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13 novembre 2019

 

La fenomenologia dello spirito di Hegel di M. Heidegger

 

Siamo al Capitolo terzo, Forza e intelletto. È un bel capitolo perché qui Heidegger ci dice in modo molto chiaro qual è l’essenza della Fenomenologia dello spirito di Hegel. La modalità del sapere assolvente è la mediazione speculativa. Questa, in quanto per così dire riferita in modo determinante al medio che media, è allo stesso tempo già tale da giungere a un che da mediare, nella cui direzione il mediato viene mediato. Nel realizzare la mediazione che si colloca di volta in volta nel non mediato, si ritrova dunque, attraverso il medio, prima di tutto ciò verso cui si media. Questo ritrovato tramite la mediazione è in quanto tale la verità speculativa. Il mediato è il vero ottenuto autenticamente nel sapere speculativo, il ritrovato in modo vero cui appartiene in senso proprio la mediazione stessa. Qui c’è tutto. La mediazione è la relazione, la relazione tra due elementi. I due momenti sono il singolare e l’universale, l’uno e i molti (gli Anche). Ora, è questa relazione che importa, è lei che tiene uniti questi due elementi, è la relazione che consente sia all’uno sia ai molti di esistere. È questo che sta dicendo, è questa la verità: questo movimento per cui un elemento si pone, il suo contrapposto viene tolto, sollevato, per cui il primo elemento diventa al tempo stesso quello che è, ma anche l’altro, non più sé. A pag. 151. …”concetto” non è qui semplicemente la grezza rappresentazione della logica tradizionale: l’opinare di un universale (il genere) in rapporto al molto Singolo, bensì: assoluto autoconcepirsi del sapere, che Hegel anche in seguito designa come vita. Così anche il più tardo concetto del concetto è in sostanza “logico”, ma logico in modo assoluto. Comprendere qualcosa dell’essenza di Dio significa comprendere il logico veritiero del Logos e viceversa. Qui incomincia a porsi la questione della conoscenza. In effetti, per conoscere il vero occorre conoscere il medio, questa cosa che poi lui chiamerà forza, usando anche la parola greca νέργεια. Ora, la questione che a noi interessa è che questo medio – questa forza, questo atto – è l’atto di parola. È l’atto di parola che è l’intero, che media, nel senso che unisce, tiene insieme i due elementi, cioè il singolare e l’universale, il dire e ciò che si è detto. Prosegue a pag. 152. La direzione del nostro percorso, che deve incontrarsi con quello hegeliano, è indicata in Essere e tempo, cioè, in negativo: tempo – non λόγος. Vi si è voluto leggere che io intendessi espellere il logico dalla filosofia e sbarazzarmene; si è ora soliti parlare della mia filosofia come di una “mistica”. Qui fa una critica a quelli che lo criticano. Poco più avanti. È significativo, a riguardo del fatto che ancora oggi non si avverte l’intima necessità di questa domanda fondamentale della filosofia, l’uso che oggi si fa della parola “ontologia”. Secondo questo uso, che è stato introdotto in parte nel secolo XIX e poi dall’odierna fenomenologia, e diffuso soprattutto da Nicolai Hartmann, “ontologico” indica un atteggiamento che fa valere l’ente in se stesso in quanto indipendente per definizione da ogni soggetto, vuol dire dunque lo stesso che reale. Se si intendono così i termini “ontologia” e “ontologico”, essi sono allora oggi ancora meno passibili di costituire il titolo per un problema reale di quanto non lo fossero nella metafisica tradizionale… Potremmo dire che con ontologico si intende qualche cosa che è fuori dal linguaggio. A pag. 153. L’espressione “onto-teo-logia” deve indicarci l’orientamento più centrale del problema dell’essere, non il nesso con una disciplina chiamata “teologia”. Il logico è teologico, e questo λόγος teo-logico è il λόγος dell’ν (dell’ente), dove “logico” significa allo steso tempo: dialettico-speculativo, procedendo nella sequenza triadica delle fasi