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14 febbraio 2018

 

C. Sini, Semiotica e filosofia

 

Come vi avevo preannunciato, ci occuperemo di semiotica. Ce ne occuperemo leggendo alcune pagine del libro di Carlo Sini Semiotica e filosofia, ed. Il Mulino, 1990. Leggeremo questo, anziché leggere direttamente Peirce, per due motivi: intanto, perché Sini conosce molto bene Peirce, è un grande e appassionato lettore di Peirce; poi, perché lui punta la sua attenzione su un aspetto particolare della semiotica di Peirce, e cioè sulla semiosi infinita, che è l’aspetto che a noi interessa di più. A pag. 10 dice …Peirce sostiene la tesi a tutta prima paradossale secondo la quale l’uomo è, nella sua essenza, un simbolo, ovvero un segno, tesi che riprender a fondo un anno più tardi nei saggi citati. La glassy essence, l’essenza vitrea, trasparente, dell’uomo fa sì che egli non differisca sostanzialmente dalla parola; l’uomo e la parola posseggono una comune natura e anche un comune destino; essi si rivolgono a un interpretante futuro, dal quale dipende la loro essenza, il loro meaning, la loro essential significance; entrambi mostrano un incremento delle conoscenze, nonché la capacità spirituale di agire contemporaneamente in luoghi diversi (ciò che una “mera cosa” non può fare) e di rivestire così una “immortalità relativa” che dieci anni più tardi Peirce definirà come il carattere “pubblico” della verità, coincidente con ciò che il senso comune considera come reale. Possiamo porre subito una questione importante: l’uomo è un segno, nient’altro che un segno, quindi, un rinvio. Ciò che c’è di essenziale, dice Sini, riprendendo Peirce, è che questi segni si rivolgono a un interpretante futuro, dal quale dipende la loro essenza. Quindi, questo uomo, che è un segno, si rivolge a un futuro. Vedete qui come Sini, e con lui altri, riprenda senza mai citare Heidegger, che ha costituito per molti, sia per Sini sia per Severino, Vattimo e alcuni altri, il fondamento da cui partire. Conoscendo Heidegger lo ritrovate continuamente nelle loro pagine, anche se non è citato. Era chiaro qui il riferimento al progetto, all’essere progettato. A pag. 11 dice La novità introdotta da Peirce in tale campo consiste nella proposta di un nuovo criterio logico di classificazione basato, non sui termini del ragionamento (le “cose su cui si ragiona”), come sarebbero il soggetto, il predicato e simili, né sulle “cose che producono il ragionamento, come sarebbero il concepire, il giudicare, ecc.”, ma sulla forma delle operazioni impiegate nel porre le premesse e nel trarre le conclusioni. Cioè, la sua struttura, qual è la forma logica del pensiero, non ciò che si pensa o chi lo pensa, ma come è costruito questo pensiero, e per Peirce il modo in cui è costruito è il modo inferenziale. Il criterio, dunque, riguarda appunto le forme di inferenza: ogni argomentazione valida, sostiene Peirce, rimanda a una precisa forma di inferenza (cioè a una delle tre ricordate) che possiamo anche chiamare “principio guida dell’argomentazione”. Questo è un primo passo. Per Peirce il criterio che guida tutta la sua semiotica si appunta sul sistema inferenziale, cioè sul fatto che le persone ragionano tramite inferenze. Se vogliono fare una qualunque conclusione, un qualunque pensiero o vogliono affermare una qualunque cosa, devono usare delle inferenze. Un’inferenza è una modalità del pensiero, del linguaggio, tale per cui ciascuna cosa, per potere dirsi, necessita di un passo precedente che la giustifichi. Se io affermo che questo aggeggio è qui sul tavolo, questa affermazione banalissima per Peirce procede da una inferenza, cioè da una serie di cose, che indubbiamente so già, e che mi servono come premesse per giungere alla conclusione che questo aggeggio è sul tavolo. La critica che generalmente si fa, e che riprenderà tra breve, è che questa affermazione, che questo è sul tavolo, non procede da inferenze ma dal fatto che semplicemente lo vedo che è sul tavolo, per cui non è che è io debba fare una serie di ragionamenti per giungere a questa conclusione. Eppure, dice