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14/2/1996

 

Gioco linguistico

 

C’è una questione su cui stavo riflettendo, anche tenendo conto degli accenni fatti la settimana scorsa, e cioè mi stavo chiedendo se il modo di affrontare la questione che stiamo ponendo in atto, costituisca effettivamente un modo, non soltanto letteralmente differente da qualunque altro, ma soprattutto non compatibile con nessun altro. Mi spiego meglio, da tempo riflettiamo intorno alla struttura del discorso religioso, in senso molto ampio, cioè come un qualunque discorso che si ritenga fondato o fondabile, e pertanto immagini di sé di avere un referente fuori dalla parola. Ora in questa accezione perlopiù qualunque discorso cade sotto questa definizione. Èmolto difficile trovare un discorso che non si strutturi in questo modo, dal momento che ciascun discorso immagina che le cose che sta dicendo si riferiscano a qualche cosa che è fuori da quello che sta dicendo, e cioè ci sia la cosa che in qualche modo esista, da qualche parte, così come viene descritta. Il discorso non religioso è il discorso che non compie questa operazione, vale a dire che di fronte a qualunque proposizione, a qualunque affermazione, tiene conto che tutto ciò che si sta dicendo è un atto linguistico, quindi non si pone come una sorta di scienziato, un ricercatore nei confronti di un oggetto che chiama atto linguistico, ma piuttosto tiene conto che ciò che sta facendo è un atto linguistico, con tutto ciò che questo comporta, vale a dire il fatto che ciò che si dice non ha altri riferimenti, né referenti fuori dalla parola, e che pertanto tutto il senso di ciò che sto dicendo è effettivamente ciò che si sta producendo. Ma posta in questi termini, adesso l’ho detta in modo molto sommario, posta in questi termini si crea come una sorta di divisione piuttosto netta fra il considerare le cose in termini religiosi oppure no. Come se non si desse una via di mezzo un altro modo, cioè o ciò che dico immagino che abbia un riferimento fuori da ciò che dico oppure no. Sembra posta in termini abbastanza netti. Riflettevo se potesse darsi una via di mezzo oppure no, e sono giunto a pensare questo considerando la questione del gioco linguistico, tenendo conto anche delle questioni poste recentemente intorno alla sofferenza per esempio, se una persona soffre, per qualunque motivo si diceva, se soffre sta tenendo conto che sta facendo un gioco particolare oppure no? Tenendo conto vale a considerare che soffrendo sta facendo un particolare gioco linguistico, dove la “sofferenza” questo significante ha una certa portata. Con senso particolare intendiamo che è tale proprio perché inserita in quel gioco, esattamente come cambia un re del gioco degli scacchi se uno sta giocando una partita a scacchi oppure no. Ha un altro senso, se vedeste qui il re, un pezzetto di legno lasciato lì, e se invece uno stesse facendo una importantissima partita a scacchi, quell’aggeggio avrebbe un’altra portata perché in effetti sarebbe inserito in un altro gioco, un altro senso, produrrebbe un altro senso. Così giocare il gioco della sofferenza comporta che questo significante abbia un certo senso, una certa portata, che è differente. Se Sandro mi dice che soffre moltissimo e io prendo atto di questa sofferenza, questo significante sofferenza per me ha una portata molto differente. Come dire che stiamo giocando un gioco differente. Ora, per tornare alla questione di prima, la questione che ponevo è questa, e cioè se effettivamente dandosi l’opportunità di considerare che si sta giocando il gioco della sofferenza, questo possa portare una variazione oppure no, è certamente difficile a stabilirsi, però forse qualche elemento possiamo porlo. Perché proviamo a riflettere su questo termine, giocare un gioco. “Giocare un gioco”, potremmo definirlo così, in modo molto ampio, come il porre in atto delle regole e delle procedure per cui il gioco esiste. E allora per giocare il gioco della sofferenza che cosa occorre che faccia per esempio? Quali sono le regole per giocare questo gioco? Una delle regole principali e che io creda, qui come in moltissimi altri casi, che la sofferenza non faccia parte di queste regole del gioco. Questo è un aspetto curioso, perché per giocare un qualunque gioco occorre che io conosca le regole del gioco e che sappia che sono regole del gioco. In questo caso si porrebbe invece una condizione molto differente, dove per potere giocare questo gioco occorre che io muova dalla supposizione che l’elemento è fuori dal gioco, ma in effetti in questi termini io non considero affatto che sto giocando questo gioco, proprio per nulla, sto soffrendo e comunemente non è inteso altrimenti. Come un bimbetto che gioca alla guerra, sta facendo la guerra o sta giocando? Potrebbe essere una domanda oziosa, però forse ci consente di riflettere meglio, cosa distingue il bimbetto che gioca alla guerra, da uno che fa la guerra? Cosa distingue in questo caso una cosa dall’altra? Perché io posso anche, per esempio, giocare agli scacchi, non faccio il gioco degli scacchi ma gioco a qualche cosa che assomiglia al gioco degli scacchi. Ciò che possiamo dire sia della guerra, sia del gioco degli scacchi, è che utilizzo un certo significante con un senso differente e cioè con lo “stesso” termine (stesso lo mettiamo fra virgolette, questione non così semplice, comunque sia) faccio un altro gioco utilizzando uno stesso termine. Posso fare questo? Sì in effetti, nessuno mi dice di giocare alla guerra, nessuno mi impedisce di fare la guerra, cioè di giocare un gioco differente. Potremmo dire così, di primo acchito, che in entrambi i casi esistono delle regole precise che consentono di giocare questo gioco, la guerra oppure la sua rappresentazione, e quindi in entrambi i casi il gioco è perfettamente eseguito, eppure tra una guerra e dei bimbetti che giocano a fare la guerra c’è una certa differenza, quale esattamente? Questa questione, che può apparire molto banale, ci interessa perché ci conduce a stabilire la differenza tra giocare il gioco della sofferenza e soffrire, che paiono essere cose molto differenti. Ora forse l’esempio che io ho posto tra la guerra e il giocare non è dei migliori, consideriamo questo che....

