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13 dicembre 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo

 

Stavamo considerando il prendersi cura e il come interviene la temporalità, nell’accezione heideggeriana del termine, rispetto al prendersi cura. A pag. 419. Alla temporalità costitutiva del lasciar appagare è essenziale un oblio particolare. Il se-Stesso, per intraprendere “realmente” delle opere e volgersi alla manipolazione “perso” nel mondo dei mezzi, deve obliare se stesso. L’Esserci o riviene a se stesso oppure si occupa del quotidiano. Ciascuno di noi si occupa di tante cose, compreso magari il riflettere su se stesso e considerare il modo in cui si apre verso le cose, però, durante la giornate può trovarsi a considerare anche la necessità di andare in panetteria a comperare il pane. In quel momento, in cui sono nella panetteria, c’è un oblio del se-Stesso, perché non mi sto occupando di quello. Heidegger ci ha spiegato che il lasciar appagare è un lasciar essere le cose per quello che mi servono, dicendo proprio queste parole, che il lasciar appagare lo intendiamo in senso esistenziale come un lasciar essere. Esistenziale, cioè, rispetto all’Esserci, inteso come un lasciar essere. Lasciar appagare significa lasciare che una cosa si compia, l’utilizzabile è utilizzabile per qualche cosa: il cacciavite è un utilizzabile, lo utilizzo per avvitare una vite, e questa è la sua appagatività, il fatto di avvitare una vite, ciò che ne faccio. Quindi, il lasciar appagare come il lasciar essere significa che io lascio che questa cosa compia il suo destino e in questo modo la lascio essere. Il che può sembrare una banalità, però, dice Heidegger, È su questo fondamento che l’utilizzabile può venire incontro alla visione ambientale preveggente come l’ente che esso è. L’ente può venirmi incontro per quello che è se io pongo questo appagare come un lasciar essere. Questo “lasciar essere” ritorna molto spesso in Heidegger, che cos’è il lasciar essere? Tenete sempre conto che Heidegger si è formato con Husserl e la fenomenologia. L’obiettivo è sempre il coglimento del fenomeno in quanto tale, e cioè cogliere ciò che appare nel modo in cui appare. È questo che ci consente di intendere queste frasi che sta dicendo qui Heidegger: il lasciar essere è il lasciar essere le cose così come ci appaiono. Che è l’obiettivo della fenomenologia: lasciar essere le cose come appaiono anziché immaginare o pensare che queste cose siano qualche cos’altro, abbiano qualche significato recondito o traggano la loro esistenza da un’altra cosa. No, le cose sono così come ci appaiono. È questa poi la nozione di verità in Heidegger: il disvelarsi di ciò che appare nel modo in cui appare. Quindi, il lasciar essere è questo, il lasciare che le cose mi vengano incontro, mi appaiano così come mi appaiono, senza attribuire a queste cose altro rispetto a ciò che appare, per cui sono ciò che appare, nient’altro. Tutto questo ha un senso se si tiene conto di tutta la elaborazione precedente di Heidegger. La cosa mi appare così come mi appare in quanto io sono storico. Per esempio, il cacciavite mi appare così come mi appare per via della mia storicità, non è che mi appare per quello che è in sé, mi appare per come io, in questo momento, lo utilizzo. È questo che lui intendeva dire dicendo lasciare l’appagatività: io lo colgo nel modo in cui si appaga, in quel momento, avvitando una vite, banalizzando la questione, ma questo è ciò che è, ciò che appare. Non è debitore di nulla se non della storicità, che mi fa apparire questa cosa così come mi appare. Infatti, dice, Il mezzo utilizzabile non è incontrato nel suo “vero in sé”, quando è oggetto di una percezione tematica delle “cose”, ma quando ci sta innanzi “ovviamente” e “oggettivamente” come qualcosa di non sorprendente. Qui aggiunge un’altra cosa, e cioè che questa cosa che ci sta di fronte in modo non tematico, cioè non metto a tema questa cosa e la interrogo, ma semplicemente in modo oggettivo, per dirla in modo spiccio, semplicemente come ciò che mi appare. Aggiunge come qualcosa di non sorprendente, cioè come qualcosa di conosciuto. Generalmente, le cose appaiono così, come qualcosa di non sorprendente. Ma se nell’insieme dell’ente c’è qualcosa di sorprendente, è possibile che l’insieme dei mezzi si riveli in quanto tale importuno. Qui, lui sta