Peirce, lo vedremo nel dettaglio tra breve, anche questa banalissima affermazione non potrebbe farsi se non fosse il prodotto di una inferenza. E adesso vedremo perché. Il punto che qui importa sottolineare è che il nuovo criterio di classificazione proposto da Peirce si pone decisamente al di là dell’analitica kantiana (che Peirce dichiarò di aver studiato per dieci anni) e, nello stesso tempo, dei cuoi ben noti sviluppi idealistici. Può esser utile chiarire rapidamente questa affermazione con un riferimento al § 42 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio di Hegel. È noto che in tale paragrafo Hegel osserva che Kant, nella ricerca delle categorie, “se l’è cavata a buon mercato”;… Questa questione delle categorie è importante, lo è stata in tutta la filosofia, sin da Aristotele con le sue Categorie. A che cosa servono le categorie? Servono a fornire un criterio che consenta di stabilire che cosa sono le cose, come funzionano, quali sono gli ambiti entro i quali possiamo muoverci per dire. Per esempio, Aristotele pone come prima categoria la sostanza. Qual è la prima cosa che rileviamo di una qualunque cosa? La sua sostanza, poi, la qualità, poi, la quantità, cioè tutti quegli elementi che concorrono a farci conoscere le cose. Le categorie sarebbero gli elementi ricorrenti, quelli che ricorrono sempre. Per esempio, non posso dire che questo aggeggio non ha una sostanza: per esempio, pesa. Questa è l’importanza in ambito filosofico, e non solo, delle categorie. Anche le persone pensano normalmente attraverso categorie. Nel caso più comune le categorie sono quegli schemi che ciascuno ha per riconoscere le cose. Quando si incontra qualcuno per strada si utilizza, anche senza saperlo, una serie di categorie: si distingue il maschio dalla femmina, il nemico dall’amico, ecc., tanto per dire delle cose banali. Dice Hegel, riferendosi a Kant “se l’è cavata a buon mercato”; eli avrebbe assunto infatti le diverse forme del giudizio cos’ come “si trovano già nella logica comune, empiricamente indicate (…) I modi con cui le persone giudicano normalmente. I diversi modi di giudizio, già belli e annoverati, pongono dunque le diverse determinazioni del pensiero”. E qui cita un brano di Hegel. Tale filosofia – conclude Hegel – avrebbe dovuto avere, sul metodo di trattar la logica, almeno questo effetto, he le determinazioni del pensiero in generale o il materiale logico usuale, le specie dei concetti, dei giudizi, dei ragionamenti, non fossero più oltre prese dall’osservazione e concepite, così, solo empiricamente, ma venissero dedotte dal pensiero stesso. Questi schemi mentali, questa è l’accusa che fa Hegel a Kant, non dovremo acquisirli dal modo comune di pensare, cioè dai modelli già esistenti, ma dal pensiero stesso, dal modo in cui funziona il pensiero. Da lì dovremo trarre qualcosa che è proprio del pensiero, non basarci su come funziona generalmente. Se il pensiero dev’essere capace di provar qualche cosa, se la logica deve esigere che si rechino prove, e se vuole insegnare il modo di provare, essa deve essere anzitutto capace di provare il suo peculiare contenuto, e scorgerne la necessità. Quindi, non più utilizzare il pensiero così come lo si utilizza comunemente ma domandarsi il perché lo si utilizza in quel modo. Qui è finita la citazione e parla di nuovo Sini. Limitatamente al problema che qui interessa, Hegel e Peirce si mostrano dunque concordi nel rifiutare che “le specie dei concetti , dei giudizi, dei ragionamenti”, o argomenti, vengano classificate empiricamente, ovvero, per dirla con le parole di Peirce, che il criterio logico di classificazione assuma come alidi e non problematico il terreno delle “cose su cui si ragiona” o termini del ragionamento. Prende, cioè, come buono il modo di ragionare comune, mentre, dice, che non è proprio così: il modo di ragionare comune, va bene, ma da dove arriva? Perché ragioniamo così? Perché è diventato il modo di ragionare comune. Sotto questo profilo la logica di Hegel e di Peirce prende le mosse da una comune esigenza. A pag. 13. …Peirce muove nondimeno dalla preliminare, e