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13 dicembre 2023

 

Aristotele Analitici Secondi

 

Siamo a pag. 993, inizio del Libro Secondo degli Analitici Secondi. Qui Aristotele sta considerando la conoscenza scientifica, a quali condizioni si conosce scientificamente. Evidentemente, la conoscenza scientifica per Aristotele è la conoscenza del sillogismo, non ce ne sono altre per lui. Cerchiamo quattro cose: il che, il perché, se è, che cos’è. Corrispondono alle quattro cause aristoteliche: causa materiale, formale, efficiente e finale. Quando conosciamo il che, cerchiamo il perché, per esempio quando sappiamo che il sole si eclissa e che la terra trema, cerchiamo perché si eclissa o perché trema. La questione interessante non è tanto il fatto che si cerchi il perché delle cose – cosa nota da sempre – ma lui si trova a considerare che per potere conoscere, per potere domandarsi del perché di qualche cosa, è necessario che questo qualcosa sia, altrimenti non posso chiedermi niente. È a questo punto che distingue tra la definizione e la dimostrazione. La definizione enuncia un principio, dice che cos’è, mentre la dimostrazione dice perché è quella cosa. A pag. 1001. …c’è forse dimostrazione di tutto ciò di cui c’è definizione oppure no? Anche in questo caso vale una spiegazione, la stessa di prima. Infatti, di una cosa, in quanto una, c’è un solo modo di conoscerla scientificamente. Di conseguenza, se davvero conoscere scientificamente ciò che è dimostrabile è averne dimostrazione, si verificherà qualcosa di impossibile. Infatti, colui che possiede la definizione senza averne dimostrazione conoscerà scientificamente. Inoltre, i principi delle dimostrazioni sono definizione e di questi si è provato prima che non ci possono essere dimostrazioni:… I principi delle dimostrazioni sono definizioni, ma la definizione in quanto principio non ha una dimostrazione. Lo aveva già detto altre volte e qui lo ribadisce. …o i principi primi saranno dimostrabili e vi saranno principi di principi e ciò procederà all’infinito, oppure le cose prime saranno definizioni indimostrabili. Cioè, ci sta ribadendo che ogni dimostrazione muove necessariamente da una definizione: devo definire qualche cosa per poterla utilizzare. Ma questa definizione, essendo un principio, non è dimostrabile. Quindi, di nuovo, insiste nel dirci che ogni dimostrazione è costruita sull’indimostrabile e, aggiungerei io visto che lui non lo fa, necessariamente. Ma forse, se non in ogni caso c’è definizione e dimostrazione della stessa cosa, c’è però in qualche caso? La definizione necessita della dimostrazione, che non può essere dimostrata. Però, si chiede, c’è un qualche caso in cui la definizione può essere dimostrata? O è impossibile? In effetti, non c’è dimostrazione di ciò di cui c’è definizione, perché la definizione è del che cos’è e dell’essenza, mentre le dimostrazioni paiono tutte ipotizzare e assumere il che cos’è, per esempio le dimostrazioni matematiche ipotizzano e assumono cos’è l’unità e cos’è il dispari, e allo stesso modo le altre dimostrazioni. Inoltre, ogni dimostrazione prova qualcosa di qualcosa, ossia che è o non è questo qualcosa, mentre nella definizione non si predica niente di qualcos’altro, per esempio né animale di bipede, né quest’ultima cosa di animale, e neppure figura di superficie: infatti la superficie non è una figura, né la figura è una superficie. Inoltre, il provare il che cos’è e il che è sono cose differenti. Ora, la definizione mostra che cos’è, la dimostrazione, invece, mostra che questa cosa qui si dice o non si dice di quest’altra. L’interesse di tutto ciò è che qui Aristotele sta cercando di dare uno statuto ontologico al sapere epistemico, al sapere certo, certificato. Ma questo statuto ontologico, a mano a mano che lo cerca, risulta sempre più difficile da reperire, non