13 novembre 2024
Pierre Hadot Il velo di Iside
A pag. 283. …la volontà di gioia e di superficialità emana anch’essa da un sapere, da quello che Nietzsche chiama un sapere della profondità, un sapere di quello che è il vero fondo delle cose, e cioè, a conti fatti, da una volontà di verità, che fonda il pessimismo stesso. “Gli uomini della profondità” sono altrettanto pessimisti. Perché pessimisti? Perché guardando dentro la profondità non vedono nulla. Da qui il pessimismo: io ho guardato bene, con attenzione, ma non ho visto niente. A pag. 284. Cita Nietzsche dai Frammenti postumi. “Sembra che siamo giocondi perché siamo immensamente tristi. Noi (filosofi) siamo seri, conosciamo l’abisso, e per questo ci discendiamo da ogni serietà”. Chi conosce l’abisso, chi l’ha visto, sa come stanno le cose, sa che al fondo non c’è fondo, e, quindi, gli viene la tristezza, la malinconia. A pag. 285. Questa adorazione dell’apparenza e questa gioia sono dunque indissolubilmente legate alla conoscenza terribile della Verità, il cui alito freddo dà i brividi. Qui cita Nietzsche da Al di là del bene e del male. Chi ha guardato il mondo in profondità indovina quale saggezza ci sia nel fatto che gli uomini sono superficiali. È l’istinto di conservazione che insegna loro a essere volubili, leggeri e falsi. Perché, se fossero profondi, guarderebbero dentro l’abisso e si accorgerebbero che questo abisso non c’è. La creazione degli dei è una creazione artistica, che si abbevera, secondo Nietzsche, alle fonti istintuali dell’arte. La Verità e l’illusione che permette di vivere sono inseparabili. Dunque, Hadot ci dice qui che la fortuna degli umani è nell’essere superficiali perché, se guardassero dentro l’abisso, troverebbero la gelida verità. Quindi, ecco che si salvano essendo superficiali, essendo giocherelloni. A pag. 286. Nella prefazione alla Gaia scienza, tuttavia, Nietzsche sembra riferirsi soprattutto al poema di Schiller, di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, L’immagine velata di Sais. Il poema mette in scena un giovane divorato dal desiderio di svelare la statua di Iside, dopo che lo ierofante gli ha detto che è la Verità stessa a nascondersi sotto il velo della dea. C’è sempre la verità che interviene, una verità epistemica. Ecco perché non si trova questa verità al fondo dell’abisso: perché non è mai esistita, perché l’abbiamo inventata noi. Almeno Parmenide non è andato a togliere il velo alla dea, lui le parlava direttamente. Costui penetra di notte nel tempio e decide di strappare via il velo, per poi morire di tristezza, senza rivelare nulla di ciò che ha visto. Charles Andler, a proposito di questa presenza di Schiller in Nietzsche, cita la fine di Cassandra, dello stesso Schiller: “L’errore e la vita. E il sapere è la morte”. Solo che il pessimismo di Schiller, a differenza di quello nietzschiano, è un pessimismo idealista, che trova rifugio nell’Ideale e nella rinuncia alla vita. Comunque stiano le cose, quel che è certo è che Nietzsche fa proprio l’atteggiamento di quanti, come Rousseau e Goethe, rifiutano di strappare il velo alla dea. Si dovrebbe onorare maggiormente il pudore con cui la natura si è nascosta sotto enigmi e variopinte incertezze. La natura ama nascondersi. Ora, qui si può porre una questione interessante. La natura ama nascondersi, così recita la traduzione secondo Hadot, traduzione neoplatonica del famoso frammento di Eraclito. φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ. Ma questo nascondimento è proprio un nascondimento? Prendete la parola greca ἀλήθεια, sulla quale Heidegger ha molto lavorato. C’è l’alpha privativa, quindi, non nascosta. Ma nell’ἀλήθεια questo non nascondimento è esattamente ciò che appare, cioè, è il non nascondimento che appare… anche se potrebbe apparire ovvio. Forse, si intende bene la cosa se la si riferisce a ciò che diceva