della mediazione. Tesi, antitesi e sintesi. La questione della teologia la riprende da Aristotele. Aristotele indica con θεός l’assoluto, ed è per questo che a Hegel interessa la questione. L’assoluto era chiamato dio, lo chiamavano così, ma non ha propriamente a che fare con la teologia comunemente intesa. A pag. 154. “La scienza” significa per Hegel il conoscere e sapere assoluto, e la scienza è solo, in quanto sapere assoluto, nel e in quanto sistema. Il sistema ha due parti, e per l’esattezza: esso si divide e si presenta in due elaborazioni. La prima è la scienza della fenomenologia dello spirito, ed essa ha per oggetto la conoscenza dialettica speculativa: il sapere. La seconda è la scienza della logica, anch’essa espone questo sapere assoluto in ciò che per esso costituisce l’intero di quelle determinatezze nelle quali ciò che di volta in volta si sa speculativamente deve venir saputo già da prima -detto superficialmente: il contenuto categoriale del saputo in ciò che è passibile d’esser saputo assolutamente. Ma entrambi, le modalità del sapere assoluto e il Come di ciò che è saputo in esse, non sono separati, ma un uno e medesimo in quanto coappartenentisi. Questo unico intero, il sapere assoluto, è oggetto della conoscenza speculativa. Vale a dire: questo oggetto non si contrappone alla conoscenza speculativa come un che di secondo, ma è questa stessa, l’autocoscienza assoluta, lo spirito. Potremmo dire che è la conoscenza della parola o, più propriamente, la conoscenza è il non potere più non sapere della parola; quindi, del fatto che la parola è l’intero, è il tutto. A pag. 155. La mediazione speculativa della certezza sensibile e della percezione produce la prima verità speculativa della fenomenologia,… La verità speculativa, cioè, viene dal pensiero. …cioè la conoscenza assolvente del sapere qua coscienza. Cioè: sapere in quanto coscienza. Questo sapere è l’intelletto, ed il suo oggetto viene definito da Hegel con l’espressione dapprincipio sorprendente di “forza”. La verità del Questo è la cosa, e la verità, l’essenza della cosa è la forza. È interessante che ponga la forza come l’essenza della cosa. La forza, cioè, questo medio, la mediazione, la relazione tra i due momenti, la relazione: è questa l’essenza della cosa.

Intervento: C’è qualche connessione tra il dare il nome di forza e questo movimento?

Sì, certo. Lui prende questo nome dal greco νέργεια, che indica l’atto, l’agire, è ciò che agisce. Ciò che agisce è la parola, agisce in quanto movimento continuo, è quel movimento. Il Questo della certezza sensibile è il singolo; la cosa della percezione è l’universale, e cioè l’universale che è determinato in ciò che è tramite un altro da se stesso, il singolo. Il singolo e l’universale, sempre in una sorta di interscambiabilità continua. Questo condiziona l’universale della cosa. La sua universalità è condizionata e dunque – perché riferita ad altro al di fuori di sé – finita, non assoluta. Ma l’universale è dunque il vero oggetto del sapere immediato. Questo vero è pure soltanto allora propriamente vero, quando esso non è l’universale finito, condizionato, ma l’incondizionatamente universale o l’assolutamente universale. Questo universale in sé, che non ha il singolo accanto né sotto di sé, ma in sé, e dispiega necessariamente se stesso nei singoli, questo universale incondizionatamente tale, Hegel lo designa come forza. Ciò che è al tempo stesso singolo e universale. Non possono scindersi, non possono essere separati; sono l’atto, perché l’atto è fatto di questo. Con atto intendiamo, naturalmente, l’atto di parola. A pag. 157. Anche Hegel riunisce la triplicità di sostanzialità, causalità e azione reciproca sotto il titolo di “relazione” o, come egli dice, con una scelta terminologica precisa: “rapporto”. “Rapporto” è un concetto speculativo ben determinato; vale a dire che per Hegel “rapporto” non è solo, come in Kant, una dicitura indifferente