solo per tutte le cose che ha dette, ma anche per quelle che sta dicendo. Ci sta dopo tutto dicendo che non c’è nessuna dimostrazione possibile, che ogni dimostrazione necessita di una definizione per muovere e la definizione in quanto principio non è dimostrabile. Quindi, la dimostrazione sarebbe dimostrazione di che? Lo ha detto prima che la dimostrazione dice soltanto se qualcosa appartiene a un’altra oppure no. Però, c’è un altro problema: lui adesso esplora questo nuovo modo, la divisione, e cioè lui vuole arrivare a un qualcosa di proprio attraverso le divisioni. A pag. 1007. Eppure, nemmeno la via attraverso le divisioni porta a un sillogismo, come si è detto nell’analisi relativa alle figure. Infatti, non diventa in nessun luogo necessario che l’oggetto sia di quel determinato tipo, se queste cose qui sono, come neppure dimostra chi opera un’induzione. Infatti, non bisogna domandare la conclusione e neppure che si dia per il fatto che sia concessa, ma è necessario che sia, una volta che siano quelle cose, anche se chi risponde non l’afferma. Dice che anche il procedere per divisione non garantisce niente, perché io posso dividere finché voglio, ma chi mi garantirà che questa divisione è stata compiuta correttamente e non abbiamo saltato nulla? Lui lo dice che questo è un problema, che la divisione non garantisce, mentre lui sta cercando qualcosa che garantisca. E dunque chi procede in questo modo fa ricorso a un uso non sillogistico anche per le cose che è ammissibile che siano sillogizzate. Infatti, cosa impedisce che questo intero sia vero dell’uomo senza che ne manifesti proprio il che cos’è e l’essere del che cos’è? Inoltre, cosa impedisce l’aggiungere, il sottrarre o il tralasciare qualcosa dell’essenza? Questi difetti non vengono notati, ma è possibile risolverli con l’assumere tutte le cose nel che cos’è, raggiungere il termine successivo uno dopo l’altro mediante la divisione, una volta postulato ciò che è primo, e non tralasciarne alcuno. Ciò è necessario, se ogni cosa ricade nella divisione e non ne resta nessuna: e ciò è necessario, perché bisogna che ci sia già un termine indivisibile. Dice che noi, in effetti, possiamo raggiungere la fine di questa operazione perché sappiamo che, quando arriviamo al principio, alla definizione, lì ci dobbiamo fermare perché non c’è più nessuna dimostrazione. Chi formula la definizione a partire dal processo di divisione non formula un sillogismo. Mentre sappiamo che per lui è fondamentale il sillogismo. Ma si può forse dimostrare il che cos’è relativo alla sostanza, in base a un’ipotesi, quando si assume da un lato che l’essere del che cos’è è la caratteristica peculiare costituita da ciò che è nel che cos’è, dall’altro che questi predicati particolari sono i soli nel che cos’è e che la loro interezza è una caratteristica peculiare? In effetti, ciò è l’essere di quella cosa. Oppure si è di nuovo assunto l’essere del che cos’è anche in questo caso? È infatti necessario provare in forza di un medio. Se non possiamo provare in forza di un medio non possiamo affermare nulla. Dunque, a questo punto tutto si svolge intorno al medio. A pag. 1015. Come proverà allora l’essenza e il che cos’è colui che definisce? Infatti, non renderà chiaro, nel caso di colui che dimostra a partire dalle cose che si è convenuto che sono, che è necessario che, stanti queste cose, qualcosa di diverso sia (in effetti, questo è una dimostrazione); e neppure nel caso di colui che opera un’induzione, in forza di realtà particolari che sono manifeste, si renderà chiaro che il tutto è tale per il fatto che nessuna di queste realtà è altrimenti: infatti, non mostra che cos’è, ma che è o non è. Rimane qualche altro modo, allora? Infatti, non potrà certo mostrare per mezzo della percezione o deitticamente. Dice che non serve a niente il fatto di colui che dimostra