cercando di mostrare come può accadere che qualche cosa sorprenda e sta cercando di porre la sorpresa di qualche cosa esistenzialmente, cioè come funziona per un esistenziale, per qualcuno. Come deve strutturato esistenzialmente il lasciar appagare perché sia possibile incontrare qualcosa di sorprendente? Questa domanda non intende riferirsi ora a fatti tali da richiamare l’attenzione su qualcosa di già dato, ma al senso ontologico di questo richiamare stesso. È sempre il senso ontologico che a lui interessa, cioè l’essere di questa cosa. La non impiegabilità, ad esempio la inidoneità di uno strumento, può rivelarsi tale solo “in” e “per” un commercio manipolante. Qualche cosa si rivela come non manipolabile solo se la voglio manipolare, ovviamente. Anche la più perspicua ed esatta “percezione” o “rappresentazione” non potrà mai scoprire qualcosa come il deterioramento di uno strumento. (pagg. 419-420) Ciò che lui intende come deterioramento di uno strumento, cioè il fatto di non essere più utilizzabile, non ha a che fare con qualcosa di scientifico (deterioramento del materiale, ecc.), no, dice: Bisogna che il maneggiare sia intralciato perché si possa incontrare il non-maneggevole. Ci vuole un intralcio, qualche cosa che intervenga, qualcosa che impedisce. Ma che significato ontologico ha tutto questo? La presentazione aspettantesi e ritenente… Cioè, ciò che si mostra; aspettantesi, ciò che ci si aspetta. …urtante contro ciò che successivamente risulterà essere deteriorato, è ostacolata nel suo risolversi nei rapporti di appagatività. Se qualche cosa è impedito è perché c’è un’attesa, un progetto, di una certa cosa. Occorre che ci sia un’attesa di una certa cosa perché ci sia un impedimento, cioè, questo impedimento è all’interno del mondo, qualcosa che nel mondo in cui mi trovo funziona da impedimento, non è un impedimento metafisico che sta lì di per sé, indipendente da ciò che io sono in questo momento. È sempre questa la questione in Heidegger. Poco dopo, dice …la presentazione può tuttavia incontrare qualcosa di inadatto a… solo perché essa si muove già in un’aspettazione e in ritenimento di ciò con cui essa può lasciar appagare presso qualcosa. Che la presentazione sia “impedita” significa: essa, assieme al ritenimento aspettantesi, si sconcerta sempre più in se stessa determinando così l’“ispezione”, la verifica e l’eliminazione dell’impedimento. Se il commercio prendentesi cura fosse semplicemente una successione di “esperienze vissute”, trascorrenti “nel tempo” anche se intimamente “associate”, l’incontro con un mezzo inopportuno e impiegabile sarebbe ontologicamente impossibile. Il lasciar appagare deve come tale fondarsi nell’unità estatica della presentazione attendentesi e ritenente, qualunque sia ciò che esso rende accessibile e manipolabile nel complesso articolato dei mezzi. Cioè qualcosa funziona come impedimento non di per sé ma funziona come impedimento rispetto al mio progetto. Questo per Heidegger è importante: soltanto all’interno della gettatezza, quindi del progetto che è sempre gettato c’è un aspettarsi qualche cosa, ma ciò che impedisce l’appagatività, cioè la “soddisfazione” del mio progetto, non è un impedimento obiettivo. Per dirla in altri termini: interviene un utilizzabile perché, nel mondo in cui mi trovo, questo utilizzabile è connesso con una serie di altri utilizzabili, è sempre in relazione con altri utilizzabili. Quindi, l’impedimento rispetto a un utilizzabile non dipende da un qualche cosa di esterno ma da qualche cosa che accade in questo mondo di utilizzabili. Ora, a questo punto, si chiede giustamente Come ha luogo l’accertamento di qualche cosa che manca, cioè che non è utilizzabile e non soltanto non-maneggevole? Qualcosa di non utilizzabile è scoperto dalla visione ambientale preveggente nell’esperienza della mancanza. Questa cosa è stata poi ripresa anche da Lacan. Sta dicendo che ciò che manca non è l’assenza di qualche cosa ma è la presenza di qualche cosa che è avvertita come mancanza. Si tratta sempre di una presenza: c’è qualche cosa che manca, ma c’è in quanto mancanza. Il che significa che questa mancanza è rilevata solo all’interno del mondo in cui mi trovo, non è una cosa obiettiva, fuori di me, non è un dato di fatto. Se colgo una mancanza è perché c’è qualche cosa che mi aspettavo che ci fosse e non c’è. Ma mi aspettavo