che, non curandosi di ciò che viene apposto sotto di essa, denunzia soltanto ciò che in questo c’è di comune, ma Hegel dispiega le categorie citate a partire da l’essenza del rapporto, cioè disvela attraverso questo dispiegamento l’essenza del rapporto. Tutto questo dispiegamento speculativo si compie sul filo conduttore del concetto di “forza”. “La forza esprime così l’idea del rapporto stesso”. Il contenuto speculativo del concetto di forza è il rapporto, il rapporto inteso qui esso stesso in senso speculativo. Come dire che la forza è la relazione, la relazione tra i due momenti. Questa la forza, cioè è l’agire stesso dell’atto di parola, il quale agisce in quanto è simultaneamente singolo e universale. Contiene in sé entrambe le cose, distinte ma non separate. Principio per l’intelletto, dice dunque Hegel, è “l’unità in sé universale”; non l’unità del collegamento, che vi sopraggiunge tra due estremi indipendenti, ma l’unità che si dispiega essa stessa in ciò che essa unifica, e in quanto unificante costituisce il loro rapporto, ed invero in modo tale che gli unificati stessi sono il rapporto. Sta dicendo quello che poi dirà molto tempo dopo Peirce: A è B, questo due momenti vengono unificati dalla relazione, ma questa relazione non è qualcosa che si aggiunge, cioè ci sono questi momenti e poi c’è questa relazione, ma la relazione diventa questi due momenti, che a questo punto costituiscono l’intero, non sono più due ma sono l’intero. A pag. 161. Secondo questa, le cose, quali ce le rappresentiamo, sono fenomeni, una sequenza, per così dire, di cose semplicemente presenti. Nello stesso modo in cui ce le rappresentiamo, ci rappresentiamo il sovrasensibile, e questo è semplicemente presente dietro i fenomeni. Questo è ciò che si immagina; è la posizione di Platone. Che questi recessi non siano accessibili al nostro rappresentare sensibile, significa che l’accessibilità viene pensata come un rappresentare che sia sostanzialmente dello stesso carattere del rappresentare delle cose sensibili, con la ola differenza che si spinge ancora più in là e quindi giunge dietro le cose sensibili. I fenomeni sono dunque l’esteriorità semplicemente presente, nel cui interno qualcos’altro è ancora semplicemente presente. Nel riferirsi a questa rappresentazione volgare, Hegel parla in più modi, ed in certo senso con intenzione terminologica, di interno, ove l’interno ha inoltre senz’altro ancora un certo riferimento consapevole all’interno nel senso dell’interiorità del soggetto. Qui c’è una critica al concetto tradizionale di fenomeno, qualche cosa che avrebbe al suo interno la propria essenza e che sarebbe sostenuto da qualcosa di sovrasensibile che sta da un’altra parte. Hegel sottolinea a ragione che non esistono fenomeni per sé – o qualcosa che per sé possa essere chiamato fenomeno; fenomeno, considerato in quanto fenomeno, è il manifestarsi di un altro in quanto esso stesso. Il fenomeno che si mostra sta mostrando qualche cos’altro che si mostra in se stesso. Nella misura in cui ciò che si manifesta è ciò-che-si-mostra dapprima e immediatamente, esso, di conseguenza, in quanto questo ciò-che-si-mostra, mostra, nella sua maniera, ciò che si manifesta. Il fenomeno – ciò che appare qua (in quanto) aspetto che affiora – è, in quanto ciò che mostra, cioè un altro, contemporaneamente e propriamente quest’altro. È se stesso ed è altro. Ciò che si manifesta in quanto ciò-che-si-mostra, che mostra altro, è l’immediato, e, in quanto un che che mostra l’altro, allo stesso tempo un che che media. E cioè una relazione. A pag. 163. Il fenomeno in quanto ciò che si manifesta non è solo ciò-che-si-mostra, ma mostrarsi è affiorare; manifestarsi significa: comparire, presentarsi e non manifestarsi: mancare. Manifestarsi significa dunque nel complesso: affiorare e sparire.  