a partire da cose che si è convenuto che sono… Si è convenuto ma non si è dimostrato niente. Perché ci sia dimostrazione è necessario che compaia qualcosa di diverso, sennò è una tautologia: questo è questo, e chiuso il discorso. Inoltre, come mostrerà il che cos’è? Infatti, è necessario che chi conosce che cos’è uomo o qualunque altra cosa sappia anche che è (in effetti, ciò che non è, nessuno sa che cosa sia, bensì cosa significa la formula definitoria o il nome, quando dico ircocervo, mentre è impossibile sapere cosa sia l’ircocervo). A pag. 1017. Infatti, la definizione e la dimostrazione rendono chiara una singola cosa, ma che cos’è uomo e che l’uomo è sono cose diverse. Inoltre, diciamo che è necessario provare anche mediante dimostrazione tutto ciò che qualcosa è, a patto che non sia l’essenza. L’essere non è essenza per nessuna cosa, perché ciò che è non è un genere. Dice che l’essere non è essenza per nessuna cosa; infatti, l’essere è esistenza, non essenza. L’esistenza dice che è, l’essenza dice che cos’è. Dice che l’essere ha a che fare con l’immanente, con qualcosa che è; quindi, non può essere un genere, ma è sempre un particolare. È l’essenza ad essere un genere. L’essere, così come lo pone Aristotele, non è un genere; l’essere è l’immediato; per i Greci è ciò che appare, e ciò che appare non può essere genere perché il genere non appare; ciò che appare è la cosa, l’ente, non il genere. Dunque, vi sarà dimostrazione che una cosa è esattamente ciò che fanno anche ora le scienze. Infatti, lo studioso di geometria assume preliminarmente cosa significa triangolo e prova che è. Cosa proverà allora chi definisce, se non che cos’è il triangolo? Pertanto, uno, pur conoscendo per definizione che cos’è, non saprà se è: ma ciò è impossibile. Perché è impossibile? È impossibile perché non posso sapere che cos’è qualche cosa se prima non do per acquisito che sia. E, infatti, dice che lo studioso di geometria assume preliminarmente cosa significa triangolo, così come il matematico assume preliminarmente che cosa sia un numero. Dice che uno, pur conoscendo per definizione che cos’è, non saprà se è, che è il caso del matematico che, per definizione, sa che cos’è, ad esempio, il numero, e cioè il simbolo della quantità, della grandezza. Certo, ma questo io lo do per implicito, presumo che sia così ma non lo posso dimostrare perché è una definizione. Se lo voglio dimostrare diventa un problema perché io a questo punto mi trovo a dire che cos’è una certa cosa senza sapere se è, perché io l’ho imposto, ho stabilito preliminarmente che sia così, ma non ho nessuna certezza. Come nel caso degli assiomi di Peano, quando dice numero es classe: questa affermazione non è dimostrabile, non c’è nessuna dimostrazione e, quindi, non saprò mai che cos’è; sì, ho dato una definizione, ma come tale è un principio che non ha nessuna dimostrazione e non lo posso dimostrare. Ecco, questo è il fondamento della scienza per Aristotele. A pag. 1023. Ora, le cose che sappiamo per accidente che sono, è necessario che non le si possieda in alcun modo in relazione al che cos’è, perché non sappiamo neppure che sono: cercare il che cos’è senza possedere il che è è non cercare nulla. È più facile, per quelle cose di cui possediamo qualcosa. Di conseguenza, come possediamo il che è, possediamo anche qualcosa in relazione al che cos’è. Qui fa una cosa interessante perché dice che da una parte sappiamo per accidente che sono: se sappiamo per accidente che sono non sappiamo neanche esattamente se sono, perché è capitato ma potrebbe anche non accadere mai più. Qui allude a qualcosa di notevole, allude indirettamente alla posizione di Democrito. Le cose, diceva Democrito, si muovono accidentalmente, non c’è nessuna possibilità né di prevederne l’andamento, né di stabilire che cosa siano, perché si aggregano e si disgregano