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14-1-2015

 

La tecnica, così come la pone Heidegger, è ciò che dà agli umani l’idea di avere il potere, di avere il controllo su tutto e questo è uno dei motivi per cui la tecnica ha così tanto successo: perché supporta una fantasia di onnipotenza, come se attraverso la tecnica fosse possibile controllare ogni cosa. È una posizione gnostica, vi ricordate il famoso motto degli gnostici “Eritis sicut dei”. Heidegger “originariamente” si volge ai presocratici, anche se poi verso la fine si accorge che anche i presocratici erano già metafisici, ma l’idea è che i presocratici si trovassero ancora in una fase “aurorale” del pensiero, quindi non ancora volto alla costruzione e al perseguimento della tecnica come strumento per il controllo del mondo. Per controllare qualcosa occorre che questo qualcosa sia oggettivato, sia quello che è, da qui l’esigenza della metafisica che fa proprio questo, dice che ciascuna cosa è quella che è, e quindi non la lascia esistere per sé, così come, secondo sempre Heidegger, accadeva presso i presocratici rispetto all’idea della “φύσις”, cioè la “φύσις” come sì, l’essere delle cose certo, ma come un essere che è lasciato essere e cioè non è oggettivato, non è posto come un qualche cosa da controllare, da gestire, da manipolare, questo ancora per Heidegger per i presocratici non c’era, ed è questo che a lui interessa ed è per questo che si è interessato molto a Hölderlin. Hölderlin, o almeno così è apparso ad Heidegger, ha la posizione dei presocratici rispetto al “lasciar essere l’essere” per dirla così, senza quindi piegarlo necessariamente a una oggettività manipolante. Questo potrebbe essere riassunto in due parole, e cioè il passaggio operato dalla storia del pensiero è stato quello di passare dalla poesia alla tecnica, “poesia” nel senso heideggeriano del termine come “ποίησις”, come produzione, come il produrre, il lasciar produrre e lasciare anche venire in luce le cose, senza costringerle nella oggettivazione quindi ciò che ha operato la metafisica, quindi tutto il pensiero occidentale, è questo passaggio dalla poίesis alla τέχνη. L’opera di Heidegger ha puntato su questo. Questo lo dicevo per motivare il fatto che ci occuperemo della tecnica perché appare, la tecnica, come il più formidabile supporto della fantasia di potenza, della fantasia di controllo, di dominio, tecnica che ovviamente non si riferisce oggi all’informatica o alle cose più recenti, era già presente nei presocratici. Era presente così come è presente oggi, come il tentativo, più o meno riuscito, di manipolazione dell’ente, e quindi necessariamente di oggettivazione dell’essere, cioè trasformando l’essere in ente. Questa è una accusa che Heidegger rivolge al pensiero, ma vede in questo anche la possibilità di andare oltre la metafisica e cioè di giungere a una posizione, come la chiama lui, “trans metafisica” e cioè la tecnica, con il suo nichilismo, perché è fondata sulla “deiezione”, questo è il termine che usa lui, la “deiezione dell’essere” cioè l’oblio, la dimenticanza dell’essere, in questo senso la tecnica è nichilista, però portando alle estreme conseguenze questa posizione operata dalla tecnica, dovrebbe giungersi, sempre secondo Heidegger, a quel punto in cui la tecnica mostra la sua incapacità di governare, nel senso di controllare, di gestire l’ente e allora a questo punto, mostrando il fallimento della tecnica dovrebbe accadere, a parere di Heidegger, ma su questo è abbastanza vago, dovrebbe accadere quello che lui auspica e cioè un approccio autentico all’essere: “lasciar essere l’essere” usiamo questi termini, cosa che secondo lui non è più avvenuto anzi, come dicevo prima, nell’ultimo Heidegger l’idea è che non sia mai avvenuto, tant’è