Si coglie così lo specifico carattere di mobilità del fenomeno. Parla sempre di mobilità del fenomeno. Se parla di mobilità del fenomeno vuole dire che ciò che mi appare non è qualcosa di statico, di immobile, a mia disposizione. Il fenomeno è così considerato nel suo specifico carattere dialettico, e si qualifica così come concetto speculativo fondamentale, il cui significato si esprime nel fatto che già lo si trova nel titolo dell’opera… … Manifestarsi significa quindi: affiorare per sparire di nuovo: sparire per fare in ciò posto ad un altro, ad un che di più alto: il sì e il no nel passaggio – cui già si è fatto riferimento nella determinazione del concetto del fenomeno nel contesto della chiarificazione del titolo “fenomenologia”. Qualcosa che, manifestandosi, scompare in altro, che cos’è se non il mio dire? Per dirla alla de Saussure il significante che, dicendosi, scompare nel significato, per ricomparire in quanto altro.  sempre questo movimento incessante; il fenomeno non è che questo movimento, in cui qualcosa scompare per riapparire in quanto altro, ma è anche se stesso: il significante è sempre il significante, ma in questo ritorno non è più quello di prima. A pag. 165. La cosa in sé è per Hegel in verità accessibile… A differenza di Kant. …ma solo se facciamo sul serio con il sapere assoluto. Ma se la cosa in sé è oggetto del sapere assoluto, allora questo oggetto non può più essere ob-ietto (Gegen-stand), non più ciò che, a partire da se stesso, sta di fronte al sapere assoluto come estraneo, altro. Cioè: l’oggetto non può più essere questa cosa qui. Questo sapere sarebbe così non assoluto. Non padroneggerebbe per niente il suo saputo, ma in quel modo relativo che si è prima illustrato. Quando la cosa in sé è un saputo e suscettibile d’esser tale in senso assoluto, allora essa perde il suo carattere di ob-ietto, cioè diviene veritieramente in sé, dotata della qualità di essere sé, dotata della qualità di essere per sé, cioè tale da determinarsi in quanto appartenente ad un se stesso, da sapere se stessa in quanto essa stessa. Ciò che noi conosciamo come cosa in sé sapendo in modo assoluto, siamo noi stessi, ma sempre in quanto coloro che sanno in modo assolvente. Questo è esattamente ciò che vi dicevo la volta scorsa: il sapere dell’assoluto, il sapere dell’intero, è il sapere per il fatto che io sono ciò che so, sono sempre io. Più propriamente, è il linguaggio che sa di sé, e che parla di sé a sé. Come dire che ciò che vengo a sapere delle cose sono io, sono io con le mie parole. È questo che vengo a sapere quando mi chiedo “che cos’è quella cosa?”: vengo a sapere sempre e necessariamente di me, di ciò che io sono, cioè linguaggio. Ciò che è saputo assolutamente può essere solo tale da far sorgere il sapere nella modalità del sapere e da stare nel sapere solo in quanto ciò che così sorge; non un oggetto, bensì – come ho detto altrove – uno stato sorgivo. Il correlato di sapere dell’assolvenza è lo stato sorgivo; o meglio: non è più correlato perché non più relativo – il sapere assoluto è concepire-sé, “concetto”. Il concetto è concepire sé. Quel qualcosa che facciamo sorgere in tale sapere non è un ob-ietto relativo (Gegen-stand), ma un assoluto stato sorgivo, che sta nella storia del sapere assoluto solo nel suo sorgere ed in quanto suo sorgere. Quel che è passibile d’esser saputo assolutamente non può mai essere oggetto, ma è solo in quanto stato sorgivo, in quanto tale che sta nel sorgere tramite il sapere stesso. Noi stessi in quanto sappiamo assolutamente portiamo nello stare la cosa in sé. Ciò che in essa conosciamo è del nostro spirito. È questo che conosciamo, è questo che veniamo a sapere sempre: il nostro spirito. Quindi, questo sapere, che lui chiama stato sorgivo, è qualcosa che letteralmente sorge, che fa esistere le cose: è il mio sapere della cosa che fa di quella cosa una cosa. L’oggetto non sta di fronte a me, Gegenstand, ma sorge mentre io ne parlo. A pag. 167. Bisogna ora, per reperire i passi più importanti, accompagnare il movimento