in continuazione. Lui faceva l’esempio degli atomi, ma è una metafora; di fatto, ciò che dice Democrito è che non c’è nessuna possibilità di controllare alcunché. Da qui il divieto di Platone di pronunciare anche solo il suo nome nella sua scuola. È stato uno dei primi, più potenti, casi di censura: Democrito non si deve assolutamente nominare. Le cose di cui possediamo qualcosa del che cos’è, si ponga in primo luogo che stiano così: eclissi sia ciò che è indicato da A, luna da C, interposizione della terra da B. Allora cercare se si eclissa o no è cercare se B è o non è. Come sappiamo certe cose? Da dove viene questo sapere? È un sapere epistemico? No, è un sapere doxastico, viene dalla doxa. Dunque, tutto ciò che possediamo lo possediamo dalla doxa. A pag. 1027. Dal momento che si dice che la definizione è la formula del che cos’è, è manifesto che una qualche definizione sarà formula di che cosa significa il nome o un’altra espressione nominale, per esempio che cosa significa triangolo. Una volta che si possieda davvero il che è, cerchiamo perché è: in questo modo, però, è difficile assumere ciò che non sappiamo che è. La causa della difficoltà s’è detta prima: è che non sappiamo neppure se la cosa è o non è, tranne che per accidente. /…/ Ora, una definizione di definizione è quella detta, un’altra è formula che mostra perché una cosa è. Di conseguenza la prima significa una cosa, ma non la prova; la seconda, è manifesto che sarà una sorta di dimostrazione del che cos’è, differendo dalla dimostrazione per la dimostrazione dei termini. In effetti, è diverso dire perché tuona e che cos’è il tuono. Nel primo caso si dirà infatti così: “perché il fuoco nelle nubi si estingue”; nel secondo: “che cos’è il tuono? Rumore dell’estinguersi del fuoco nelle nubi”. Di conseguenza, la stessa formula si dice in un modo diverso e in uno di questi risulta una dimostrazione continua, nell’altro una definizione. Inoltre, definizione di tuono è rumore nelle nubi, e questa è conclusione del sillogismo del che cos’è. La definizione degli immediati è invece tesi indimostrabile del che cos’è. Qui Aristotele è arrivato al nucleo della questione, alla catastrofe totale: la definizione, ci dice, non è altro che la conclusione di una serie di dimostrazioni. Quindi, questa definizione, che ci dice che qualcosa, sì, certo, la prendiamo come definizione, ma è il risultato a sua volta di una serie di dimostrazioni, che noi di nuovo utilizziamo come definizione per muovere altre dimostrazioni; le conclusioni di queste dimostrazioni costituiranno a questo punto altre definizioni, che verranno utilizzate, e così via. A pag. 1029. Definizione è dunque in un caso formula indimostrabile del che cos’è, in un altro sillogismo del che cos’è, differente dalla dimostrazione per disposizione dei termini, e in un terzo modo è conclusione della dimostrazione del che cos’è. Da che cosa muove la dimostrazione? Certo, dalla definizione, ma questa da dove sorge? Non è che sorge dal nulla, sorge da altre argomentazioni. Ma queste altre argomentazioni da dove scaturiscono? Da altre definizioni, e così via. Non c’è alcuna possibilità di arrestare questo movimento, che non è altro che il solito movimento, che conosciamo perfettamente, dell’uno e dei molti. La definizione è l’uno, il che cos’è. Che cos’è questo? È un orologio. La dimostrazione sono i molti, perché in base a che cosa io posso dire che questo è un orologio se non in relazione a una infinità di altre cose che devo sapere? Che è come dire che non può darsi l’uno senza i molti, come abbiamo visto infinite volte. Questo è, almeno apparentemente, il messaggio di Aristotele e lo dice qui abbastanza chiaramente: La definizione degli immediati è invece tesi indimostrabile del che cos’è. Sì, certo, è indimostrabile ma viene da una dimostrazione, ne è il risultato. Potremmo