- Intervento: ...però i bimbetti che giocano stabiliscono da loro le regole...

Anche nella guerra reale si stabiliscono le regole, quando ti sparo in testa sei morto. Anche nella guerra ci si danno delle regole: se lui fa così, io faccio cosà...

- Intervento:...se no non ci sarebbero i processi...

- Intervento:...già nella definizione stessa di guerra sono comprese le regole, la guerra è fatta per vincere...

- Intervento: quelli che vanno a fare la guerra, a meno che non sia un generalissimo, non fanno le regole, le trovano già fatte...

Questo può succedere in una guerra finta, dove un gruppo di ragazzi accetta le regole date dal capo. Si, le regole possono cambiare anche in guerra, si cambiano continuamente a seconda delle circostanze, la regola fondamentale è quella che impone di vincere, qualunque cosa serva a questa scopo è utilizzata come regola, come in qualunque partita, ora in una partita in genere si evita il sangue ma, ecco, c’è un elemento importante che occorre inserire e che l’esempio della guerra riprendeva malamente, e cioè, per esempio, nel giocare il gioco della sofferenza cosa avviene? Che questo elemento “sofferenza” è inserito nella parola o, più propriamente, inserisco in ciò che sta avvenendo un elemento tale per cui ciascun elemento in cui mi trovo non è più ricondotto a qualche cosa che è fuori dalla parola, ma è inserito come atto di parola, la stessa sofferenza è inserita come atto di parola, come atto linguistico, e questo comporta che se non è un atto di parola allora è qualche cosa che è inaccessibile, perché è fuori, e quindi non è in nessun modo trasformabile né variabile, a meno che non cambino altri elementi, sempre fuori dalla parola, se invece questo elemento viene inserito come atto di parola allora il suo senso non procede da sé, ma dagli altri elementi, dagli altri atti di parola a cui rinvia ed dei quali è rinvio. Allora la differenza sostanziale consiste in questo, che potere giocare il gioco della sofferenza, toglie la possibilità stessa della sofferenza, così come è comunemente intesa, e cioè come il subire un qualche cosa che non attiene alla parola in cui mi trovo, alla combinatoria in cui e per cui esisto, ma dicevo è subire un elemento che è estraneo, è fuori di me e rispetto al quale non posso fare niente. Allora in questo caso non gioco il gioco della sofferenza, la subisco. Adesso parlavo della sofferenza giusto per riprendere una questione di qualche tempo fa, ma quella stessa questione può porsi rispetto a qualunque elemento, a qualunque discorso di qualunque tipo, fatto per qualunque motivo, in qualunque circostanza, da chiunque sia in quanto tale è nulla. Ma è qualcosa in quanto produce un senso, in quanto è rinvio di qualche altra cosa, solo a queste condizioni, dicevamo, è qualcosa. Allora cosa accade? Che se una persona mi parla, qualunque cosa sia, per qualunque motivo, tutto ciò in quanto tale è nulla, cioè non so né che cosa stia dicendo né per quale motivo, né da dove viene ciò che dice, a meno che io non abbia degli elementi per potere sapere qual è il gioco che sta