con cui l’intelletto, nel suo riferimento di sapere al suo oggetto – proveniente dalla percezione – toglie questa insieme con la certezza sensibile in esso racchiusa, per così togliere e superare se stesso e così la coscienza come intero, nella verità della coscienza, che è nel suo fondamento autocoscienza. Questo movimento dell’intelletto, venendo a sapere dell’oggetto, viene a sapere di sé, e questo venire a sapere di sé non è che l’autocoscienza. A pag. 168. Bisogna ora accompagnare il movimento dell’intelletto. Cosa intendiamo con accompagnare? Non si intende l’osservazione dei processi come a dire di una grezza attività dell’intelletto rispetto ad un oggetto quasi come un “intuito”, bensì il perseguire, che comprende in modo assolvente, le reciprocità e molteplicità degli interni rapporti d’essenza tra questa modalità della coscienza, che Hegel chiama intelletto, e l’essenza del suo saputo, e viceversa. “Dialettica dell’intelletto”, dunque? Certo: ma cosa vuol dire? Dialettica: la sequenza triadica di tesi, antitesi e sintesi – dobbiamo applicarla ora all’intelletto? Ma in che modo? Cos’è l’intelletto, e quale il suo rapporto con il suo saputo? Queste sono le domande che si fa. Fa poi una critica all’hegelismo bieco, quello che immagina che la dialettica sia qualcosa che si appiccica da qualche parte e risolve ogni problema e, quindi, come direbbe Heidegger, non si fa carico del problema, lo immagina già risolto. Per Hegel – lo mostra ogni pagina della Fenomenologia dello spirito – l’intero del sapere sta ad anticipare la costruzione assolvente, che ha ricevuto il suo impulso autentico dalla storia interna del problema portante della metafisica. Ma, all’interno di questa costruzione, bisogna dispiegare le modalità del sapere, ciascuna a partire dal suo proprio contenuto effettuale. … L’intelletto, che dev’essere ora a tema, s’è già annunciato nell’essenza assolvente della percezione come ciò contro cui il percepire costantemente recalcitra, nella misura in cui esso non si dedica effettivamente a porre insieme le determinazioni essenziali del suo oggetto. Recalcitra contro il fatto che la mia percezione è di una cosa e non di una molteplicità di cose. La cosa in quanto tale è una cosa dalle molte proprietà. La cosalità della cosa è la quiddità del singolo questo, l’universale. Questo universale, la cosalità, ha, come suoi momenti essenziali: l’Anche delle molte proprietà e l’Uno dell’unità dell’oggetto indipendente, che chiamiamo appunto cosa. L’Anche e l’Uno vengono messi reciprocamente in campo l’uno contro l’altro nella percezione, privilegiati unilateralmente… Cioè: una volta l’uno, una volta l’altro. …nonostante appartengano in egual misura all’essenza della percezione. L’uno dei momenti essenziali è l’universale, ma condizionato in ciò dall’altro. L’universalità non è incondizionata, l’insieme dei due momenti dell’oggetto – dell’Anche e dell’Uno – non è un’unità reale, tale da fondare e portare in sé la loro separatezza; ma i due momenti semplicemente si separano. Solo nell’unità veramente mediatrice dei momenti, nell’unità interna di questi stessi, l’universalità sarebbe la semplicità mediata incondizionata, l’universale in modo assoluto e dunque la verità dell’oggetto della coscienza. Nel momento in cui non c’è più la separatezza dei momenti, i due momenti non possono più essere presi separatamente. Che è poi il discorso che faceva Severino rispetto agli astratti e all’intero, al concreto.  