anche dire che la definizione, l’uno, viene dai molti. Quindi, se c’è l’uno ci sono i molti e se ci sono i molti c’è l’uno: i molti diventano uno nel momento in cui li considero, posso considerarli solo come uno, non posso pensare l’πειρον, l’indeterminato. In questo lavoro di definizione e di dimostrazione, Aristotele ci sta dicendo che questi due momenti è come se continuamente rimbalzassero l’uno nell’altro: la definizione trapassa nella dimostrazione, la dimostrazione rilascia una definizione, e così via all’infinito. A pag. 1037 c’è una frase di chiusura, e qui sembra Democrito: niente che sia per caso avviene in vista di qualcosa, niente che è per caso è controllabile, dominabile, quindi, utilizzabile. Questo è Democrito; non so se Aristotele pensasse a Democrito, può darsi, non lo so, ma in questa riga c’è tutto lo sforzo di Aristotele per avversare questa affermazione per cui niente che sia per caso avviene in vista di qualcosa: non è dominabile, non è utilizzabile in nessun modo ciò che avviene per caso, quindi, dobbiamo trovare qualcosa che non avvenga per caso. Cosa? In una dimostrazione sappiamo che muoviamo dalla definizione; la definizione avviene per caso? Sì e no, perché questa definizione non è dimostrabile. Lui lo ha detto prima: ciò che avviene per caso non ha dimostrazione; quindi, potremmo tentare l’inversa, per cui se non ha dimostrazione avviene per caso, potremmo anche fare così, no? E, in effetti, non ha dimostrazione perché è assolutamente arbitraria. Lui dice che non ha dimostrazione perché altrimenti non sarebbe un principio. Sì, va bene, il problema è un altro e ben più grave, solo che Aristotele non lo prende molto in considerazione, e cioè il fatto che questa definizione non è necessaria, e se non è necessaria è arbitraria, casuale. Ma se è casuale allora tutto ciò che viene costruito da lì non è utilizzabile.

Intervento:

Qui il problema è ancora più grave perché il caso si insinua nel controllabile, nel necessario, così come i molti si insinuano nell’uno. Siamo a pag. 1041. Bisogna invece considerare quale sia la continuità tale per cui dopo l’essersi verificato segue nelle cose il verificarsi. Non è forse chiaro che ciò che si verifica non è contiguo a ciò che si è verificato? Qui pone una questione enorme: non è contiguo, così come l’uno non è contiguo al due, un punto non è contiguo a un altro, ma sono entità discrete, non c’è una continuità. In effetti, non lo è neppure ciò che si è verificato con ciò che si è verificato, perché sono limiti e indivisibili. Allora, come i punti non sono reciprocamente contigui, non lo sono neppure le cose che si sono verificate, perché entrambi sono indivisibili. Per lo stesso motivo neppure ciò che si verifica è contiguo a ciò che si è verificato: infatti, ciò che si verifica è divisibile, mentre ciò che si è verificato è indivisibile. Allora, come la linea sta rispetto al punto, così ciò che si verifica sta rispetto a ciò che si è verificato: infatti, in ciò che si verifica sono presenti illimitate cose che si sono verificate. Circa questi argomenti bisogna parlare più manifestamente nelle trattazioni generali sul movimento. Ci sta dicendo che non c’è nessuna contiguità, ma tra che cosa? Tra il fatto che tutte le A siano B, tutte le B siano C, tutte le A siano C, non c’è nessuna contiguità. Che cosa vuol dire che non c’è contiguità? Che non c’è implicazione, che non si implicano, nonostante lui ci abbia detto che si ineriscono – lui non parla di appartenenza ma di inerenza. Questo era già comparso precedentemente: il fatto che ineriscano è un comando, ύπάρχειν, cioè, non c’è nessuna necessità logica nell’implicazione, nonostante la utilizziamo ininterrottamente, ma non c’è nessuna necessità logica perché non c’è contiguità. Come dire che tutto ciò che ho fatto fino ad adesso è uno scherzo: abbiamo scherzato.