de Saussure rispetto al segno: significante / significato. Nel segno che cosa è nascosto, cioè, che cosa non appare, cosa trascende? C’è il sensibile, il significante; infatti, lo chiama l’immagine acustica, immagine perché è quella, io sento un suono, se dico libro sento questo suono come un’immagine chiusa; l’immagine acustica è il sensibile. Questo significante non esiste senza un significato, perché altrimenti non significherebbe nulla, ma il significato non si percepisce, non è sensibile, è trascendente, trascende il significante; purtuttavia c’è perché, se non ci fosse non ci sarebbe nemmeno il significante. Ora, che cosa dice l’ἀλήθεια? Forse, questa questione è stata presente fin da sempre, addirittura nel greco preomerico. Si è sempre saputo che nel dire, nella parola, c’è qualcosa che è “nascosto”, sempre tra virgolette, ma che di fatto si mostra: è nascosto ma si mostra. ‘Aλήθεια dice anche questo, che è nascosto ma si mostra, ed è proprio nel suo mostrarsi… non è che esce dal nascondimento, perché questa alpha privativa significa semplicemente “non”, non-nascosto, non dice che esce dal nascondimento, questo ce lo aggiungiamo noi dopo, né entra né esce. È il non-nascosto, semplicemente, cioè, appare. Ma, tuttavia, c’è la parola λήθε, che indica appunto il qualche cosa che è in ombra, che non si vede, significa tante cose, poi. Ecco, ἀλήθεια è non questo, è l’apparire di qualche cosa, ma nel suo apparire fa apparire qualcosa che al tempo stesso non appare: non appare ma appare. Esattamente come il significante e il significato: il significato non appare, non è il sensibile, non lo tocco, non lo vedo.
Intervento: Però, nel momento in cui mostro il significato diventa un significante.
Esattamente. In effetti, non posso mostrare il significato perché, mostrandolo, mostro significanti perché, se dico il significato dico significanti, ciascuno dei quali, a sua volta, ha altri significati. Quindi, nella parola greca ἀλήθεια, così verrebbe da pensare, c’è tutta la questione del linguaggio. Heidegger non aveva torto a dire che tutto l’Occidente si è potuto costruire, così come si è costruito, sulla dimenticanza della parola greca ἀλήθεια. In un certo senso, sì, ma forse è più addirittura di quanto lui immaginava che fosse, perché l’ἀλήθεια è la prerogativa, la peculiarità, la particolarità del segno, che è linguistico, ovviamente. Il segno è fatto del λέγειν e del τί, il dire qualcosa. Non esiste il λέγειν senza il τί. Non esiste il significante senza il significato: se dico dico qualcosa, e questo qualcosa è il significato di ciò che dico, del mio dire. Quindi, ἀλήθεια è effettivamente il fondamento stesso del linguaggio. Qualcosa si mostra, ma mostrandosi mostra anche ciò che non si mostra. Che cosa non si mostra? il significato, che non si mostra nel senso che non è sensibile, non lo posso vedere, toccare. Ma di che cosa è fatto questo significato? Non è altro che un rinvio. Come dire, allora, che il significante è tale in quanto rinvia ad altro, κατά τίνός. Il significato è questo stesso rinvio, nel senso che il significante, dicendosi, rinvia a un significato, naturalmente, il quale significato non è altro che questo rinvio a qualche cos’altro, è sempre un rinviare a qualche cosa, un connettersi con qualche cosa. È questo che verrebbe da pensare, che ha interrogato e dato da pensare da millenni gli umani: come è possibile che in ciò che appare ci sia qualcosa che non appare? Ma che le due cose si co-appartengano. È la questione dell’uno e dei molti: l’uno è lì, lo vedo, ma i molti? Magari, sì, vedo anche i molti, ma sono appunto molti, quindi non li vedo tutti; quindi, è come se non li vedessi; ci sono ma non li posso determinare. E qui sembra proprio il cuore di tutto il pensiero occidentale, nella parola ἀλήθεια: qualcosa che appare e che, apparendo, mostra ciò che non appare. Tutti si