giocando, se no di per sé queste proposizioni che dice sono niente. Ora come so qual è il gioco che sta giocando? Posso saperne qualche cosa interrogando questa persona, e allora quando questa persona mi fornisce degli elementi che riguardano il gioco che si sta giocando in ciò che dice, allora ciò che dice diventa qualche cosa. Come se si trovasse di fronte a qualcuno che gli parla in vietnamita, supponendo che nessuno dei presenti conosca il vietnamita, ecco in questo caso di fronte a una persona che vi parla in questo modo ciò che vi dice è assolutamente nulla, se traduce ciò che dice in italiano allora posso saperne qualche cosa, come dire che a quel punto è come se sapessi le cose che ha dette prima in vietnamita e che gioco stesse giocando, prima non lo sapevo, allo stesso modo anche se qualcuno mi parla in italiano avviene qualcosa di simile, cioè finché non so perché mi sta dicendo queste cose, che cosa comportano, e cosa costruiscono queste cose che sta dicendo, queste proposizioni sono nulla, come se non dicessero niente. La stessa cosa può apparire meno semplice, dico delle cose, penso delle cose e se queste cose non sono inserite in una serie di rinvii, di connessioni, cioè in uno spostamento che di fatto si mostra inarrestabile, sono nulla, è potrebbe apparire una sorta di paradosso perché cominciano a diventare qualcosa nel momento in cui diventano inarrestabili e quindi non isolabili, non essendo isolabili rinviano continuamente ad altro quindi non so mai che cosa sono esattamente, ecco questa è una sorta di paradosso, incominciano a essere qualcosa quando? Al momento in cui cesso di poter sapere di che cosa si tratta esattamente. Cesso di poterlo sapere perché anziché sapere di che cosa si tratta, sono preso in una serie incessante di rinvii, di spostamenti che mi consentono di sapere che cosa. Non di che cosa si tratta, ma che questo elemento è inserito in un gioco e cioè che sta giocando un gioco, solo questo, e a quel punto non è neanche più necessario in un certo senso inseguire questa serie di rinvii, dal momento in cui per così dire prendo atto del gioco che si sta giocando in ciò che dico, poi posso farlo ma, nel momento in cui prendo atto di questo, qualunque possibilità di credere o di stabilire una qualunque certezza o immobilità o qualunque altra cosa, cessa immediatamente. Queste considerazioni mi inducevano a riflettere, come vi dicevo all’inizio, se ciò che andiamo dicendo e facendo sia assolutamente incompatibile, proprio per definizione vorrei dire, con il discorso religioso, quindi col discorso occidentale. Per discorso religioso si intende anche il discorso scientifico, il discorso filosofico, il discorso linguistico in parte ecc., anche quello logico, quello matematico ecc. e cioè in altri termini ciascun discorso che creda di parlare di qualche cosa e questo qualche cosa sia altro da una produzione di ciò che si sta dicendo.

- Intervento: Metalinguaggio...

Metalinguaggio? Si. Ecco potremmo indicare con metalinguaggio ciascuna...

- Intervento:...discorso che descrive qualche cosa fuori di sé...

