, non sceglierebbe neppure di farlo se appunto accadrà che tutto quanto è si distrugga, constatando esso dei contrari e trovandosi esso nei contrari. Se tutto è nei contrari, tutto si autodistruggerà; quindi, che cosa lo mantengo a fare? Anche nelle cose prime paiono essercene molte che, osservate con attenzione, hanno luogo anche come capita, come si è detto dei mutamenti che interessano la terra; infatti, non il meglio né l’essere in vista di qualcosa si osservano, ma semmai conseguire a qualche necessità, e molte cose siffatte si producono anche nell’aria e in altri luoghi. In massimo grado parrebbero avere ordine tra le cose sensibili i corpi celesti e, fra le altre cose, gli enti matematici, a meno che non vi siano anche enti anteriori a questi, anche se infatti non è totale in queste cose, tuttavia, l’ordinato è maggiore… Nella matematica l’ordinato è maggiore rispetto all’πειρον. …a meno che non si assumano forme tali quelle che Democrito suppone proprie degli atomi, cioè, l’assenza di un principio causale. Cioè, di un principio di ragione. Il principio di ragione è principio causale. Ma certo su queste cose bisogna indagare e, come si è detto all’inizio, bisogna cercare di assumere qualche definizione, sia nella natura sia nell’essere del Tutto, dell’essere in vista di qualcosa e dell’impulso verso il meglio. È questo, infatti, il punto di partenza nello studio del Tutto, cioè, in che cosa consistano le cose che sono e come sono reciprocamente disposte. È proprio su questo che Democrito aveva posto le sue formidabili obiezioni, e cioè: non c’è nessun principio di ragione. Ma Aristotele fa ben altro rispetto a ciò che fa Democrito; perché Democrito la mette lì, come se fosse una sorta di intuizione, mentre Aristotele no, Aristotele lo dimostra – potremmo dire con Spinoza more geometrico – logicamente. Aristotele dimostra logicamente che non c’è nessun principio di ragione. Il principio di ragione è quello che rende conto di una certa cosa. Faccio un esempio banale. Il solito sillogismo: tutti gli animali sono mortali, Socrate è un animale, Socrate è mortale. La conclusione, Socrate è mortale, procede da una ragione (per questo è un sillogismo), e qual è la ragione per cui Socrate è mortale? La ragione è che tutti gli animali sono mortali: un universale. E, difatti, il sillogismo muove da un universale, non ci sono alternative, la premessa maggiore deve essere un universale, sennò non si costruisce un sillogismo. Ma Aristotele ci ha spiegato bene che questo universale è fatto dell’analogia, dell’induzione e, quindi, muove da una definizione che non può essere dimostrata. E, allora, verrebbe da concludere che, di fatto, in ciascun sillogismo, in ciascuna argomentazione, non c’è propriamente il principio di ragione. Nihil est sine ratione o, più probabilmente, omnia sunt sine ratione, cioè, tutte le cose sono senza un motivo, senza alcuna ragione. Questo lo diceva Democrito, solo che Aristotele lo mostra logicamente. Democrito non lo fa, anche perché a quel tempo non avevano bisogno di dimostrare le cose, le dicevano e basta. Allo stesso modo Eraclito: avete mai visto Eraclito parlare di logica? Invece, Aristotele sì, Aristotele è il pilastro su cui si regge tutta la logica contemporanea, con una piccola variante qua e là, ma il fondamento rimane questo, c’è poco da fare. Dunque, Aristotele fa qualcosa di molto più pericoloso per il pensiero di quanto fece Democrito, anche se Platone aveva proibito anche solo di nominarlo nell’Accademia. È stato uno dei primi casi di censura ufficiale. Quello che fa Aristotele è di gran lunga più pericoloso rispetto a quello che ha fatto Democrito. Come dicevo, Democrito l’aveva enunciata, anche se era stata chiaramente pensata, però, Aristotele la dimostra, per così dire, logicamente. La dimostra logicamente, compiendo lui stesso una operazione impossibile perché ha dimostrato che, se ogni argomentazione è fondata su niente, allora anche la sua dimostrazione sarà altrettanto fondata su niente. Era poi quella storia con cui si divertivano gli scettici, non esiste nessuna verità, a cui obiettavano che anche questa non era una verità. Certo che non lo è, ma anche lo è. Non avevano letto Eraclito: ν