che ci fosse all’interno di un progetto, all’interno del mondo in cui mi trovo. La mancanza non è affatto una non-presentazione, bensì un modo difettivo del presente nel senso della mancata presentazione di qualcosa di atteso o di sempre disponibile. Se il lasciar appagare preveggente ambientalmente non fosse, “fin dalle radici”, aspettantesi ciò di cui si prende cura, e se l’aspettarsi non si temporalizzasse in unità con una presentazione, l’Esserci non potrebbe mai “trovare” che qualcosa manca. In altri termini, l’Esserci deve avere già posto ciò che poi troverà come mancante. Non potrebbe trovare qualche cosa se mancasse all’Esserci. Quindi, questa mancanza non è qualcosa che manca all’Esserci, all’Esserci non manca niente, ma manca rispetto a ciò che l’Esserci si aspetta, manca rispetto al mondo, rispetto alla totalità degli utilizzabili presenti. All’Esserci non manca nulla, non c’è un qualche cosa che manchi all’Esserci, cioè a me, a me non manca niente, nel senso che ciò che potrebbe mancare è qualcosa che è già previsto nel progetto, che è già nel progetto, perché se non ci fosse non potrei coglierne la mancanza. Tutto questo, però, non è qualche cosa di esterno a me ma è qualche cosa che è già presente nell’Esserci, cioè, ciò che mi manca è qualcosa che già io ho, che ho in quanto presente nel progetto, e solo a questa condizione posso avvertire la mancanza di qualche cosa. Tutto questo era servito a Lacan per mostrare che ciò che apparentemente manca, che non è al suo posto, sia assolutamente presente. Potete pensare a una dimenticanza, a quando si dimentica una parola e non viene in mente: questa parola, che dovrebbe entrare al suo posto, è mancante. Ma è proprio in quanto mancante che diventa così determinante per tutto il resto, perché il fatto che manchi comporta l’avvio di una nuova combinatoria. Pensate alla dimenticanza di Freud nel famoso esempio di Signorelli: il nome Signorelli manca nella catena ma manca in quanto assolutamente presente. Heidegger dice che è soltanto perché è assolutamente presente che io posso coglierne la mancanza, il che sembra una cosa strana ma non tanto, proprio perché questo nome, Signorelli, è in quanto sua mancanza che è così presente e, quindi, così importante all’interno del discorso. Freud su questo ha costruito tutta la sua teoria degli atti mancati: là dove qualcosa manca il mancante è assolutamente presente, presente in quanto assente. A pag. 421. Solo perché in base alla temporalità estatica del prendersi cura… quando parla di temporalità estatica lui parla di gettatezza, in quanto sono gettato c’è un’estasi, uno stare fuori, la gettatezza è estatica, per definizione. Solo perché in base alla temporalità estatica del prendersi cura è scoperto qualcosa che resiste, l’Esserci effettivo può comprendersi nel suo abbandono a un “mondo” di cui non si può mai insignorire. Lui dice perché in base alla temporalità estatica del prendersi cura è scoperto qualcosa che resiste. Soltanto nell’essere gettato, cioè nel progetto, nel prendersi cura di qualcosa, io posso scoprire che qualche cosa resiste, nel senso che resiste alla sua appagatività, cioè, non riesco a dominarlo, c’è qualche cosa che mi sfugge. È per questo, dice che l’Esserci effettivo può comprendersi nel suo abbandono a un “mondo” di cui non si può mai insignorire. Quindi, l’Esserci effettivo si comprende nel suo abbandono a un mondo che non domina, non controlla, perché qualcosa resiste, cioè, c’è almeno un utilizzabile che non è al suo posto, che non funziona, cioè qualche cosa che resiste alla sua appagatività. Il lasciar appagare proprio del prendersi cura, fondato mediante la temporalità, è una comprensione dell’appagatività e della utilizzabilità ancora del tutto preontologica e atematica. … Tanto lo scoprimento dell’ente intramondano proprio della visione ambientale preveggente, quanto quello teoretico, sono fondati nell’essere-nel-mondo. Dunque, il prendersi cura cosa ha a che fare con la temporalità? La temporalità è la gettatezza. Ci aveva mostrato la temporalità come la gettatezza, insieme con l’esser stato ciò sempre è stato e la presentificazione, cioè il presente. Quindi, il prendersi cura è preso da questi tre momenti e, essendo preso in questi tre momenti accade che nella gettatezza, nell’essere gettato, nel prendersi cura di un utilizzabile, all’interno di