che giunge a un certo punto a dire che “solo un dio ci può salvare”. Ecco questo è il motivo per cui ci interesseremo alla questione della tecnica, per vedere se ci sono elementi che possono tornarci utili sia concettualmente, sia, però, anche retoricamente, per articolare la questione del potere, di come funziona il potere. Certo né Heidegger né meno che mai i presocratici erano in condizioni di intendere da dove viene questa esigenza di controllo, di potere su tutto, e cioè che cosa ha fatto sì che a un certo punto gli umani si siano inventati la metafisica, e cioè quel pensiero che “oggettiva” l’essere trasformandolo in ente al fine di controllarlo, di gestirlo, di manipolarlo, per averne il potere appunto, e ovviamente come sappiamo “ente” è qualunque cosa, anche una relazione amorosa è un ente. La volta scorsa Heidegger stava considerando quella famosa frase di Parmenide “τ γάρ ατ νοενστιν τε κα εναι” prendendo i vari pezzi della frase. Si chiede che cosa significano queste parole: “ατ” “νοεν” “εναι”, “lo stesso” “il pensiero” “l’essere”, cercando in queste parole qualche cosa di più che a suo parere è sfuggito a tutta la ricerca filosofica che lo ha preceduto. Parla qui del “νοεν” nominato al secondo posto: resta tuttavia oscuro “νοεν(pensare) per lo meno qualora non si voglia tradurre senz’altro il verbo con “pensare” nel senso della logica cioè come attività analizzante dell’enunciazione. “νοεν” significa apprendere, “νος” “apprensione” e ciò in due sensi strettamente connessi, “apprendere” vuol dire anzi tutto “accogliere”, lasciar pervenire a sé ciò che, per così dire, si mostra, ciò che appare (l’essere è ciò che appare e qui si tratta nel pensiero cioè nel νοεν, di accogliere questo apparire, che non è un analizzare, di sezionare, ma di accogliere innanzi tutto) “apprendere” significa inoltre sentire, esaminare un teste, assumere una testimonianza, accertare un fatto, stabilire di che si tratta e in che consiste, l’“apprensione” in questo duplice senso esprime un lasciar pervenire a sé consistente non in una duplice accettazione ma in una presa di posizione nei confronti di ciò che si mostra, (questa duplice possibilità di tradurre questo termine non significa soltanto avere di fronte due possibilità ma significa prendere una decisione e cioè trovarsi nell’agire questo accoglimento, per Heidegger abbiamo detto, ma lo ripetiamo si tratta sempre di un essere “progettato” in qualche cosa, cosa che comporta un agire, comporta un assumersi una responsabilità, il fatto di indicare l’uomo come l’“esserci”, comporta che questo uomo non è mai spettatore passivo di quello che accade è sempre qualcuno che agisce, agisce in prima persona e si assume la responsabilità di quello che fa, questo per Heidegger è l’uomo autentico, non quello che vive perché ha sentito dire, perché si fa così, si fa cosà, no, è quello che accoglie ciò che appare e soprattutto lo lascia apparire senza, potremmo dirla, Heidegger non lo dice, ma potremmo dirlo “senza necessariamente oggettivare” cioè senza necessariamente compiere un operazione metafisica, torno a dirvi Heidegger questo non lo dice lo sto dicendo io): Nel νοεν è espresso questo ricevere ciò che appare portandolo a fissarsi in posizione … (vedete che tornano vari elementi: il permanere, l’assumere una posizione, prendere posizione) siamo giunti così al chiarimento di ciò che ci eravamo in primo luogo domandati “che significa τ ατ?” (lo stesso) Quando una cosa è uguale a un’altra noi la consideriamo come costituente a unità, come una sola e medesima cosa con l’altra, come concepire l’unità quando si tratta dell’unità dello stesso? (cioè lo “stesso” come unità) non possiamo stabilirlo a nostro piacere, almeno in questo caso in cui è il discorso dell’essere, dobbiamo cercare