invero immotivata, accettazione di una nota tesi kantiana secondo la quale “la funzione dei concetti è quella di ridurre il molteplice delle impressioni sensibili a unità”. Il modo classico di pensare, che è quello che si fa continuamente: si prendono tutte le impressioni sensibili e le si riducono a un’unità. Per esempio: si vede una persona, è sprovvista di barba, porta una gonna, porta un apparato qui davanti, tutte queste cose sensibili vengono ridotte a unità, in questo caso una donna. Ecco dunque comparire quel problema delle impressioni elementari, delle premesse ultime sulle quali poggia ogni argomentazione, che abbiamo visto assillare Peirce nel corso di lezioni di Harvard a suo tempo ricordato. Che cosa sono le impressioni sensibili? Che cos’è una sensazione? Che cos’è un’intuizione? Ecco le domande alle quali Peirce si sforzerà successivamente di rispondere. Dice, sì, questo è il modo di ragionare comune, si riducono a unità una serie di impressioni sensibili, ma cosa intendiamo con impressione sensibile, per esempio? A pag. 14. Le categorie del 1867 e la prima semiotica. Posto, come si è ricordato, che la funzione dei concetti sia quella di ridurre il molteplice delle impressioni sensibili a unità, ne deriva allora la possibilità di disporre i concetti più generali o universali (cioè le categorie) in una successione i cui limiti estremi saranno rappresentati dal concetto universale che è più vicino al molteplice delle impressioni sensibili (tale che sotto quello nessun altro concetto sia pensabile) e dal concetto universale che è più lontano dal molteplice delle impressioni sensibili (tale che nessun concetto sopra questo, e cioè più generale, sia pensabile). I due concetti indicati sono identificati da Peirce con le rispettive categorie di sostanza e di essere. Queste sono dunque le prime categorie cercate. Esse anzi delimitano, in basso e in alto, ciò che potremmo chiamare lo spazio categoriale che in seguito analizzeremo per rinvenire i gradi categoriali intermedi, o categorie intermedie, che vanno dall’essere alla sostanza. Innanzi tutto, però, dobbiamo chiarire il senso dei termini sostanza ed essere. L’unità alla quale l’intelletto riconduce le impressioni, scrive Peirce, è l’unità della proposizione (“a è b”). Qui, come vedete, c’è già un passo interessante. L’unità a cui si riconduce una serie di impressioni sensibili è una proposizione, non è una cosa. Infatti, nell’esempio che si faceva prima la proposizione è “questa è una donna”. Tale unità consiste nella connessione del predicato col soggetto. Ora, la sostanza nomina appunto, nella unità della proposizione, il soggetto. La sostanza nomina il soggetto: questo, soggetto, è, verbo, quello, predicato verbale. Essa va dunque intesa come il concetto di “ciò che è presente in generale”, dell’Esso (it). Una citazione di Peirce. Questo concetto… ciò che è presente in generale, l’impressione sensibile, per Heidegger sarebbe la semplice presenza. …come l’atto dell’attenzione, non ha connotazione alcuna, essendo esso il puro potere denotativo della mente, cioè il potere che dirige la mente a un oggetto, distinto dal potere di pensare un qualche predicato di quell’oggetto (…). Prima che qualsiasi comparazione o discriminazione possa essere fatta fra ciò che è presente, ciò che è presente deve essere stato riconosciuto come tale, come esso (…) Prima considerazione: un qualche cosa deve essere riconosciuto come un qualche cosa. Adesso non è che io voglia mettere Peirce a fianco di Heidegger, però ci sono delle connessioni che meritano di essere annotate. L’esso non è perciò né predicato di un soggetto, né in un soggetto, e in accordo con ciò è identico con il concetto di sostanza. La sostanza per Peirce è questo: l’esso, ciò che primariamente viene colto, la prima impressione sensibile, che sembra quasi porsi fuori dal linguaggio. Vedremo poi che non è così per Peirce. Però, la sua prima riflessione intorno alla prima questione di cui occorre parlare è proprio l’esso, ciò che mi si presenta, il qualche cosa come un qualche cosa, che non ha ancora nessuna