Si, esattamente qui sta la distanza, non descrivo qualcosa, la produco. In questo modo si configura, in modo sempre più preciso, la distanza tra la Sofistica e il discorso occidentale, una sorta di frattura irriducibile, ma forse è qualcosa di più di una frattura, è un’altra cosa totalmente. Forse possiamo provare a leggere queste cose che mi trovavo a riflettere l’altro giorno:

Giocare un gioco è porre in atto le regole di cui è fatto e per cui esiste. Per potere giocare un qualsiasi gioco, occorre che esistano già delle regole che consentono di potere cogliere una qualunque cosa in quanto gioco. Gioco dunque come la possibilità che delle procedure esistano in quanto procedure. Ciascun discorso si costruisce a partire dalle procedure che gli consentono di esistere, e pertanto ciascun discorso non potrà non tenere conto di ciò che gli consente di esistere, e cioè del modo in cui può costruirsi e, costruendosi, costruire tutto ciò che può dire. Ciò che le procedure linguistiche non possono costruire non può esistere, tenendo conto che la stessa nozione di esistenza si costruisce dalle stesse procedure. Questo stesso discorso intorno alle procedure linguistiche e al gioco linguistico, tiene necessariamente conto, nel farsi, che procede attraverso procedure che consentono alcune operazioni e ne vietano altre. Parlare dunque di procedure linguistiche, come di qualunque altra cosa, non sarebbe nulla, né sarebbe in alcun modo possibile, se non esistessero quelle stesse procedure di cui si sta parlando e che costruiscono il discorso che si sta facendo e nel modo in cui si sta facendo. Ciascun discorso segue necessariamente queste procedure, ma ciascun discorso è differente da ciascun altro. Il discorso religioso segue necessariamente queste procedure, né potrebbe essere altrimenti, ma non tenendo conto che tutto ciò che si costruisce nella parola è parola, e pertanto non ha, fuori di essa, alcuna esistenza possibile o pensabile. Ciò che indichiamo con discorso religioso, è soltanto una combinatoria linguistica che non tiene conto di essere tale, con tutto ciò che questo comporta, e cioè non inserire le implicazioni di questa considerazione all’interno dello stesso discorso. Inserire questo elemento all’interno di qualunque discorso, instaura la dipendenza, di questo discorso, da ciò che precede e da ciò che segue, impedendo la possibilità che ciò che si dice possa essere accolto come elemento fuori dalla parola, che possa rinviare, in altri termini, a un’altra cosa posta fuori dalla parola. Allora, ciò che si dice o che si pensa sarà continuamente sospeso ad altre parole, in quanto queste ne costituiranno il senso come effetto. Il senso di ciò che si dice è allora ciò che si produce da ciò che si dice, cioè ciò che ciascuno incontra come effetto parlando. Allora tutto ciò che dicendosi è pensato avente un referente fuori dalla parola, tutto questo è ciò che chiameremo “discorso religioso”. Discorso religioso perché, per definizione, si appella a qualche entità posta fuori dalla parola come garanzia della parola, nel senso che ciò che si dice possa essere pensato come emanazione di qualcosa che parola non è. In tal senso il discorso religioso non può esistere se non come negazione dell’atto di parola. Intendiamo con atto di parola l’agire, di qualunque cosa, in qualunque senso. Con questo poniamo l’atto di parola come l’agire delle procedure linguistiche che, agendo, esistono in quanto tali e costruiscono il linguaggio, qualunque cosa voglia intendersi con “linguaggio”. Giocare un gioco linguistico vale qui a tenere conto delle premesse da cui si muove per giocare, e cioè, in prima istanza, se la premessa, ciò che viene dato, è che le parole procedano da altro fuori di sé oppure procedano da sé. Questione essenziale per potere intendere il gioco, poiché nel secondo caso, di qualunque cosa si tratti, questa apparirà, nella combinatoria linguistica, come ciò che è costruito dalla combinatoria stessa, e pertanto trarrà soltanto da essa la sua esistenza e la sua portata. Nel primo caso invece, ciò che si dice apparirà come emanazione di ciò di cui si dice, e da questo trarrà la sua esistenza, quindi come se fosse indipendente dall’atto di parola che la dice. In questo senso diciamo che non tiene conto dell’atto di parola, del suo agire, immaginando che la parola possa esistere fuori di sé, che cioè la parola possa esistere senza la parola. In altri termini, che la parola non sia la parola. Preso in questo paradosso, il discorso religioso si trova costretto, inseguendo una qualche credibilità o possibilità, a supporre che la parola, non essendo atto di parola, sia strumento o espressione di altro. Reperire questo altro è ciò che ha impegnato il discorso occidentale da sempre. Questo altro è ciò che il discorso religioso ha, di volta in volta, chiamato dio, natura, legge di natura o armonia universale, dandolo implicitamente o esplicitamente per acquisito, per necessario.