di comprendere l’unità nel senso che Parmenide intende con la parola “ν(uno), sappiamo che l’unità non è mai qui vuota uniformità, identità come pura indifferenza, l’unità è costituita dalla coappartenenza reciproca di antagonisti, è l’originariamente uno. Perché Parmenide dice τε κα? perché essere e pensare sono nel loro contrapporsi uniti ossia sono la stessa cosa in quanto coappartenentesi. (stavamo riflettendo sulla contrapposizione tra essere e pensare, non so se ve lo ricordate, che sono lo stesso, appunto:) Partiamo dall’essere così come da più punti di vista ci si è chiarito quale “φύσις”, essere significa: mantenersi in luce, apparire, venire nella non latenza (non-latenza, “a-λήθεια” che è la verità appunto, il venire alla luce) laddove qualcosa di simile si verifica ossia laddove l’essere si impone, ivi si impone e si produce, in pari tempo come a lui inerente, l’apprensione, l’arrestare accogliente dello stabile in sé che si mostra (ve lo rileggo perché è un po’ complessa dunque: dove qualcosa si verifica, cioè nella non latenza, nell’aλήθεια, si verifica che l’essere si impone e si produce in pari tempo come a lui inerente l’apprensione, cioè non c’è l’essere e poi l’apprensione di qualche cosa, cioè prima c’è qualche cosa poi c’è l’uomo che apprende. Tenete sempre conto che quando parla di “apprensione”, “accoglimento” si riferisce all’uomo che è l’unico ente sul pianeta in grado di porsi la domanda intorno all’essere, cosa per Heidegger non irrilevante, per cui non dice che c’è l’essere e poi l’uomo da un’altra parte e l’uomo considera l’essere, se così facesse, lo considererebbe come un ente, (metafisicamente), dice che si coappartengono, non c’è l’uno senza l’altro, non c’è l’essere senza l’uomo che lo accoglie, che lo lascia accogliere, qui dire, come dice lui delle volte “lo lascia venire in luce” sembrerebbe che c’è un qualche cosa che lo precede ma questo “lasciare venire in luce” non c’è prima della domanda che l’uomo si pone intorno all’essere) L’essere si impone ma poiché esso si impone e quanto si impone e appare, si produce necessariamente con questa apparizione anche l’apprensione (si producono insieme non c’è l’una senza l’altra, non c’è prima una e poi l’altra) Ora affinché l’uomo risulti interessato al prodursi di questa apparizione e di questa apprensione (sarebbe l’uomo autentico) occorre che l’uomo stesso effettivamente sia, cioè che appartenga all’essere. L’essenza e la modalità dell’esser uomo possono dunque determinarsi solo in base all’essenza dell’essere (sta dicendo che non c’è nessuna possibilità di intendere l’essere senza che ci sia l’uomo che domanda intorno all’essere e in questo domandare lascia che l’essere sia) Se tuttavia all’essere come “φύσις” compete l’apparire bisogna che l’uomo come essente appartenga a questo apparire (cioè appaia insieme) d’altra parte siccome l’esser uomo costituisce manifestamente un essere particolare sui generis infatti è l’unico che si fa sull’essere, risulta dalla singolarità del suo appartenere all’essere inteso come apparire imponentesi (cioè la sua singolarità è di appartenere all’essere, ma come? Come un apparire imponentesi, appare e si impone, si impone nel senso, non che si impone con veemenza, poi anche, lo dirà, ma si impone nel senso che da quel momento c’è, esiste) Ora però il fatto che un tale apparire compete l’apprensione, l’apprendere recettivo di ciò che si mostra è da ritenere che proprio in base a questo si determini l’essenza dell’essere uomo. Nell’interpretare la frase di Parmenide non bisogna dunque includervi o inserirvi una certa rappresentazione dell’uomo più tardiva o addirittura odierna, è al contrario la frase stessa che ci deve in primo luogo istruire sul come secondo essa, vale a dire secondo l’essenza