determinazione, nessuna definizione, è qualcosa… ma è qualcosa. Se la sostanza nomina dunque il soggetto di quell’unità che è la proposizione, il concetto di essere si riferisce invece alla copula “è” (“a è b”). Quindi, abbiamo la sostanza, che è il soggetto, e l’essere che è la copula, quando dice “a è b”. Il concetto di essere, dice Peirce, contiene soltanto quell’unione del predicato e del soggetto in cui i due termini si accordano; esso perciò, come quello di sostanza, è del tutto privo di contenuto, ma al tempo stesso, diversamente da quello di sostanza, è il più remoto dalle impressioni sensibili. Quindi, privo di connotazione, propriamente, ma il concetto di essere è anche quello più remoto, più lontano, perché l’essere di qualche cosa è indefinibile, non possiamo dire in che cosa consiste esattamente. Esso non può mai fungere da soggetto, poiché esprime la funzione della determinabilità infinita della sostanza mediante un predicato (ovvero della determinabilità del concetto più immediato perché più vicino al molteplice delle impressioni mediante un concetto meno immediato). Cosa fa dunque questo “è”, tra la e la b? Dice esprime la funzione della determinabilità infinita della sostanza. Infinita, perché non è stata definita, a è qualche cosa. Dice poi determinabilità del concetto più immediato perché più vicino al molteplice delle impressioni mediante un concetto meno immediato, che è quello che si fa quando si dice “questo è quello”. “Questo è un posacenere”: questo, soggetto. Dicendo “è un posacenere” do una definizione, una determinazione. Quindi, affermare che è un posacenere è la cosa più vicina al molteplice, al gruppo si impressioni sensibili che io ho quando vedo questo oggetto: circolare, di vetro, fatto in un certo modo, ecc. Quindi, l’unità delle mie impressioni sensibili sono ciò che è più vicino alla parola “posacenere”. Se la sostanza nomina la categoria della presenza, l’essere (la copula “è”) nomina la categoria della determinazione della presenza;… Cioè, ci dice che cos’è questo qualcosa che è presente. …ma non ancora come questa o quella determinazione (come sarebbe ad es. nel caso della proposizione “a è colore”, ovvero “a è nero”) ma come determinabilità possibile. Questa copula “è” non ci dice ancora che cos’è propriamente, questo qualcosa che so essere un qualcosa perché è presente, ma mi dice che è possibile una determinazione. Dicendo “è” sta dicendo che questa sostanza indeterminata ha la possibilità di essere determinata. Il fatto che ci sia la “è”, la copula, mi dice che questa cosa è un’altra cosa, quindi può essere messa in relazione con un’altra cosa, quindi può essere determinata, anche se ancora non so in che cosa. L’essere cioè prescinde da ogni circostanza concreta e nomina soltanto il movimento logico dell’unificazione potenziale. L’unificazione delle impressioni sensibili che vengono unificate in unità, appunto con la proposizione “a è b”. Questa “è” mi dice soltanto che è possibile unificare queste impressioni sensibili in una unità, cioè in un altro qualcosa. Se la sostanza riconosce la semplice presenza di un molteplice (soggetto della proposizione), l’essere apre la possibilità del predicato come determinabilità concreta di quel molteplice. L’essere, dunque, apre la via alla qualificazione della presenza, della sostanza, mediante un predicato. … il primo grado della determinazione dell’essere verso la sostanza è la qualificazione della sostanza, ovvero la qualità. La prima determinazione, dice, è la qualità. La qualità, dice Peirce, il primo concetto in ordine al passaggio dall’essere alla sostanza. Passiamo dall’essere, come possibilità di mettere in relazione qualcosa con qualcos’altro, alla messa in relazione. Tale passaggio si determina dapprima sotto il profilo della qualificazione. Che significa qualificare una sostanza (o predicare una qualità della sostanza)? Prescindendo da ogni altra circostanza concreta, ciò significa dire che la sostanza (soggetto) e il predicato (qualità) si accordano sotto qualche “rispetto”(ground)… (pagg. 15-16) Si accordano sotto qualche rispetto. Adesso