questo progetto c’è un’idea di appagatività. È soltanto all’interno di questa idea di appagatività, all’interno del mio progetto, che qualcosa può non funzionare. Il che significa che qualcosa funziona o non funziona, è appagato oppure no, non di per sé ma soltanto all’interno del mio progetto. Cosa che ha degli effetti, perché se qualche cosa va storto non è che io considero questo qualcosa che va storto come qualcosa che è fuori di me che mi impedisce. No, questo andare storto va storto soltanto all’interno del mio progetto e non di per sé. È un po' l’esempio che facevo prima, di qualcosa che manca: manca rispetto al mio progetto, non manca di per sé, perché abbiamo visto che all’Esserci non manca nulla. Se per assurdo mancasse qualcosa non potrebbe mancargli perché non c’è, non fa parte del mondo. Quindi, occorre che qualcosa sia nel mondo che io sono, perché possa essere presente oppure mancare. Se qualcosa manca all’interno del mio progetto, cioè mi aspetto qualcosa e questo qualcosa non c’è, allora è fuori posto rispetto al mio progetto, è fuori posto rispetto a una mia fantasia, una fantasia di controllo, di dominio. Questo non lo dice Heidegger, lo sto dicendo io, ma soltanto se voglio dominare qualcosa allora può esserci in questo qualche cosa qualcosa che mi impedisce il dominio, di insignorirmi, direbbe Heidegger. Soltanto all’interno di una volontà di potenza qualcosa può costituire un impedimento, perché sennò è impedimento a che? Impedimento alla appagatività, certo, ma tutto questo, l’appagatività stessa, il progetto, ecc., è mosso da una volontà di potenza. Perché voglio fare un progetto, perché mi trovo a progettare un qualche cosa? Sì, certo, l’Esserci è il progetto stesso ma progetto perché? Perché l’Esserci è progetto? Questo Heidegger non lo dice, semplicemente rileva questa cosa. dice che l’Esserci è prendersi cura, quindi, ciascuno non è altro che gettatezza continua, ma gettatezza verso che cosa e perché? La risposta a questa domanda la si trova, ovviamente, nel funzionamento del linguaggio. È il funzionamento del linguaggio che costringe a questa gettatezza. Come dicevamo la volta scorsa, il significante va sempre verso un altro significante e non può non farlo altrimenti il linguaggio cesserebbe di funzionare. La ricerca continua dell’altro significante rappresenta in qualche modo la volontà di dominare la catena significante, quindi, tutto questo ha un senso per noi più interessante se si intende che tutte queste operazioni sono mosse dalla volontà di potenza. E, allora, qualcosa manca perché io voglio che sia lì, qualche cosa non funziona perché io voglio che funzioni. Ma perché voglio queste cose? Per dominarle, per controllarle. Infatti, dice, all’Esserci in quanto tale non manca nulla, manca quando c’è un progetto rispetto a qualcosa, cioè, manca quando c’è la volontà di potenza. Il progetto è progetto di potenza. Qualunque progetto è un progetto di superpotenziamento. A pag. 422. Passiamo al punto b – Il senso temporale della modificazione del prendersi cura preveggente ambientalmente in scoperta teoretica della semplice-presenza intramondana. Una cosa è prendersi cura del cacciavite, anche questo è un prendersi cura. In questo caso, invece, il prendersi cura è rivolto alla scoperta teoretica, scoperta teoretica della semplice presenza intramondana. Come dire che ciò che si scopre nel mondo come semplice presenza non è in questo caso posto semplicemente come utilizzabile ma posto teoreticamente, cioè la volontà di intendere quali sono le condizioni per cui accade una semplice presenza, per cui, per esempio, accade un cacciavite. Quando nel corso delle analisi ontologico-esistenziali si pone il problema del “sorgere” della scoperta teoretica dal prendersi cura ambientalmente preveggente, non si intende porre il problema ontico della storia e dello sviluppo della scienza, delle sue cause di fatto e dei suoi fini più immediati. Ponendo il problema della genesi ontologica del comportamento teoretico noi domandiamo: quali sono le condizioni esistenzialmente necessarie e costitutive dell’essere dell’Esserci, della possibilità che l’Esserci esista nel mondo della ricerca scientifica? La domanda è: quali sono le condizioni necessarie perché l’Esserci esista nel mondo della ricerca scientifica? Cosa vuole dire questo? La ricerca scientifica la si può intendere