dell’essere, si determini anche l’essenza dell’uomo, chi sia l’uomo stando a quanto ce ne dice Eraclito risulta δειξε (cioè l’uomo si mostra) si mostra soltanto nel πόλεμος nel separarsi degli dei e degli uomini, nel prodursi della rottura dell’essere stesso (sempre quindi in una contrapposizione perché ricordate che lui distingue tra l’essere parmenideo e l’essere di Eraclito. Per Parmenide l’essere è l’immobile, è ciò che sta, ciò che è necessariamente e di lì non muove, non muta, non varia, è fermo immobile ma, dice Heidegger, anche per Eraclito è la stessa cosa, solo che la considera non nel senso dello stare ma nel senso del movimento dell’apparire, questo apparire che è prodotto dal πόλεμος cioè dal contrasto tra varie cose. Entrambe le posizione dice Heidegger sono la stessa posizione e cioè di qualche cosa che è quello che è e che permane, solo che Parmenide considera in quanto sta, in quanto immobilità, Eraclito in quanto apparire della cosa stessa, movimento determinato dal πόλεμος) Chi sia l’uomo non è per la filosofia cosa scritta in cielo, bisogna invece tener conto di quanto segue: 1) la determinazione dell’essenza dell’uomo non costituisce mai una risposta bensì essenzialmente una domanda (cioè sta dicendo che qualunque risposta si dia alla domanda “che cos’è l’uomo?” questa risposta non sarà nient’altro che un’altra domanda) 2) la posizione di questa domanda e la sua risoluzione sono “storiche” non in modo generico ma in guisa tale da costituire l’essenza stessa della storia (e cioè questa domanda è presa all’interno di una “storicità”, non sorge dal nulla, sorge dal pensare, da tutto ciò che l’uomo ha pensato) 3) La domanda sull’uomo deve sempre venire posta in rapporto essenziale con la domanda sull’essere, la domanda concernente l’uomo non costituisce mai una domanda di carattere antropologico ma storico e metafisico (cioè non è mai incentrata su un discorso, sull’uomo in quanto tale ma sempre sull’essere) Non dobbiamo dunque far intendere quello che significano nella frase di Parmenide νος e νοεν sulla base di un concetto dell’uomo introdotto da noi, bisogna invece che impariamo a renderci conto che l’essere dell’uomo si determina unicamente in base al verificarsi della connessione essenziale dell’essere e dell’apprendere (se c’è l’essere, dice Heidegger, c’è l’apprendere ma l’apprendere è solo l’uomo che lo fa, l’essere non può prendere nulla, quindi perché ci sia essere occorre che ci sia apprendere e viceversa, perché ci sia apprendere occorre che ci sia essere, cioè ci sia l’uomo) L’apprensione e quanto di essa è detto nella frase di Parmenide non costituisce una facoltà, (questa apprensione non è una facoltà di un uomo già altrimenti determinato) l’apprensione è un accadere nel quale soltanto accadendo l’uomo entra come essente nella storia, appare, ossia letteralmente perviene lui stesso all’essere (cioè l’apprensione non è una facoltà di tizio o caio, potremmo dire che l’apprensione è, lui dice sì un accadere, in quanto qualche cosa accade, ma cosa accade? Accade tutto ciò che può accadere quando qualcuno fa qualche cosa, progetta, pensa qualche cosa, ha un’idea in testa, questo è un accadere, e soltanto in questo accadere l’uomo entra come essente nella storia cioè soltanto quando qualche cosa si produce: ecco la ποίησις, si genera, si genera perché l’uomo si sta “progettando” quindi è preso nella, oggi diremmo “poesia” ma dire “poesia” ha un’altra accezione oggi di quella che era la ποίησις per i greci, in cui c’era anche la poesia, poesia così come la intendiamo noi, però questo “accadere” per Heidegger è un termine importante perché gli serve per mostrare che l’uomo non è oggettivato, non ha delle facoltà propriamente, ma anche l’uomo si trova ad accadere così come l’essere