πάντα εἰναι, l’uno è i molti, il molteplice. E, allora, dire come dicevano gli scettici che non è possibile affermare che non esiste la verità, altrimenti anche questa affermazione dovrebbe essere presa come verità… Sì, è presa come verità, ma anche no: è vero e falso, simultaneamente. Proprio come dice Teofrasto: i contrari simultanei, quelli che distruggono il pensiero. Ma perché lo distruggono? Perché, ponendo i contrari, si distrugge, non il pensiero propriamente, ma la possibilità del pensiero epistemico, si distrugge la verità epistemica e rimane la verità doxastica, quella da cui si parte e a cui si torna, inesorabilmente, e cioè l’analogia, non abbiamo altro. E l’analogia che cos’è? Sappiamo che cos’è, ma possiamo aggiungere qualcosa: è la rappresentazione. L’analogia è rappresentazione di ciò di cui è analogia. Come sapete, l’analogia è un rapporto: A sta a B come C sta a D. Ora, questa è la rappresentazione, cioè il modo di rendersi presente qualche cosa che non c’è, perché, se io dico che “A sta a B come C sta a D”, questo rapporto lo creo io, perché di fatto non esiste in natura, è una mia rappresentazione: difatti, così come sembra che A stia a B, allora allo stesso modo, sarà così per C e D. Quindi, l’analogia come rappresentazione, ma rappresentazione di una cosa molto particolare: di ciò che non c’è. Vi ricordate quando Heidegger parlava della rappresentazione: che cosa significa che qualcuno si rappresenta qualche cosa? Per esempio, io mi posso rappresentare la luna. La luna non è qui, non la posso toccare con mano, posso rappresentarmela. Lui parlava del Duomo di Milano o di Norimberga, non importa. Quindi, rappresento, cioè, mi presento qualche cosa che, come dice lui, non è sottomano – il Duomo di Milano non posso toccarlo, non c’è, non è sottomano –; ma se io fossi davanti al Duomo di Milano, in piedi di fronte a lui e lo toccassi, ciò che toccherei sarebbe il Duomo di Milano o una rappresentazione del Duomo di Milano? È una rappresentazione perché, se io dovessi affermare con assoluta certezza che quello è il Duomo di Milano, cosa dovrei fare? Dovrei argomentare, naturalmente, ma con che cosa lo dimostro? Con una dimostrazione, e questa dimostrazione è fondata su che? Su una definizione che mi è parsa opportuna in quel momento, ma che non ha nessuna prova. Dunque, che cosa ho di fronte? Ho di fronte, se proprio dobbiamo dirla tutta, un racconto. Io vedo una cosa, che è un racconto; la stessa parola è un racconto. Il che è un altro modo per dire ciò che dice Aristotele quando parla dell’omonimia: l’omonimia è un racconto, dice tante cose, è, potremmo dire, un mito. Questo racconto, che ho di fronte… Anche l’idea che sia di fronte a me è un altro racconto, naturalmente, perché senza un racconto non significa niente dire che di fronte a me c’è qualcosa. Un racconto fatto di parole, naturalmente, anche di argomentazioni, che vengono utilizzate. Anche i miti utilizzano argomentazioni, per forza, non possono fare diversamente, ma altro è l’approccio a questa argomentazione: l’approccio epistemico e l’approccio doxastico. Io so che questa è la verità: perché? In fondo, quelli che credevano nei miti erano più prossimi a qualcosa di concreto di quanto lo sia il fisico di oggi. Qual è la verità? Quella che si dice, quella che dicono i saggi, quella che dicono i padri, è quella lì. Non c’è la verità epistemica perché, per quanto possa dimostrare, non potrà mai dimostrare la dimostrazione. Ogni parola è un racconto e questo – Aristotele lo dice trasversalmente – è il motivo per cui è così “facile” provare o confutare qualunque cosa: perché una parola può significare qualunque cosa; se la so utilizzare al meglio, troverò sempre il modo per volgerla a mio vantaggio e, quindi, vincere la partita, se è questo l’obiettivo. Era questa tra gli eristi la posta in gioco: vincere la partita con ogni mezzo, contro chiunque e a qualunque costo, in cambio di una retribuzione adeguata. Quindi, ecco che tutte le questioni che pone Aristotele circa l’impossibilità di stabilire il principio di ragione, che è quello su cui si fonda tutta la conoscenza, tutto il sapere perché, se non c’è il principio di ragione, io non posso concludere niente.