- Intervento: Per esempio nella religione ebraica si dice in principio era il “verbo”, a me sembra che sia la parola...

In principio era il “verbo” e quindi l’atto di parola, allora dio è effetto della parola, una produzione della parola, questo, detto un po’ di secoli fa sarebbe Le costato il collo...

- Intervento:...

Si, laddove si instaura il pensiero che “altro” è fuori dalla parola, si comincia a cercare questo altro, fuori dalla parola, reperirlo da qualche parte, che sia fuori dalla parola evidentemente, da qui tutta la ricerca del discorso occidentale per reperirlo, consolidarlo o istituirlo. Oppure ciascun elemento procede dall’atto di parola, con tutto ciò che questo comporta, che non è poco, che a quanto vado a mano a mano considerando comporta una distanza immensa dal discorso occidentale, cioè dal discorso religioso.

- Intervento:...

Si, qualcuno potrebbe immaginare che ciò che abbiamo fatto è soltanto sostituire dio con la parola

- Intervento: Tommaso parla di Dio come operatore, anche Verdiglione...la questione è di che cosa opera nelle parole, per cui le parole siano tali, perché per esempio attraverso le parole si possano costruire delle cose.

Certo, costruire delle proposizioni che domandano da dove vengono le parole, ciò che distingue tutto ciò dalla religione è il fatto che la parola non è posta come principio né potrebbe porsi in nessun modo come tale, ma come procedura e...

- Intervento:...

Si, poi si può intenderlo come si vuole, a seconda del gioco che si sta giocando, però già pone la questione in termini un po’ curiosi, in principio era il “verbo”, forse in qualsiasi accezione si intenda principio, come dire...in questi termini può non avere nessun senso, posso dire che in principio era il verbo o qualunque altra cosa. Io constato parlando l’esistenza di procedure che mi consentono di proseguire, chiedermi che cosa fosse in principio già è un’operazione che comporta qualche obiezione, nel senso che comporta già l’attribuzione a questo significante “principio” di un senso particolare. Si, certo, si può darglielo, ma nulla ci costringe a farlo, sta qui un po’ anche la differenza di metodo, di procedure di ciò che stiamo dicendo dal discorso occidentale.

- Intervento: Sulle procedure

Io dicevo prima rispetto a questo, il domandarsi rispetto, per esempio alla sofferenza, se questo termine che dico nel caso che soffra, sia considerato un elemento fuori dalla parola, cioè qualcosa che non mi riguarda, nel senso che lo subisco...

- Intervento: Quindi la procedura linguistica sembrerebbe una decisione di porsi nel gioco.

Decisione...

- Intervento: Cercare la relazione fra un termine e un altro è come un continuo fuori e dentro la parola, come nel discorso schizofrenico che si accorge che ciascun elemento è un termine linguistico ma...

Si, il discorso schizofrenico offre questa opportunità, proprio su questo cioè sulla inarrestabilità del rinvio, questo impedisce di considerare che ciascun elemento come rinvio...

- Intervento: Cioè ciascun elemento che interviene come rinvio interviene come dio, e arresta immediatamente il discorso per cui l’elaborazione si arresta su quell’elemento. Accorgersi della produzione della parola, dell’effettuarsi della parola, non comporta il cercare la parola, la relazione...è una procedura linguistica che mi fa dire questo?

Certo, può accadere di non accorgersene.

- Intervento: ma c’è modo di accorgersene, al momento che interviene questa proposizione, questa produzione di parola, che si suppone identica a sé. Questi sono gli intercalari che intervengono, fermi identici, questi occorre che entrino a far parte della parola?

- Intervento: Non è la formulazione in quanto tale, è come funziona, uno può dire qualunque cosa nel senso che questa non lo inchioda da nessuna parte, ma come si diceva prima è un aspetto del gioco che si sta giocando il fatto che la formulazione abbia un senso e quindi vada in una direzione oppure in un’altra, certo può accadere che questa domanda possa...

- Intervento: Che poi questa domanda non ha altra funzione della domanda e risposta: Sono capace? Soffro?

Venerdì parleremo di depressione e nichilismo, e quindi dimostreremo come non ci sia sofferenza senza religione.