appare a un certo punto e le cose appaiono, anche l’uomo accade senza che questa sia una sua facoltà. Infatti lui fa una critica poi anche del soggetto, della soggettività che chiama, coniando un nuovo termine la “soggettità”, infatti dice) L’apprensione non è un modo di comportamento che l’uomo possegga come una proprietà ma al contrario l’apprensione è l’evento che possiede l’uomo (quindi è l’evento che possiede l’uomo, ciò che accade lo possiede perché è in questo accadere che l’uomo si manifesta, in questa accadere che viene accolto ovviamente c’è un agire in tutto ciò) Ciò che in quella espressione si attua, (a proposito di “noein” e “apprensione”) è nientemeno che il consapevole manifestarsi dell’uomo in quanto storico custode dell’essere. (in questa frase c’è tutto il pensiero di Heidegger propriamente, cioè il consapevole manifestarsi dell’uomo in quanto storico custode dell’essere, l’uomo che si manifesta, si manifesta esattamente così come si manifesta l’essere, cioè appare nel momento in cui si lascia apparire qualche cosa, cioè ci si dispone a questa apertura e l’uomo è anche questo perché non è diverso, anche l’uomo appartiene all’essere come abbiamo visto prima, non è una cosa separata) Chi sia l’uomo non possiamo venire a saperlo da una definizione erudita ma solo in quanto l’uomo viene nella contrapposizione all’essente tentando di recarlo al suo essere, in quanto cioè gli conferisce limite e forma ossia in quanto progetta del nuovo non ancora presente cioè poeta originariamente, poeticamente fonda (quindi possiamo sapere chi è l’uomo soltanto in relazione al progetto che l’uomo ha, e l’uomo è un progetto che è sempre gettato, è sempre buttato in avanti, è in questo progettare continuo che è la ποίησις di fatto, “poeta originariamente, poeticamente fonda” cioè poeta originariamente l’uomo in quanto produce “originariamente” cioè mettendosi nella posizione di questo pensiero aurorale che era il pensiero dei presocratici, quel pensiero che come dicevo prima, lascia l’essere senza vincolarlo alla metafisica, cioè senza oggettivarlo, senza trasformarlo in oggetto, in ente) Nostro scopo è di cercare di comprendere la separazione di essere e pensare nella sua origine, questa formula designa la fondamentale attitudine dello spirito occidentale (cerca di vedere come è potuto accadere che essere e pensare si siano divisi, quando essere e pensare sono lo stesso) in base ad essa l’essere si determina nella prospettiva del pensare e della ragione e ciò anche quando lo spirito occidentale cerca di sottrarsi al dominio della ragione con volere l’ “irrazionale” cercando l’alogico (non logico). Perseguendo la distinzione di essere e pensare ci imbattiamo nell’espressione di Parmenide “tÕ gar aÙtÕ hoeἶh ἐstih te caˆ eἶhai” stando alla traduzione e alla concezione ordinaria questo vorrebbe dire “pensare ed essere sono la stessa cosa” (una della frasi più celebri di Parmenide) possiamo chiamare questa espressione il principio guida della filosofia occidentale a patto soltanto di aggiungere la seguente considerazione: se l’espressione di Parmenide τ γάρ ατ νοενστιν τε κα εναι è diventata il principio direttivo della filosofia occidentale ciò è stato solo in quanto essa non è stata più compresa, non avendo più potuto la sua originaria verità essere ritenuta, la perdita della verità di questa proposizione si verificò subito dopo Parmenide presso i greci stessi, verità originarie di tale portata non possono essere mantenute che a patto di essere costantemente sviluppate in modo ancora più originario, giammai con la loro semplice applicazione con l’appellarsi semplicemente ad esse, l’originario rimane tale se, cioè solo se, ha la costante possibilità di essere ciò che è, vale a dire origine. (Qui torna l’idea