Intervento: È una giustificazione della volontà di potenza…

Infatti, è questa la questione cui dobbiamo giungere: intendere come di fatto il principio di ragione sia il principio – usiamo questo termine – della volontà di potenza. Dare una ragione: è così per questo motivo e, se è per questo motivo, allora io lo domino, lo utilizzo. L’πειρον non è utilizzabile, l’infinito non è utilizzabile se non lo trasformo in finito e non è utilizzabile perché è infinito potenziale, quindi, posso sempre aggiungere qualcosa. La parola, in quanto racconto, è un infinito potenziale perché posso sempre aggiungere, per esempio, un significato, un’altra parola, un altro racconto. L’infinito potenziale è quello dei numeri naturali, non ha limiti, mentre l’infinito attuale è un infinito limitato da due estremi, come, per esempio, tra 1 e 2, dove tra questi ci sono infiniti numeri. In questo caso sfrutta il congegno di Zenone della infinita divisibilità. La cosa interessante è che l’infinito attuale comporta l’infinito potenziale perché questa infinita divisibilità è, sì, in potenza ma è anche in atto. È in atto ed è in potenza, perché è già lì, quindi, è in atto, ma non è mai conclusa e, quindi, è in potenza. Come saprei che l’infinito in potenza è in potenza se non fosse già in atto? Cioè, se io penso alla sequenza dei numeri naturali, la penso già in atto, come qualche cosa che c’è già perché esiste l’aritmetica e che prevede, come diceva Peano, che a ciascun numero segua un altro numero, che il successore di un numero sia un altro numero. Quindi, nell’infinito potenziale c’è già l’infinito attuale, è già tutto lì. Il fatto che non lo possa aritmetizzare non significa niente; d’altra parte, non posso aritmetizzare nemmeno l’infinito attuale: come faccio ad aritmetizzare una infinita divisibilità? Certo, i matematici hanno inventato una serie di trucchi, ma la questione rimane. L’infinito potenziale e l’infinito attuale sono due facce dello stesso, cioè, due facce della parola. Certo, io posso aggiungere in un racconto, in una parola, sempre delle cose, all’infinito, ma tutte queste cose che aggiungo sono già presenti nel linguaggio, perché non le prendo da chissà dove, dall’Iperuranio, ma sono già presenti. Infinito attuale e infinito potenziale: non può darsi l’uno senza l’altro, per parafrasare Hegel, sono due momenti dello stesso. Dunque, la parola come l’infinito attuale è potenziale: una e molti. È sempre questa la questione: la parola è una ed è molti. Quanto è stato fatto nei millenni per cancellare questo problema? Non si è trattato di cercare di risolverlo ma di cancellarlo, di fare come se non ci fosse. Con Aristotele hanno fatto un lavoro di fino perché lo hanno tradotto attraverso il neoplatonismo, hanno fatto dire ad Aristotele cose che lui non dice, però, dicendo ipse dixit, lui lo dice. Ma, di fatto, era Platone, con le sue Idee, messe nell’Iperuranio, e da lì dominano tutto. L’Idea di Platone è la vera έπιστήμη. Il pensiero epistemico presuppone l’Idea di Platone, cioè, che esista un’Idea, che sta al di sopra e che da lì domina tutto e garantisce che le cose siano quelle che sono. Da duemila anni non si è fatto nient’altro nel pensiero, quindi anche nella filosofia, che fa parte integrante del pensiero umano, che tentare di cancellare la proposizione che l’uno è i molti. La simultaneità dei contrari è la dannazione del pensiero, la sua rovina, e Teofrasto si esprime così, sulla scorta di Aristotele, era il suo migliore discepolo e, infatti, gli succedette. Già i Topici, e anche le Confutazioni sofistiche, sfruttano il fatto che la parola è fatta di contrari; altrimenti, se ciascuna cosa significasse solo una cosa e basta, non sarebbe dimostrabile né confutabile nulla. Ma questo è Platone, non Aristotele.