si tratterà di vedere quale, però c’è un accordo tra la sostanza, cioè la a della proposizione “a è b”, e la b. Questi due termini, cioè, si accordano in qualche modo, però, si tratta di vedere quale. Che è come porsi la domanda: che cosa dico quando dico che questo un posacenere? Cosa sto facendo esattamente? Sto qualificando questo qualcosa, certo, ma come avviene questo fenomeno per cui io posso qualificare questa roba qui. Se l’essere (“è” come copula) apre alla determinabilità possibile della sostanza… Lui pone la “è” come una possibilità. Questo è interessante perché è un modo di porre l’essere che, per esempio, non avevamo visto in altri autori, non in questo modo preciso, anche se l’Esserci, di cui parla Heidegger, è comunque l’aprirsi. Peirce parla di possibilità, però, anche Heidegger allude alla possibilità, al progetto, a quello che ciascuno vorrà fare, però apre a una possibilità, alla possibilità di occuparsi di qualcosa. Dunque, se l’essere apre alla determinabilità possibile della sostanza, la qualità dice semplicemente che c’è qualcosa che si accorda con la sostanza sotto qualche rispetto. La qualificazione della b mi dice soltanto che c’è un qualche cosa che si accorda tra la a e la b. Non sappiamo ancora che cosa, sono tutte parole, ovviamente, però, intanto dice così La sostanza, dunque, possiede una qualità, viene qualificata, in riferimento al ground, al “rispetto” (o all’”area”, al “punto di vista”)sotto il quale soggetto e predicato possono accordarsi. Qui se qualcuno avesse letto Peirce già intuirebbe qual è la questione che sta ponendo. Questo accordarsi tra la a e la b è un accordarsi sotto un certo riguardo, un certo rispetto, ma non uno qualunque. E qual è questo riguardo, questo rispetto? Lo vedremo più avanti ma posso anticiparvelo: è il modo di pensare comune, ciò che si pensa comunemente, la chiacchiera, direbbe Heidegger. È ciò che io già so, e che già so perché io sono nato in questo sapere; acquisendo il linguaggio acquisisco già queste informazioni, che sono il linguaggio. Si prenda come esempio la proposizione “questa stufa è nera”. “Questa stufa”, il soggetto, indica la sostanza… Abbiamo visto che la sostanza è il soggetto. Anche etimologicamente il soggetto, in latino subjectum, in greco hypokeimenon, è indicato spesso come la sostanza, non sempre, per esempio Heidegger non lo identifica con la sostanza. “Questa stufa”, il soggetto, indica la sostanza, cioè la semplice presenza di un molteplice di impressioni sensibili… Quando io dico “questa stufa” in ciascuno di voi queste impressioni sensibili sono già unificate in un simbolo, in un concetto. È materialmente impossibile pensare queste impressioni sensibili al di fuori del simbolo, del segno. Però, lui fa questo discorso per mostrare il funzionamento di questo modo di inferire le cose. “Questa stufa”, il soggetto, indica la sostanza, cioè la semplice presenza di un molteplice di impressioni sensibili: c’è un molteplice di apparizioni al quale la semplice attenzione denotativa si rivolge ogni volta. Posso vedere il gancetto della stufa, posso vederne l’altezza, vari ammennicoli che vedo di volta in volta e mi faccio un’idea di che cosa sia. Tale molteplice è ogni volta un “esso” (It)… Ogni cosino che vedo è un “questo”, è qualcosa. …un “questo” (un “ora” e un “qui”, come direbbe Hegel). È un “adesso qui”. Se io vedo una stufa, vedo lo sportellino, è un “questo” che è qui, lo vedo adesso, qui. Fra il molteplice di un’apparizione e il molteplice di un’apparizione precedente o successiva (oppure, se si preferisce, fra una zona non ancora delimitata dal molteplice presente e il restante molteplice che pure sta nella presenza) non si pone altra unità salvo quella della loro semplice presenza (cioè della sostanza): essi sono ogni volta, o tutti insieme, un “esso”, un It. Quindi, non soltanto ciò che ho davanti ma anche ciò che io so di questa stufa, per cui la riconosco come stufa, anche questo è una sostanza, ci dice Peirce. In questo senso, ed esclusivamente in questo senso, va intesa l’espressione “questa stufa” nell’esempio (che è