antica, autentica di lasciare “essere l’essere”, senza costringerlo all’interno di un’oggettivazione) Vale a dire “origine” nel senso di uno scaturire fuori dalla latenza dell’essere, noi tentiamo ora di riconquistare la verità originaria del detto di Parmenide. Un primo accenno alla diversità dell’interpretazione l’abbiamo fornito con la nostra produzione, l’espressione non dice “pensare e essere sono la stessa cosa” bensì “apprensione ed essere stanno in un rapporto di coappartenenza reciproca” (questo è il modo in cui Heidegger ha tradotto la frase celebre di Parmenide “τ γάρ ατ νοενστιν τε κα εναι” ve la rileggo “apprensione ed essere stanno in un rapporto di coappartenenza reciproca”, ma cosa significa ciò?) La frase viene a parlare in un certo senso dell’uomo (sì perché è ovvio che se si parla del pensare, si parla dell’uomo, visto che abbiamo stabilito che è l’unico ente che ha questa caratteristica) ed è pertanto pressoché inevitabile che si incominci con l’introdurvi la rappresentazione abituale dell’uomo tanto che in tal modo si giunge a far intendere quella che, secondo l’esperienza greca, è l’essenza dell’uomo, sia che questo fraintendimento avvenga nel senso del concetto cristiano, sia di quello moderno dell’uomo o nel senso di una scialba e vuota mescolanza dei due. Ma questo fraintendimento nel senso di una rappresentazione non greca dell’uomo è ancora il male minore, ciò che risulta veramente fatale è il fatto che si smarrisce assolutamente e di primo acchito la verità della proposizione, poiché è senz’altro in essa che si compie la decisiva determinazione dell’esser uomo, noi dobbiamo dunque nell’interpretarla scartare non soltanto questa o quella rappresentazione inadeguata dell’uomo ma addirittura qualunque rappresentazione, dobbiamo cercare di intendere solo ciò che in essa viene detto. (a un certo punto introduce la questione dell’“inquietante”) L’uomo è τ δειντατον ciò che vi è di più inquietante fra tutto l’inquietante, δειντατον viene dalla parola greca δεινόν e la traduzione che ne abbiamo data esige una spiegazione. Questa può essere data proprio solo in base a una visione preliminare, la parola δεινόν è ambigua, da un lato il δεινόν designa il terribile, lo spaventoso ma ciò che appare tale non nei confronti di una meschina pusillanimità e ancor meno in quel senso frivolo e vuoto in cui si usa da noi la parola quando si dice “terribilmente gentile”. Non è in questo senso, il δεινόν è il terribile, nel senso dell’imporsi predominante, che provoca ugualmente il timor panico, la vera angoscia, così come il timore discreto meditato raccolto. La violenza, la prepotenza rappresentano il carattere costitutivo essenziale dell’imporsi stesso (abbiamo visto che ciò che si impone è l’apparire, la φύσις la indicava come il dischiudentesi imporsi, quindi parla di violenza in questo imporsi della cosa) nel suo irrompere questo può rimanere in sé la sua forza prepotente con ciò esso non diventa inoffensivo tutt’altro ma ancor più terribile, per altro verso deinόn significa il “violento” nel senso di colui che esercita la violenza non solo ne dispone ma che è violento in quanto che l’uso della violenza è il carattere fondamentale non solo del suo agire ma del suo stesso essere. (L’essente nella sua totalità in quanto si impone è il predominante, nel primo senso quello che provoca timore eccetera, ora l’uomo è in un primo senso “δεινόν” in quanto appartenendo per essenza all’essere, risulta esposto a questo predominante, predominante dell’essere, della φύσις in particolare. L’uomo è in pari tempo “δεινόν” perché è colui che esercita la violenza, non solo la subisce la violenza della cosa che è lì e che si impone apparendo, ma è lui stesso che è violento) Egli raccoglie l’imporsi e lo reca in un’apertura (questa è per Heidegger la violenza. Raccoglie questo raccoglimento, vi ricordate? È anche un raccogliere il λόγος cioè quando interviene il λόγος c’è un raccogliere qualche cosa e lo esercita. Accoglie l’imporsi della φύσις e la espone alla poesia, alla produzione, perché questo gesto è sempre un gesto comunque attivo, per Heidegger, mai passivo, non c’è un subire un qualche cosa) Dunque perché traduciamo “deinόn” con “inquietante”? proprio perché il δεινόν risulta riferito nella sua massima intensità e ambivalenza all’essere dell’uomo che l’essenza di tale essere deve essere considerata senz’altro nel suo aspetto decisivo. Ma la caratterizzazione del violento come l’inquietante non è per caso una determinazione derivata (dato che prende in considerazione il modo come il “violento” agisce su di noi) mentre si tratterebbe precisamente di intendere il δεινόν come in se stesso. Noi concepiamo l’inquietante come quello che estromette dalla tranquillità (questa è la cosa importante) ovvero sia dal nostro elemento, dall’abituale, dal familiare, dalla sicurezza inconcussa. Ciò che è insolito dunque, non familiare non ci permette di rimanere nel nostro elemento ed è in ciò che consiste il pre-dominante. (Il pre-dominante è qualche cosa che si impone, imponendosi non lascia stare tranquilli) non lascia le cose come stanno. Ma l’uomo è quanto vi è di più inquietante non soltanto perché svolge la sua essenza in mezzo all’inquietante così inteso ma lo è perché fuoriesce, sfugge da quei limiti che gli sono anzi tutto per lo più familiari in quanto, come colui che esercita la violenza, trasgredisce i limiti del familiare e ciò proprio in direzione dell’inquietante inteso come il predominante (in ciò dunque consiste il predominante, ciò che non ci permette di rimanere nel nostro elemento quieto eccetera ma l’uomo è quanto vi è di più inquietante, non soltanto perché svolge la sua essenza in mezzo all’inquietante così inteso, cioè è inquietante non soltanto perché abita il “permanere violento” di una cosa ma lo è perché fuoriesce, sfugge quei limiti che gli sono anzi tutto e per lo più familiari in quanto come colui che esercita la violenza trasgredisce i limiti del familiare e ciò proprio in direzione dell’inquietante inteso come il predominante. E cioè ogni volta che si progetta, ogni volta che decide, che fa qualche cosa, che vuole muovere un aggeggio da qui a lì, compie, compie un atto di violenza. Su questo poi Severino ha ripreso delle cose e forse ne parleremo. Quindi l’uomo autentico è preso in una trasgressione continua, perché lui è tutte queste cose, in Heidegger l’uomo, l’essere, l’esserci, il progetto, tutte queste cose sono come facce di una stessa questione, è questo il capovolgimento, lo stravolgimento che operato Heidegger rispetto alla filosofia che lo ha preceduto. La filosofia contemporanea, da Cartesio fino a Husserl c’è sempre l’uomo da una parte e l’essere da un’altra, Heidegger toglie di mezzo tutto ciò, sovverte questa posizione per cui non c’è più l’essere da una parte e l’uomo dall’altra, è l’uomo che deve considerare l’essere anzi, questo è sempre ciò che lui ha considerato come una posizione metafisica perché considerandolo così lo oggettivizza e lo trasforma in ente quindi parla dell’ente e non dell’essere, l’essere è ciò che lo coinvolge, lo travolge continuamente) (in Heidegger è sempre lo stesso “straniante” di Freud?”) (la parola è sempre la stessa: un – opposizione, il non – Un-heimliche – familiare, il domestico, il tranquillo, il noto, il sereno. Se proseguiamo Heidegger è un esercizio di pensiero, dopo approcceremo la questione della tecnica, sempre di Heidegger, cercando di intendere ciò che a noi principalmente interessa e cioè come la tecnica costituisca insieme con la metafisica, che