Intervento: Platone era contrario all’arte…

Secondo Platone, la cosa è un riflesso dell’Idea, quindi, non è un assoluto ma una cosa di poco conto che imita l’Idea, la quale è perfetta. Ora, l’arte imita la cosa che imita la cosa perfetta, l’Idea, quindi, l’arte è una doppia imitazione. Da qui la sua ostilità nei confronti dell’arte e, difatti, non esiste un’estetica platonica. Dunque, dicevo prima, che tutto ciò che fa Aristotele nei Topici e nelle Confutazioni sofistiche è possibile proprio per ciò che lui stesso dice, e cioè che la parola è un racconto, è omonimia, dice una infinità di cose. Nella dimostrazione, certo, parto dalla definizione, ma come trovo la definizione? Da tutti i significati, da tutte le cose che dice una parola, ne traggo una, quella che interessa a me, mentre tutte le altre le scarto. Ma il fatto che io le scarti non significa che non esistano più, ci sono. Pensate alla dottrina psicoanalitica, alla nosografia freudiana, ai discorsi ossessivo, paranoico, isterico e schizofrenico; questi discorsi non sono altro che figure retoriche, cioè, modalità attraverso le quali ci si ripara dal contrario, cioè, dal nemico, da ciò che crea problema. E così, evocando Freud, nel discorso ossessivo tiene d’occhio l’altro, perché non faccia cose strane, è attentissimo a ciò che fa; nell’isteria, invece, l’altro è rappresentato, sono io che distruggo tutto; il discorso paranoico, invece, è quello che deve istruire l’altro perché l’altro è ignorante, non sa niente. Queste figure retoriche sono modalità per dominare questo contrario, questo altro, questo qualche cosa che, come direbbe Teofrasto, distrugge il pensiero e, distruggendo il pensiero, distrugge anche me, che sono fatto di pensiero. L’πειρον di Anassimandro ne è un esempio perché distrugge il pensiero perché non lo posso pensare, eppure lo penso, ma se lo penso non penso l’πειρον, penso un’altra cosa; quindi, penso quella cosa ma non la posso pensare; tuttavia, la penso: uno e molti, simultanei. Ed è questo il problema del linguaggio, non ce ne sono altri, ed essendo il problema del linguaggio è il problema di ciascuno. Come metto riparo ai contrari? Dicendo qualche cosa sono preso da fantasie. Cosa sono le fantasie? Sono i modi, per esempio, in cui io penso i contrari. Tutte queste fantasie, che intervengono mentre io dico qualche cosa, sono il male, sono ciò che io devo gestire, controllare, se voglio continuare a illudermi che quello che dico sia quella cosa lì e non un’altra. Sono le fantasie che intervengono a creare problemi, perché le fantasie sono quelle rappresentazioni del contrario, del negativo, direbbe Hegel, e, quindi, di ciò che impedisce di fare uno, di fare in modo che quella cosa che dico sia quella cosa lì. Non ci riesco perché intervengono le fantasie: penso che la cosa sia in un certo modo, però non riesco ad evitare le fantasie che me la fanno vedere in un altro modo. Queste fantasie sono il modo – non ne abbiamo un altro – in cui interviene il negativo, in cui intervengono i molti: le fantasie sono i molti. Il tentativo è sempre quello di ridurre e di ricondurre i molti all’uno, ma questa stessa operazione non può evitare altre fantasie, altri molti. Intervengono altri molti che mi distraggono, mi portano via, continuamente. Ecco perché è un racconto: un racconto che si snoda incessantemente, costruito, sorretto, pilotato da fantasie, cioè, dai molti.

Intervento: Le leggi naturali, il diritto…

Perché le onde continuano a riversarsi sulla riva? A che scopo? Nessuno. Perché tutto il sistema solare si trova in quell’angolino della Via Lattea? A fare che? Il fare Uno è il fantasma del pensiero. È questo il problema del linguaggio: se non riconduco all’uno, cioè, all’universale, non posso costruire un sillogismo, quindi, non posso conoscere, non posso pensare, argomentare. Quindi, sono costretto a ricondurre all’uno, non posso non farlo, ma è meglio se so quello che sto facendo. Ricondurre all’uno devo farlo comunque, l’πειρον non posso pensarlo in nessun modo, nonostante io lo stia pensando.

Intervento: La lotta tra il bene e il male…

Nello stesso istante in cui si separano l’uno dai molti compaiono il bene e il male, perché, come diceva Platone, l’uno è il bene e i molti sono il male.