sono dati un gran da fare su questa cosa, lo stesso Heidegger, l’essere e l’ente, la sua famosa differenza ontologica: l’essere non appare ma è la condizione dell’ente. È il famoso Lichtung, il raggio di sole che illumina la cosa e allora la vedo. Questo Lichtung è l’essere, è lui che illumina la cosa, che illumina l’ente, che lo fa vedere. Ma non è l’ente; tuttavia, senza questo essere non c’è neanche l’ente. A Heidegger è sfuggito il fatto che si co-appartengano. In fondo, in lui, proprio perché pone la differenza ontologica tra essere ed ente, comunque, queste due cose rimangono separate. È l’essere che mostra l’ente; quindi, l’essere è altro dall’ente. Sì e no. Sì, perché li distinguo; no, perché si coappartengono, non posso separare uno dall’altro, in nessun modo. Questo l’aveva intuito tempo fa anche Sini, e cioè che Heidegger, parlando di essere ed ente, in realtà parlava di qualcosa che si intende molto meglio se viene riferita a significante e significato: l’ente come significante e l’essere come significato. Ecco perché l’ἀλήθεια è così importante, ha ragione Heidegger a dedicarci tutto il tempo, perché è veramente il cuore di tutto il pensiero occidentale, ciò che ha dato da pensare per millenni. Ha anche ragione quando dice che tutto il pensiero occidentale, di fatto, ha confuso l’essere con l’ente, in quanto parlava dell’essere, ma, in realtà, parlava dell’ente. Poi, con Plotino la questione si è posta in termini molto precisi e determinati. L’uno è ciò che non si vede, sarebbe l’essere. Questa cosa che non si vede, che non si può dire, ecc., è la condizione di qualunque altra cosa. L’uno poi diventa Dio. È sempre la questione dell’ἀλήθεια, cioè, il significato, l’essere che fa apparire l’ente per quello che è; senza significato non c’è significante, senza Dio non c’è il creato, è la stessa cosa. Anche l’idea poi arrivata, come dice qui Hadot, con il Rinascimento e arrivata fino a noi, di qualche cosa che è nascosto dietro, su cui si è costruita l’ermeneutica, da dove viene, in fondo? Viene dal concetto di ἀλήθεια, cioè, qualunque parola comporta qualcosa che non appare, qualunque apparire è anche non apparire. Ciò che appare sono gli astratti; ciò che non appare è il concreto, non appare mai, appaiono solo gli astratti, cioè, gli enti. Dunque, questa idea di qualche cosa che è nascosto dietro, che è da trovare. Solo che tutto il pensiero occidentale ha immaginato questa cosa come un velo da squarciare per arrivare alla verità, oppure un velo da mantenere perché, se si vede la verità, succede il finimondo. Tutto questo per dire, in effetti, una cosa straordinariamente semplice, e cioè la co-appartenenza di uno e molti: c’è una co-appartenenza, nel senso che non può darsi l’una cosa senza l’altra, sta qui ciò che appare e ciò che non appare. In che senso possiamo dire che appare? Rispetto a ciò che non appare, rispetto ai molti. L’apparire di qualche cosa è sempre connesso con il non apparire di qualche cos’altro; così come il finito è sempre connesso con l’infinito. Quindi, ecco l’ἀλήθεια, che mostra la co-appartenenza dell’apparire e del non apparire. Non importa cosa appare e cosa non appare, ciò che importa è che ci sia l’apparire, e se c’è l’apparire c’è il non apparire. Ecco che cosa esce dall’oscurità: è ciò che non appare che a un certo punto compare, ma, comparendo, veicola di nuovo con sé ciò che non appare. Esattamente come il significante, che ha un significato, ma se dico questo significato non posso che dire significanti, i quali significanti, ciascuno di loro, si portano appresso una serie infinita di significati. Ecco che a questo punto il concetto di ἀλήθεια diventa anche più facilmente comprensibile. ‘Aλήθεια: co-appartenenza di uno e molti. L’ἀλήθεια è la co-appartenenza. Potremmo anche dire che è una relazione, certo, una relazione nell’accezione di come la intende