A pag. 170. Esiste un movimento tale che i momenti non vi si separino più affatto, ma si dispieghino trattenuti in un’unità, per tornare poi subito di nuovo dal dispiegamento all’unità? Un simile movimento sarebbe un reciproco trapassare. “Ma tale movimento è ciò che dicesi forza”. La forza è questo passare continuamente dall’uno all’altro, cioè, il trapassare dell’uno nell’altro. Hegel parte dalla rappresentazione generale immediata dalla forza. Quindi, della mediazione, della relazione. Ma non si tratta di dar prova di questa come rappresentazione, come rappresentata, ma di essa in quanto veridicamente reale nella realtà effettuale delle cose in sé. Non è un qualche cosa che immaginiamo, ma questa relazione è la realtà delle cose, è l’unica realtà con cui si ha a che fare. Ma se noi pensiamo la forza come reale in conformità con la sua essenza concettualmente predeterminata, allora siamo costretti a porre ogni volta due o più forze reali. Così però ricadiamo nella realtà dell’oggetto della percezione, nella pluralità di singole cose semplicemente presenti per se stesse. Solo che qui si vede che la pluralità delle due forze qua (in quanto) forze è possibile solo in quanto gioco delle forze. Il gioco tra le due è la realtà vera e propria delle due. Il movimento tra le due cose è la realtà delle due cose, cioè, queste due cose sono in quanto c’è movimento tra di loro. Se non ci fosse questo movimento, questa relazione, questa mediazione, non ci sarebbero neanche le cose. Se non ci fosse la relazione A è B, non ci sarebbero né A né B… ma il gioco è rapporto, e il rapporto, come già spiega la Logica di Jena, è universalità incondizionata. Questo è il mediatore: una universalità incondizionata. A pag. 173. Ciò che noi ci siamo rappresentati come forza in modo sensibile-oggettuale, come ad esempio un esplosivo, quest’immediato è il non-vero. Il vero è il gioco, il medio, non gli estremi… Non i due momenti che il medio unisce mediandoli. Con mediare Hegel intende il superare, con il porre la sintesi tra i due. …il medio che tiene gli estremi nel loro reciproco rapportarsi, il rapporto. Questo è il vero, non l’oggetto; né l’uno né l’altro, né il singolo né l’universale, ma il gioco tra i due, il rapporto tra i due, la relazione tra i due. Come dire che di per sé non c’è né il significante né il significato, ma c’è questa relazione tra i due, ed è solo questa relazione che fa esistere il significante e il significato, non esistono separatamente. Li separiamo per esemplificarli concettualmente, ma di fatto esistono soltanto nella relazione. Cosa che aveva intuita anche de Saussure che, infatti, definisce questa relazione come il segno: il segno è uno ma è fatto di significante e significato, cioè il singolo e i molti. A pag. 174. È importante ricordare di nuovo che Hegel non prende l’essenza del fenomeno solo come mostrar-si, farsi-manifesto, manifestazione, ma il fenomeno è un soltanto-apparire e dileguarsi… È la nozione di λήθεια. …nel fenomeno sta il momento della negatività che è connesso nel profondo con il carattere di mobilità del fenomeno. Ma questo significa: il fenomeno non è solo parvenza, bensì nel dileguarsi qualcosa appare. Se io mi rapporto a un oggetto qualunque, questo oggetto si dilegua. Si dilegua in quanto non è uno ma una molteplicità; quindi, l’uno dell’oggetto si dilegua nella molteplicità, ma è proprio in questa molteplicità che si manifesta. Ciò che appare però non è altro che ciò che si conserva nell’emergere e dileguarsi del sensibile, ciò che il fenomeno porta insieme in sé, l’interno, il sovrasensibile. Qui c’è una questione importante, e cioè il sovrasensibile, ciò che non cade sotto i sensi. Per esempio, un significato è un sovrasensibile, mentre il significante è il sensibile, è un suono, i miei sensi lo percepiscono. Dunque, il sovrasensibile è qualche cosa che è sempre presente e non è altro che la relazione tra un momento e l’altro momento. La relazione è sovrasensibile, non la vedo, non mi appare, non mi si manifesta in quanto tale. Ma se non ci fosse non si manifesterebbe niente, non si manifesterebbe neppure il significante in quanto significante, perché, per manifestarsi, un significante, in quanto significante, deve esserci l’altro momento, il significato, e solo a questo punto il significante diventa significante, cioè, quello che è. Quindi, vedete che questo sovrasensibile è la condizione