di Peirce). Ora, la copula “è”, aggiunta a “questa stufa”, apre lo spazio logico della determinazione… Si dice che questa cosa è determinabile in qualche modo. …prescindendo da ogni circostanza concreta, essa semplicemente indica la possibilità dell’identificazione… Questo è quello che fa la “è”, la copula. …della connessione del molteplice delle apparizioni mediante qualcos’altro rispetto alla semplice presenza. Questa “è” mi dice che tutte queste impressioni mi rimandano a un qualcos’altro rispetto alla semplice presenza. Il qualcos’altro è allora espresso dal predicato “nera”, ovvero dalla qualità. Il nero, dice Peirce, non è dato dalle impressioni sensibili che chiamiamo “questa stufa” (come invece ritiene l’opinione comune). La “nerezza”, in quanto qualità, è invece ciò che, prescindendo, ovvero astraendo, da ogni ulteriore circostanza, consente di unificare questa apparizione con quella. (pagg. 16-17) Quindi, è la nerezza, è l’essere nera di questa cosa, ci dice Peirce, che ci fa apparire la stufa. E adesso ci dice perché. Esse sono riconducibili a unità in quanto in esse, per dir così, “c’è del nero”. Sotto il rispetto della nerezza questa apparizione e quella si accordano fra loro, cioè sono presenze riconducibili a un’unità comune, predicabile da entrambe. Non è la stufa che è nera perché così ogni volta appare, ma ciò che appare può venire identificato e unificato come “questa stufa” in virtù di un’inferenza logica (“è” come copula) ulteriormente determinata come area o rispetto della nerezza (qualità). La nerezza cioè identifica la stufa e non viceversa. L’esempio può tuttavia riuscir fuorviante perché per sua natura, come ogni esempio, è troppo concreto e specifico. Come nella parola “stufa” si deve pensare la semplice presenza di molteplici apparizioni, astratta da ogni ulteriore circostanza identificante… Il che è impossibile, indubbiamente, è un’astrazione; è un esempio, come dice Peirce, che vale quello che vale. …(sicché al posto di “stufa” potrebbe andar bene “matita”, “lampada”, “libro” e ogni altra sostanza o cosa), così nella parola “nera” si deve penare la semplice qualità, scissa, o astratta, da ogni ulteriore circostanza identificante (sicché “nera”, come “calda”, “liscia”, “diritta”, ecc. sono qualificazioni troppo determinate per il livello di predicazione che l’esempio vuole indicare). Nella parola “nera” si deve dunque pensare soltanto, e niente altro, che vi è un rispetto (che la nerezza esemplifica in qualche modo) sotto il quale il soggetto e il predicato si accordano, sicché il molteplice cui la sostanza allude si unifica sotto una medesima qualità. Sta qui dicendo una cosa che sta incominciando a porsi in modo interessante. Io non identifico una stufa nera in base al fatto che c’è una stufa che poi è anche nera, ma è la nerezza l’elemento che mi consente di individuare questo qualche cosa come una stufa, perché, dice Peirce, c’è una copula che unisce, “questa stufa” e “nera”. Questa copula non fa altro che determinare la possibilità di qualificare questa stufa ma qualificando questa stufa io dico di fatto che ciò che predico di questa cosa, che chiamo stufa, è la nerezza. Ponendo l’accento sulla nerezza ci sta dicendo che questa molteplicità di elementi sensibili, che io raccolgo, hanno tutti in comune la nerezza, nerezza che è ciò che qualifica, dice Peirce, la stufa. La qualità è appunto tale unificazione in riferimento a un rispetto o area (ground), che la qualità esprime, e non l’esser nero piuttosto che bianco, caldo piuttosto che freddo e simili, poiché tali determinazioni ulteriori (“nero”, “bianco”, ecc.) esigono circostanze dalle quali la categoria della qualità prescinde. Ciò che viene unificato non è il fatto che sono neri anziché un’altra cosa ma il fatto che sono proprio neri; non c’è quell’altra cosa, è il fatto che io vedo questo nero che mi identifica questa molteplicità di sensazioni come stufa. Potremmo allora dire così: la categoria dell’essere prescinde da ogni e qualsiasi circostanza, limitandosi a indicare la semplice possibilità della determinazione della sostanza;… Quindi, la “è” rimane sempre e soltanto la possibilità di una determinazione, non una determinazione ma la sua possibilità. …la categoria della qualità è la prima determinazione attuata; essa prescinde a sua volta da ogni circostanza salvo una: quella del rispetto o ground. Cioè essa indica che c’è un rispetto in base al quale la sostanza che funge da soggetto e la qualità che funge da predicato si accordano. Questo e niente altro. Ci indica soltanto che c’è una relazione tra la nerezza e la stufa. Tutto qui. L’accordarsi sotto un rispetto comporta peraltro una “relazione”. Questa è appunto l’ulteriore circostanza che scandisce il passaggio dall’essere verso la sostanza, dopo la qualità. Questo “è” funge da relazione tra l’uno l’altro, tra il soggetto e il predicato, tra la sostanza e ciò che si dice di questa sostanza. Il che richiama ciò che diceva Greimas rispetto alla relazione: quando metto in relazione due elementi, a questo punto la relazione fa sì che questi due elementi non siano più due elementi ma siano una relazione. Cambia radicalmente le cose, questi due elementi non sono più identificabili come uno e l’altro ma sono qualche cosa che è cambiato, sono diventati una relazione. Sarebbe il terzo elemento fra i due. …l’introduzione di una qualità è resa possibile dal riferimento a quella circostanza concreta che è il punto di vista, il rispetto (ground), sotto il quale soggetto e predicato si accordano;… Qui vediamo già che questo accordarsi di una cosa e di quell’altra è resa possibile, dice, dal riferimento che è il punto di vista. Ma come possiamo intendere il punto di vista? È quello che io penso, è quello che io credo, quello che ho imparato, sarebbe per Heidegger il mondo di cui sono fatto; è questo il punto di vista che mi consente di mettere in relazione una cosa e un’altra, è ciò che io penso, è il pensiero che mi consente questa operazione. Un punto di vista è concretamente possibile solo perché esso è simile/dissimile a un altro, ovvero a ciò che Peirce chiama un “correlato”. Il punto di vista mette in relazione una cosa con un’altra perché c’è una qualche connessione fra questo e il suo correlato, una qualche connessione, non importa quale, ma è il mio punto di vista, cioè ciò che io so, ciò che ho imparato, che mi consente di mettere in relazione una sostanza con un suo correlato qualunque. Ma il riferirsi a un correlato comporta, come determinazione ulteriore, una “rappresentazione” comparativa. Si supponga di porre in relazione le lettere “p” e “b”. Chiamiamo “p” il relato e “b” il correlato. Tale relazione è possibile mercé un atto di comparazione, cioè in virtù di una rappresentazione intermedia che istituisce il confronto o che esibisce il terreno del confronto. Se io voglio mettere in relazione una cosa con un’altra mi serve un termine intermedio che mi consenta di fare questa operazione. Cosa che non va senza problemi, basti ricordare il problema del terzo uomo di Aristotele. C’è un uomo e poi la rappresentazione di uomo. Come posso essere che questa rappresentazione di uomo corrisponda all’uomo? Ci vuole un terzo uomo che mi faccia da intermedio, che mi garantisca che c’è questa relazione, e così via all’infinito. Diremo perciò, seguendo l’esempio, che “p” e “b” sono due lettere che hanno la stessa forma, ma una posizione reciprocamente capovolta. A tale conclusione perveniamo in virtù di una terza immagine, accanto alle prime due, nella quale ci figuriamo che “p” sia lo stesso che “b”, in virtù di una rotazione di 180° sulla linea di scrittura presa come asse della rotazione stessa. (pagg. 18-19) Questa idea è il terzo. Se io voglio correlare “p” e “b” devo avere questa altra idea, e cioè che queste due lettere sono la stessa ma capovolta; questo pensiero è quello che mi consente di dire che c’è una relazione fra “p” e “b”, e la relazione è che la “p” è la “b” capovolta. Così pure possiamo comparare le parole “uomo” e “homme” in virtù della rappresentazione intermedia di quell’animale bipede, razionale, ecc., che noi stessi siamo, sicché concludiamo che le due parole designano la stessa cosa. Come