Aristotele. ‘Aλήθεια è questo: la relazione, la co-appartenenza tra un elemento e ciò che quell’elemento non è, cioè, il suo contrario; fino ad arrivare a Hegel, il negativo, l’antitesi A questo punto, inteso meglio ciò che l’ἀλήθεια propone, andiamo avanti. A pag. 287, citazione da Nietzsche, La gaia scienza. Rispetta il mistero, Che i tuoi occhi non si facciano prendere dalla brama, La Natura-Sfinge, cosa mostruosa, Ti terrorizzerà coi suoi innumerevoli seni. Rispetta il mistero, non indagare. Non indagare che cosa? A questo punto possiamo dire: non indagare l’ἀλήθεια perché è ciò che dà da pensare agli ingenui, all’abisso, al terrore, all’angoscia, a tutte queste belle storie. Ma l’ἀλήθεια non è niente di tutto ciò, l’ἀλήθεια è la co-appartenenza di un elemento e il suo contrario. Ora, vi ricordate dei due atteggiamenti, prometeico e orfico. Prometeo è quello che straccia il velo perché vuole la verità vera; Orfeo, invece, dice “È meglio lasciarlo lì, non sappiamo cosa c’è sotto, meglio non indagare”. A pag. 289. Si potrebbe quasi dire che l’atteggiamento orfico è qui decisamente contrapposto a quello prometeico. In ogni caso Nietzsche rimane sempre fedele alla sua intuizione di fondo: la verità è inseparabile dai suoi veli; così come l’apparenza, le forme, l’illusione vitale sono inseparabili dalla verità. “La verità è tale solo per il non-vero che la vela”. Nell’ottica della metafora della Natura-Sfinge, non svelare la Natura significa lasciare che il busto della giovane donna, simbolo di bellezza e arte, nasconda la bestia feroce e terribile, simbolo della Verità. Non c’è nessuna bestia dietro, c’è una co-appartenenza dell’uno e dei molti. A pag. 293. A proposito di Baubo… È il nome di un tremendo demone notturno. …va comunque ammesso che Nietzsche, più di ogni altro, insiste sull’aspetto sessuale implicito nella metafora del velo di Iside. Ne parlava anche Freud, non di Iside ma di uno strappare il velo e togliere la verginità. Bisognerebbe analizzare le cause e le conseguenze psicologiche di queste rappresentazioni. Ma, come ho già detto all’inizio del libro, non essendo né psichiatra né psicanalista, non mi sento abbastanza qualificato per abbozzare un’analisi del genere ed esistono del resto già importanti studi su questo argomento. Mi limito, dunque, a dare solo qualche indicazione su un’eventuale ricerca di questo tipo. Tradizionalmente si è assimilata spesso la conoscenza allo svelamento di un corpo femminile dal suo possesso sessuale. La conoscenza come stupro, in fondo. In L’essere e il nulla, Jean Paul Sartre ha descritto queste rappresentazioni, cioè queste metafore, raccogliendole sotto l’etichetta di “complesso di Atteone”. Per lui, la vista è godimento, e vedere significa deflorare. C’è, poi, una citazione di Sartre. E del resto, la conoscenza è una caccia. Bacone la chiama la caccia di Pan. Lo scienziato è il cacciatore che coglie di sorpresa una nudità bianca e la viola col suo sguardo. A pag. 297. A partire dalla fine del Settecento, non soltanto la ricerca dei segreti della natura è sostituita da un’esperienza affettiva di angoscia o meraviglia davanti all’indicibile, ma per la tradizione filosofica che va dall’epoca romantica fino ai giorni nostri la nozione stessa di segreto della natura è sostituita da quella di mistero dell’essere o dell’esistenza. Mistero dell’esistenza: perché esistiamo? Risposta: perché parliamo, e questo ci consente di costruire, di inventarci la nozione di esistenza. A pag. 298. Si passa qui dalla natura che si nasconde all’essere che si ritira e rinchiude in sé. Questa negazione originaria, scrive Schelling, è “madre e custode di tutte le cose visibili”, e se ne possono osservare in seguito gli effetti nei fenomeni di avviluppamento, nello spazio e nei corpi. Se la natura si nasconde, è perché essa nel suo fondamento “proviene dal principio