anche come ricerca teoretica, che punta alle condizioni di esistenza di qualche cosa. Qui dice delle cose interessanti sulla scienza, dice La posizione di questo problema mira a un concetto esistenziale della scienza. Un concetto esistenziale della scienza, cioè un concetto che riguarda la scienza ma quella che appartiene all’Esserci, non della scienza in quanto tale. Questo concetto va distinto dal concetto “logico” che considera la scienza nei suoi risultati e che la determina come “un complesso fondato di proposizioni vere, cioè valide”. Il concetto esistenziale intende la scienza come una modalità dell’esistenza e quindi come un modo di essere-nel-mondo tale da scoprire o aprire l’ente o l’essere. Non vuole considerare la scienza come complesso fondato di proposizioni vere, cioè valide, ma, dice lui, come un modo di essere nel mondo. Semplicemente così: la scienza è un modo di essere nel mondo. Tutto qui. Un’interpretazione esistenziale adeguata della scienza è possibile tuttavia solo se sono stati chiariti, a partire dalla temporalità dell’esistenza, il senso dell’essere e la “connessione” fra essere e verità. Se la scienza è un modo di essere allora, dice, bisogna partire dalla temporalità dell’esistenza, cioè dal modo in cui si esiste, e si esiste nella gettatezza, nell’essere stato e nella presenza. Dice che occorre chiarire il senso dell’essere e la “connessione” fra esser e verità, perché la scienza si occupa di questo, della connessione fra ciò che è e ciò che è vero. Se poniamo la scienza come un modo di essere, di qualcuno, per esempio uno scienziato, questo suo modo di essere ci interroga rispetto alla connessione, se vogliamo essere in questo modo di essere, tra l’essere e la verità, perché è questo che facciamo in quanto uomini di scienza. A pag. 423. Sembra ovvio considerare “pratici” il manipolare e l’usare ambientali e definire la loro trasformazione in investigazione “teoretica” nel modo seguente: la semplice osservazione dell’ente sorge con l’astensione del prendersi cura da ogni manipolazione. Questo è chiaro, no? Bisogna astenersi dal prendersi cura, cioè osservare l’oggetto per quello che è. L’elemento decisivo del “sorgere” del comportamento teoretico sarebbe allora il venir meno della prassi. Cioè, di tutto ciò che riguarda la pratica, il praticare, il manipolare le cose. E, infatti, si parla di teoretico e non di pratico. Lo scienziato punta alla invenzione di una teoria, non alla manipolazione di qualcosa. Questa sarebbe poi l’applicazione della scienza, eventualmente. Solo se si assume come modo di essere primario e predominante dell’Esserci effettivo il prendersi cura “pratico” risulterà che la “teoria” debba la sua possibilità ontologica alla mancanza della prassi, cioè a una privazione. Dice che se poniamo come primario, come più importante, rispetto all’Esserci, il prendersi cura pratico di qualche cosa, cioè il manipolare qualche cosa, allora la scienza, in quanto teoretica, sarà determinata, definita, dalla mancanza di qualche cosa, cioè della prassi, della pratica, del fare qualche cosa. Sennonché, la sospensione di una manipolazione specifica del commercio prendentesi cura non lascia indietro la visione ambientale preveggente che la guida come un semplice residuo. Sospendo la prassi, la manipolazione, e faccio tutto con la testa, Heidegger dice che questo non cancella la visione preveggente, cioè la mia storicità, non la cancella, è sempre lì. Succede piuttosto che il prendersi cura prenda la forma esplicita di un ero guardarsi-attorno. Ma con ciò non si è ancora assunto per nulla l’atteggiamento “teoretico” della scienza. Al contrario, l’arresto della manipolazione può assumere il carattere di una più approfondita visione ambientale preveggente, sotto forma di “verifica” o di esame minuzioso di ciò che è stato raggiunto, oppure sotto forma di colpo d’occhio sull’“attività momentaneamente sospesa”. La sospensione dell’uso dei mezzi è così poco di già “teoria” che la visione ambientale arrestatasi e “considerante” resta del tutto imprigionata nel mezzo utilizzabile di cui si prende cura. Lo scienziato vuole fare piazza pulita della prassi, della manipolazione, a vantaggio unicamente della teoria, ma questo fare teorico, dice Heidegger, rimane imprigionato dall’utilizzabile di cui la scienza si prende cura, perché ovviamente la scienza è scienza