del sensibile, è la relazione tra i due che fa sì che il significante sia effettivamente un significante, cioè qualcosa di sensibile, che i sensi percepiscono in quanto significante, perché c’è il significato, che tornando sul significante lo fa essere significante. Questo è il rapporto tra il sensibile e il sovrasensibile: il sovrasensibile è la condizione del sensibile. Che ci sia continuamente questo rapporto, questo movimento, è la condizione perché qualcosa appaia. La volta scorsa dicevamo dell’aprirsi dell’atto di parola: io dico e mentre sto dicendo si apre uno iato tra il mio dire, tra ciò che sto dicendo, e il mio detto. Si apre questo iato, questo movimento per cui il detto torna sul mio dire, su ciò che sto dicendo, e lo fa essere quello che è. È all’interno di questo movimento che qualcosa può apparire. È un po’ la stessa cosa che diceva Heidegger rispetto all’essere: l’essere non è altro che quell’orizzonte, quell’apertura, quel chiarore che consente agli enti di apparire. Ma che cos’è che consente agli enti di apparire? È la parola, il suo aprirsi continuamente. Se non ci fosse questa apertura nella parola, questa distanza tra il dire e il detto, per dirla in modo un po'’rozzo, non ci sarebbe nessuna apertura e, quindi, non ci sarebbe niente, nulla potrebbe apparire, nulla potrebbe manifestarsi, non esisterebbe nulla. A pag. 178. Questo dunque è il costantemente eguale di fronte al costantemente diseguale. Ciò che si manifesta nel sensibile, nel fenomeno, l’eguale al disopra del diseguale, è il sovrasensibile, l’interno delle cose, ciò che determina la loro estrinsecazione, il loro scambievole qui e là, è “un quieto regno di leggi”. Come dire che questo movimento è la legge, che è sempre quella: il movimento non può togliersi, non può non essere più movimento, è sempre movimento e, quindi, è sempre, in un certo qual modo, eguale a se stesso. È qualcosa che richiama, anche se un po’ tirata, l’eterno ritorno di Nietzsche. La legge, per Hegel, è quella cosa che dice che questa forza, cioè questa relazione, è in un certo senso la costante: questo movimento è ciò che è continuamente costante, continuamente presente, è continuamente se stesso. A pag. 179. …questo “concetto di legge va… oltre la legge in quanto tale”, si volge contro di essa. La legge di gravità, ciò che la gravità ha in sé, trae la sua necessità solo dalla gravità stessa, cioè dalla forza. La forza – certo ora non più presa nell’immediatezza sensibile, come presente in quanto legge, solo nei differenziati che la legge in quanto tale regola.  E così proprio là dove sembrava che si trovasse il vero universale, la legge universale, ci imbattiamo in una duplicità: la forza (la gravità) stessa e la legge che la forza ha in sé. La forza è dunque di nuovo l’indifferente contro la legge. Anche quando Hegel tentava di stabilire questa forza come ciò che si pone come legge, anche in questo caso non si è fuori dal movimento dialettico, perché anche questa legge si scompone in due elementi, e cioè la forza, che la legge in qualche modo rappresenta, e ciò che ha di contro, e cioè la forza che ha in sé. E, infatti, dice E così proprio là dove sembrava che si trovasse il vero universale, la legge universale, ci imbattiamo in una duplicità: la forza (la gravità) stessa e la legge che la forza ha in sé. La forza è dunque di nuovo l’indifferente contro la legge. Anche in questo caso la dialettica pone la questione in termini precisi. Prima avevamo posta la relazione come qualche cosa che è sempre presente. Quindi, c’è la relazione che è sempre presente come forza, come atto; e, infatti, ciò che è sempre presente è anche in quanto atto, è nell’atto continuamente. L’uno unifica i molti, ma in modo tale che i molti vengono per così dire porti all’uno in quanto l’altro dal quale esso è condizionato. La necessità dell’unificazione è comprensibile a partire dal principio dell’intelletto, ma non è così per