cieco, oscuro, inesprimibile di Dio”. C’è Dio che si nasconde, è il Deus absconditus di Cusano, teologia apofatica, negativa, ciò che Dio non è. Che cosa Dio non è? Non è un posacenere, non è una matita, e così si va avanti fino a che si esaurisce la lista. “La natura ama nascondersi” significa in questa prospettiva: “L’Essere è originariamente in uno stato di contrazione e non-dispiegamento”. La nozione di Natura presenta d’altronde in Schelling qualche ambiguità, giacché, come nella frase appena citata, sembra far riferimento alla natura “fisica”, ma sembra far riferimento pure a quella che Vladimir Jankélévitch chiama “la Natura teosofica in cui Schelling intravede la divinità occulta di Dio. Dietro il velo c’è Dio e, quindi, la verità epistemica. Questa è la fantasia: la verità epistemica che è nascosta nella donna. Da qui tutta una serie di superstizioni, connesse con la donna, di fantasie, tutte innescate dal neoplatonismo, quando il neoplatonismo ha già dato alla donna importanza, quella importanza che prima, con i presocratici, non aveva, attraverso la questione sessuale. Andiamo avanti. A pag. 300. Nel mondo contemporaneo, non si parla più di segreti della natura, e Iside se ne è andata, con il suo velo, nel paese dei sogni. Ma l’aforisma di Eraclito è sempre vivo e continua a stimolare la riflessione. Heidegger riattualizza l’aforisma di Eraclito. Egli identifica la physis di Eraclito con ciò che chiama Essere e propone diverse traduzioni, abbastanza difformi ma convergenti, del suo aforisma: “L’essere ama velarsi”, “Allo svelarsi appartiene un velarsi”, “L’essere (l’apparire schiudentesi) inclina di per sé all’autonascondimento”, “Il velarsi appartiene alla predilezione dell’Essere”. Oppure le due formule citate da Alain Renaut: “L’Essere si sottrae mostrandosi nell’essente in quanto tale” e “L’Essere si ritrae schiudendosi nell’essente. In effetti, ci si avvicina, ci si accorge di qualche cosa, ma non arriva mai a porre l’ἀλήθεια come la co-appartenenza. A pag. 303. È però tipico dell’uomo, dimenticare l’essere. Per vivere, l’uomo deve interessarsi degli essenti. Ipnotizzato dalla cura per le cose, che considera come bell’e fatte, l’uomo non può prestare attenzione al loro schiudersi, al loro sorgere, alla loro physis, alla loro natura nel senso etimologico del termine. Come sottolinea Jean Wahl: “Questo atto (= l’oblio dell’essere a favore dell’essente) in qualche modo ci costituisce, noi che lo compiamo sempre, noi uomini, il cui destino è appunto quello di compiere quest’atto. Noi stiamo sempre agli assassini dell’essere”. Potremmo dire dell’Essere di Heidegger ciò che Potino diceva dell’Uno: “Non è assente da nulla, eppure è assente da tutto, sicché, presente, non è però mai presente, se non per quanto sono in grado di accoglierlo”. A pag. 304. Heidegger ha ragione a interpretare così l’aforisma Eraclito? Ha di sicuro ha ragione intendere La physis come uno schiudersi, come un far apparire. E ha ragione pure a scorgere nell’aforisma la cifra del metodo di Eraclito, che consiste nel cercare sempre di cogliere l’identità dai contrari. Non è proprio identità dai contrari ma la co-appartenenza dei contrari. Parlare di identità già presuppone altre cose. Non penso che però Eraclito avrebbe potuto concepire l’Essere come uno schiudersi, un far apparire, non penso, cioè, che l’avrebbe identificato con la physis. Ma queste sono sue opinioni. Qui c’è una citazione da Waelhens. Ciò che ci spaventa dinanzi a questo mondo, cui noi siamo abbandonati senza difesa e senza riparo, è il fatto bruto, nudo, inesorabile e insormontabile del nostro essere-nel-mondo. Ciò che mi fa indietreggiare per l’angoscia è questa esteriorità nella quale sono immerso per intraprendervi la mia carriera di esistente, senza averlo voluto e senza poterne fermare il decorso. L’angoscia scaturisce della nostra condizione e la rivela. Essa è il sentimento autentico della situazione originaria. Cioè, l’angoscia è la situazione autentica; come dire, se qualcuno è autentico è necessariamente angosciato, perché si rende conto dell’assenza della verità epistemica. A pag. 307. Wittgenstein, alla fine del Trattato logico-philosophicus, parla anch’egli dell’esistenza dell’esserci nel mondo. Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è (6.44). È questa domanda: perché c’è qualcosa anziché nulla? Era la domanda di Leibniz. Il “come è il mondo” è l’intreccio dei fatti interni al mondo, che è oggetto della scienza, qualcosa che può dunque diventare oggetto di un linguaggio sensato, qualcosa che è “dicibile”. “Che il mondo sia” corrisponde invece all’esistenza del mondo, ossia a qualcosa che per Wittgenstein è ineffabile e può essere soltanto mostrato. È così, infatti, che egli definisce “il mistico”. “V’è davvero dell’ineffabile. Esso mostra sé, è il mistico” (6.522). Si mostra, ma ciò che mostra non è dicibile, rimane ineffabile, perché non ci sarebbero le parole? A pag. 308. Merleau-Ponty diceva, come visto, che il mondo non può diventare un problema soggetto a soluzione. E Wittgenstein si situa nella nostra prospettiva: l’impossibilità della risposta sopprime la possibilità della domanda. Sembrano tutti modi, in effetti, del disagio che si prova di fronte all’ἀλήθεια alla co-appartenenza. Perché è la co-appartenenza che rende impossibile la verità sistemica, la co-appartenenza dell’universale e del particolare. Non c’è un universale senza particolari, e viceversa, si co-appartengono, non c’è mai una separazione. Questa separazione c’è nel discorso religioso. Nella sua totalità, il mondo è inesplicabile e Wittgenstein rimprovera alla scienza moderna di voler dare l’impressione di spiegare tutto, laddove non è affatto così. Noi non possiamo infatti uscire dal mondo per trattarlo con un oggetto di studio. Stiamo nel mondo così come stiamo nel linguaggio. Per Merleau-Ponty il mondo è un mistero insolubile ed egli ne trae la conclusione che “la filosofia consiste nell’imparare daccapo a vedere il mondo”. Un mistero insolubile. Nessuno si si è mai soffermato sul fatto che questo mistero insolubile lo abbiamo inventato noi; che sarebbe già interessante da porre come questione su cui riflettere, cioè: io invento il mistero e poi dico che il mistero è insolubile. Perché non è esiste in natura, non c’è nessun mistero, da nessuna parte. C’è ἀλήθεια, cioè, la co-appartenenza di ciascun elemento - ma questo è il linguaggio - con il suo negativo. Come ha rilevato Hegel: tesi e antitesi, e poi la co-appartenenza, la sintesi. Interessante è la chiusura che fa a pag. 310. Ho abbozzato questo paragone tra due filosofi radicalmente diversi, come sono Merleau-Ponty e Wittgenstein, solo per far intravedere una certa tendenza generale della filosofia del Novecento, che rinuncia a spiegazioni astratte dell’esistenza del mondo, aprendosi invece all’eventualità di un’esperienza del mistero dell’esistenza nel mondo e di un contatto vissuto con l’inesplicabile insorgenza della realtà, con la physis, nel senso originale della parola. E qui siamo tornati a Plotino: è inutile cercare, perché l’Uno non è determinabile, puoi soltanto aprirti e avere esperienza dell’Uno. E, quindi, siamo tornati proprio a Plotino, alla fine del Novecento siamo tornati a Plotino. Se la scienza non può rispondere a tutte le domande, allora non ci resta che la contemplazione dell’Uno. Bene, finito questo, riprendiamo, ma ormai lo riprenderemo mercoledì prossimo, Filone di Alessandria, con tutti i suoi problemi. Anche lui deve ricondurre l’uno ai molti. Per esempio, la domanda che si fa se Dio sia immobile o mobile, si muove oppure no. Se è immobile, cioè, è uno, allora come è accaduto che a un certo punto sono sorte le cose? Domanda alla quale Plotino risponde.