ne è il suo presupposto e la sua origine, come sia fatto, nella tecnica, il modo di operare della fantasia di potenza. Che cosa intende Heidegger quando parla di tecnica? La “τέχνη” per Heidegger è l’operato dell’uomo. Vi ricordate la distinzione tra “φύσις” e “τέχνη”. Φύσις è ciò che appare avendo in sé, mantenendo in sé la causa della propria origine e la propria finalità, la τέχνη invece è il manufatto, ciò che è opera dell’uomo e quindi non ha in sé la propria causa. Riporta l’esempio che fa Aristotele nella Fisica, dice che c’è l’albero e c’è il letto, entrambi sono di legno, ma l’albero produce un altro albero, il letto non produce un altro letto: l’albero è la φύσις, il letto la τέχνη. Adesso così è più chiaro forse. Quindi è l’agire dell’uomo che manipola l’ente, perché può fare questo? Perché ha dimenticato l’essere, perché sembra, anche se non lo dice, almeno non mi pare in modo esplicito, che originariamente nei presocratici e forse anche prima non c’era l’esigenza di volgere l’essere in ente, e cioè di farne un oggetto da manipolare e quindi in teoria lasciando stare l’essere non ci sarebbe stata la fantasia di potere, però questa è un’elucubrazione mia del momento, diciamo che si può trarre in qualche modo da ciò che lui dice, perché se la tecnica è il prodotto della metafisica e ha come movimento necessario l’oggettivazione dell’essere, allora se questa oggettivazione non c’è ma l’essere può apparire come è, adesso usiamo termini un po’ banali, allora non c’è più la manipolazione, non c’è più il controllo, cioè nulla di tutto ciò risulta necessario perché lascia stare l’essere. Lo lascio apparire dunque, lo accolgo e mi trovo preso in questo essere continuamente (però noi, il gioco linguistico che abbiamo costruito quello del linguaggio ovviamente, noi affermiamo che gli umani non possono sottrarsi a questa fantasia di potere, perché è data dalle affermazioni e dal lavoro del linguaggio mentre costruisce) Heidegger non aveva conoscenze sufficienti per intendere il funzionamento del linguaggio, per lui il linguaggio è per un verso la dimora dell’essere, perché senza l’uomo che parla non c’è niente, ma è anche un ostacolo. Sembra che abbia interrotto la stesura di Sein und Zeit (Essere e Tempo), che prevedeva un seguito, a causa del fatto che si è scontrato con il linguaggio, cioè si è trovato di fronte a un linguaggio insufficiente a dire quello che voleva dire. Questo si dice sia avvenuto e la domanda “da dove viene una fantasia di potenza?” non può essere intesa se non si intende il funzionamento del linguaggio ovviamente, a noi interessa intendere come, infatti l’ho detto prima, sia concettualmente, cioè attraverso un’analisi precisa dell’intervento della tecnica nel pensiero e sia anche per una portata retorica, mostrare per quale motivo la tecnica oggi è così potente, così efficace, lo è sempre stata ma oggi forse di più, forse, non è affatto sicuro. Il motivo per cui ciascuno vuole avere sempre l’ultimo ritrovato della tecnica, il motivo per cui ha fiducia che la tecnica possa risolvere ogni cosa. La tecnica può fare molto certo ma, come diceva sempre Heidegger, “la scienza non pensa” cioè non si occupa propriamente di che cosa sta facendo, fa delle cose, esegue delle procedure ma non sa propriamente che cosa sta facendo, in questo senso “non pensa” non è in senso negativo, ma nel senso che la scienza non si pone questo obiettivo, fa altro, non pensa se stessa, cioè la scienza non dice che cosa è se stessa: la matematica non dice che cos’è la matematica, la matematica dice come si compiono certe operazioni ma non dice che cos’è “matematica”. Si potrebbe anche dice che la matematica è l’esecuzione di operazioni secondi certi algoritmi, ma non risponde propriamente alla domanda di Heidegger.