di qualche cosa. Questo qualche cosa, di cui la scienza si prende cura, è ciò che imprigiona lo scienziato, che non riesce pertanto a sbarazzarsi di tutto ciò che lui è, del suo mondo. La scienza non può sbarazzarsi di tutto il mondo di cui è fatta. Il che ci riporta a delle considerazioni di Husserl, dove parla della Lebenswelt. Abbiamo detto altre volte che tutto il lavoro dello scienziato, anche quello più sofisticato, più astratto, non potrebbe darsi senza la chiacchiera, senza la deiezione, senza il luogo comune, da cui necessariamente muove per potere fare qualunque cosa. È in questo senso che potremmo intendere che l’oggetto di cui si occupa la scienza imprigiona questo tentativo di un guardarsi attorno puro e semplice. Non è mai così perché questo oggetto di cui si occupa ha un valore per la scienza, ha un valore per una serie di circostanze, particolari o generali, ma questo valore che ha da dove viene? Non dalla ricerca scientifica, viene dalla chiacchera, viene dal mondo della vita, dalla Lebenswelt, direbbe Husserl. E questo è un altro modo per intendere come qualunque progetto, che quello scientifico, anche se apparentemente sembra più lontano dalla prassi, dalla manipolazione, è comunque sempre e inesorabilmente imprigionato nel mezzo utilizzato di cui si prende cura.

Intervento: La teoria Zen… fare il vuoto.

In effetti, sarebbe proprio questo, cioè togliere tutta la visione ambientale preveggente, cioè la Lebenswelt, il mondo della vita, sbarazzarsi di tutto questo e avere l’accesso diretto alla cosa, che può anche essere un pensiero, può essere qualunque cosa. L’intendimento è sempre quello di avere questo accesso puro, diretto, alla cosa. Heidegger continua a dirci in tutte le sue pagine che questo non c’è, ed è questo che ha sconvolto la filosofia tanto che dopo Heidegger la filosofia non è più stata la stessa, non è più stato possibile pensare allo stesso modo. E cioè il fatto che qualunque cosa io faccia o non faccia, pensi o non pensi, comunque questa cosa è imprigionata nella mia storicità, nella mia visione ambientale preveggente, cioè il modo in cui, in questo momento, data la mia storicità, vedo le cose, e che quindi qualunque progetto, anche teorico, è sempre un progetto che non può non tenere conto di me che sto progettando. L’idea invece, prima di Heidegger, era che fosse possibile costruire un progetto che fosse indipendente da me che lo progetto, che potesse giungere a qualche cosa che non ha più nulla a che fare con me. Heidegger continua a dire che questo non è possibile perché, per lui, l’essere non è qualche cosa che garantisce un ente ma è la gettatezza, il prendersi cura di qualche cosa. Per lui l’umano, cioè l’Esserci, è sempre un essere in vista di. Questo è il concetto di gettatezza: essere sempre in vista di, sempre, comunque. L’essere in vista di, tiene conto, e non può tenerne conto, dell’essere già stato, dell’essere già sempre questo essere in vista di. In vista di qualche cosa, di ciò che è presente, di un qualche utilizzabile, di un che qualunque, può essere una cosa, un’idea, un pensiero. Qui dice alcune cose interessanti sulla scienza. E allo stesso modo che la prassi ha una sua specifica visione (“teoria”), così l’indagine teoretica non è priva di una sua propria prassi. La rilevazione degli indici numerici che costituiscono il risultato di un esperimento richiede sovente una complessa organizzazione “tecnica” del progetto sperimentale. L’osservazione al microscopio dipende dall’approntamento di “preparati”. Lo scavo archeologico che precede l’interpretazione dei “reperti” richiede imponenti manipolazioni. Ma anche la più “astratta” elaborazione di problemi o determinazioni di risultati richiede ad esempio l’impiego di mezzi per scrivere. Per poco “interessanti” e ovvie che possano apparire, queste componenti dell’indagine scientifica non sono affatto irrilevanti ontologicamente. Perché sono quelle che la supportano, che la fanno esistere. Tutte queste cose che lui ha elencate adesso sono quelle cose che Husserl chiamava Lebenswelt, il mondo della vita, ed è un altro modo ancora per affrontare la questione della scienza come qualche cosa che sorge dalla tecnica. Senza tecnica non c’è scienza, in nessun modo. La scienza ha sempre avuto bisogno di uno strumento. Noi sappiamo anche quale, lo strumento per eccellenza: il linguaggio.