la necessitò di ciò che si deve unificare in quanto tale. Sussiste dunque un’indifferenza che Hegel cerca di chiarire per un altro verso, cioè attraverso il rimando all’essenza del movimento, a partire dal pensiero della legge come legge del movimento. A pag. 181. Il movimento non è la distinzione in se stessa; esso non è che l’unità che si riparte… Qui Hegel è preciso. Il movimento non è la distinzione. Movimento significa andare da una parte a un’altra, ma il movimento non è propriamente questa distinzione, ma è l’unità che si riparte. Fa, quindi, una sorta di processo inverso: l’unità, l’intero, il concreto che si divide nei due momenti costitutivi; l’atto di parola che si divide in singolare e universale, ma si parte dall’intero, dal concreto, dall’atto di parola. …l’unità che si riparte, ed in modo tale da far scaturire le parti da sé solo per trattenerle, con ciò stesso, contemporaneamente in sé. Fa esistere queste parti, ma soltanto per trattenerle in sé. Una volta che le ha fatte esistere è come se le tenesse, ma prima deve farle esistere, occorre che ci sia il tutto, il concreto, occorre che ci sia l’atto di parola; solo allora qualcosa può apparire, l’ente, come direbbe Heidegger, può manifestarsi. A pag. 182. Se si fa un confronto con ciò che la prima verità dell’intelletto risultava essere, tutto, ora, risulta capovolto: il diseguale, il fenomeno, è eguale; l’eguale, la legge, è non-eguale (scambio). Per via dello scambio continuo. Ma questo capovolgimento non dev’essere compreso nel senso che anche il capovolto – la legge in quanto il diseguale-a-sé e il fenomeno in quanto l’eguale-a-sé – sarebbe presente anche in quanto l’irrigidimento del differenziato. Il capovolgimento non è un volgersi altrove, ma si stende, in quanto capovolgimento del primo sovrasensibile, su questo, e lo assume in sé. Il mondo capovolto è questo stesso e il suo contrapposto in una unità. Questo stesso e il suo contrapposto sono un’unità, sono il concreto. “La natura semplice della legge”, la verità dell’oggetto dell’intelletto, “è l’infinità”. Questa infinità è l’universale incondizionato. L’oggetto è l’infinità, e questa infinità è l’universale incondizionato. Perché infinità? Perché questa relazione, questo scambio continuo, infinito. Questa è la verità dell’oggetto, non il Gegenstand ma l’oggetto che appare, che si manifesta nel e per via del mio dire. A pag. 185. L’espressione pregnante di questi rapporti nella loro configurazione originaria e fondazione conclusa sta nel fatto che per Hegel l’assoluto – cioè ciò che è veramente, la verità – è lo spirito. Lo spirito è sapere, λόγος, lo spirito è io, ego; lo spirito è Dio, θεός; e lo spirito è realtà effettuale (Wirklichkeit), l’ente tout court, ν. Lo spirito è l’ente, ente in quanto sapere. Giungere ad affermare questo non è cosa da poco, cioè, dire che l’ente è lo spirito, il sapere assoluto. Solo con il sapere assoluto c’è l’ente, solo quando io so dell’atto di parola; solo allora autenticamente qualche cosa appare, e non come pura illusione, come mera parvenza. Come dire ancora che l’unica realtà è il linguaggio, perché è nel linguaggio che c’è l’ente, sennò non c’è. A pag. 186. In modo nascosto a se stessa, la coscienza è autocoscienza. L’esposizione assolvente del sapere non giunge dunque ad un estraneo, altro, ma all’inverso, essa ha ripreso il sapere in un primo, decisivo movimento, dalla sua estraniazione nell’oggetto – l’ha cioè ripreso sapendo, in quanto possiamo ottenere l’essenza del sapere assoluto solo nel modo del sapere. Possiamo ottenere l’essenza del sapere assoluto soltanto nel modo del sapere, nel modo, quindi, in cui sappiamo, non abbiamo un altro modo. Soltanto nel modo in cui sappiamo noi sappiamo le cose; non le sappiamo per come sono, ma nel modo in cui noi sappiamo. E questo è il “limite” del linguaggio, cioè non posso uscirne, per cui posso sapere soltanto all’interno del modo del linguaggio.