si vede, l’immagine intermedia o “rappresentazione” è la categoria ulteriore che incontriamo dopo la qualità e la relazione. Essa svolge una funzione comparativa, agendo come un “interprete”. Ecco che arriva la parola “interprete”. Ma, naturalmente, con che cosa io correlo, paragono, confronto una cosa con un’altra? Con cose che già so, ovviamente. E, quindi, questa rappresentazione, o immagine intermedia, che mi serve a correlare le due cose, viene dal modo in cui io sono stato addestrato a pensare, dalle cose che ho imparato, da una serie infinita di cose. Ovvero, come dice Peirce, la rappresentazione, come immagine comparativa intermedia, è resa possibile dalla ulteriore circostanza concreta del riferimento a un “interpretante”. (“Una rappresentazione intermedia può essere denominata un interpretante, perché essa compie l’ufficio di un interprete il quale affermi che uno straniero dice la medesima cosa che dice egli stesso”). Se io parlo italiano e Cesare parla finlandese e tu fai da interprete, conoscendo tanto l’italiano quanto il finlandese, puoi dirmi che le cose che sta dicendo Cesare sono esattamente quelle che sto dicendo io. Non conoscendo il finlandese io non lo posso sapere e, allora, tu fai da interprete, cioè sei quel terzo elemento fra due che consente di mettere in relazione i due. Qui cita Peirce. Se noi avessimo soltanto un’impressione – scrive Peirce – essa non necessiterebbe di venir ricondotta a unità, e non ci sarebbe perciò bisogno di pensarla in riferimento a un interpretante, sicché il concetto di riferimento a un interpretante non sorgerebbe. Se c’è soltanto un’impressione. Ovviamente, è un esempio per assurdo perché non c’è soltanto un’impressione, ogni volta ce n’è una miliardata. La circostanza concreta che consente l’introduzione di una rappresentazione intermedia come interpretante è dunque la sostanza stessa in quanto essa esibisce direttamente il molteplice delle impressioni. La circostanza concreta, cioè ciò che di fatto consente l’introduzione di una rappresentazione intermedia, di un terzo, dice è la sostanza stessa in quanto essa esibisce direttamente il molteplice delle impressioni, cioè non c’è una sola impressione ma una molteplicità di impressioni. Ed è questo che consente, che “costringe”, a mettere in relazione una cosa con un’altra, perché sono tante, fosse una con che cosa la metto in relazione? Se tu fossi l’unica fanciulla sul pianeta con chi ti relazioni? Qui fa uno specchietto:

Essere

      Qualità (riferimento a un rispetto o ground)

      Relazione (riferimento a un correlato)

      Rappresentazione (riferimento a un interpretante)

Sostanza

 

L’Essere lo divide in questi tre elementi: Qualità, Relazione, Rappresentazione, e poi la Sostanza. La sostanza sarebbe l’immediatamente presente, il qualcosa che è qualcosa, ma non so cosa, so solo che è qualche cosa. È la prima immagine visiva, la prima immagine sensoriale. Vi ho letto queste cose per darvi un po’ il senso del lavoro di Peirce. Ovviamente, tutta la questione semiotica è ancora da venire ma queste cose sono importanti per intendere ciò che dirà a breve nelle pagine successive. È stata soltanto una presentazione, un po’ sommaria, del modo in cui Peirce approccia le cose. Le approccia in questo modo: dice che prima vedo che c’è un qualche cosa, ma non so che cosa; per metterlo in relazione con qualche cosa c’è la copula che non dice che cosa questa cosa è ma apre alla possibilità per questo qualche cosa di essere un qualche cosa. Mi rendo conto che l’esempio non è particolarmente funzionante. Dicendo che questo qualche cosa è qualcosa, già sono all’interno del simbolo, all’interno del segno, cioè rinvio questo a quell’altro, un qualche cosa lo rinvio a qualche cosa. E, quindi, è difficile da esprimere, così come è difficile esprimere la sensibilità pura. Posso parlarne in termini astratti, ipotetici, però, di fatto, se ne parlo è perché non è così, perché non è sensibilità pura sennò non potrei parlarne, non direi niente. Però, a scopo didattico, descrittivo, può essere utile. Vedremo più avanti se lo è davvero.