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13 ottobre 2021

 

Aristotele Metafisica Θ 1-3 di M. Heidegger

 

Questa sera incominciamo il libro di Heidegger sui primi tre capitoli del Libro Θ della Metafisica di Aristotele. Il motivo per cui facciamo queste letture oramai è noto: si tratta di sapere perché gli umani pensano nel modo in cui pensano e come è fatto questo pensiero, come si è costruito nei millenni fino ad oggi, visto che non ha nulla di naturale. Aristotele è stata una tappa molto importante, lui come Platone e come i presocratici, una tappa importantissima. Come abbiamo visto, Aristotele ha stabilito alcuni concetti fondamentali nel pensiero occidentale, e cioè l’idea che ci debba essere un fine superiore al quale tendere; fine che è superiore a qualunque cosa, per cui le esigenze del singolo, quelle personali vengono aggirate e sorpassate dall’esigenza di un bene superiore. In questi tre capitoli ciò di cui si parla è della potenza e dell’atto. A pag. 9. La domanda aristotelica sulla molteplicità e sull’unità dell’essere. Questo il titolo della parte introduttiva, ciò che incombe è sempre la domanda fondamentale: che cos’è l’essere. Parte da che cos’è l’ente, ma chiedendoci che cos’è l’ente ci troviamo di fronte alla domanda “che cos’è l’essere”, cioè che cos’è che dà all’ente la sua enticità. Questo corso di lezioni si propone di interpretare filosofando un trattato filosofico che appartiene alla filosofia greca. Questo trattato ci è giunto come Libro IX (Θ) della Metafisica di Aristotele. Il trattato, autonomo in se stesso e diviso in dieci capitoli, pone come oggetto della sua indagine δύναμις e ένέργεια, ossia potentia e actus /…/ Di che cosa si va in cerca in questa indagine su δύναμις e ένέργεια? Che cosa spinge ad indagare su “possibilità” e “realtà”? In quale ambito del domandare rientra questo trattato di Aristotele? La risposta a queste domande non è difficile da trovare. Basta prestare attenzione al contesto entro il quale la ricerca si trova: tale contesto è costituito dalla Metafisica di Aristotele. Il trattato su δύναμις e ένέργεια è quindi un trattato metafisico. Questa informazione, ottenuta con tanta facilità e in fondo corretta, tuttavia non dice assolutamente nulla. Forse che noi sappiamo, infatti, che cos’è quel che con tata facilità chiamiamo “metafisica”? No. Perché no? Io ci andrei più cauto con queste affermazioni così perentorie. Noi sappiamo che cos’è la metafisica: è la struttura del linguaggio. Di questa parola, oggi, subiamo solo il fascino e soggiaciamo all’aura di profondità e di redenzione che la circonda. Ma il fatto di venire a sapere che questo trattato di Aristotele è un trattato “metafisico” non solo non dice nulla, ma induce anche in errore. E non solo da oggi, ma da due millenni. Quel che più tardi si è inteso con questa parola e con il suo concetto, con “metafisica”, infatti, non è mai stato in possesso i Aristotele. Aristotele, poi, non è mai andato alla ricerca di quel che sin dall’antichità si crede di trovare in lui sotto il nome di “metafisica”. Sappiamo, infatti, che Aristotele parlava di “filosofia prima” e non di metafisica. A pag. 10. C’è una citazione di Aristotele. “Abbiamo dunque trattato dell’ente che è in prima linea tale, ossia di ciò di cui si riferiscono anche tutte le altre categorie dell’ente, abbiamo cioè trattato dell’ούσία. Il resto dell’ente” – si noti come qui il termine sia τό ν, l’essente (come participio) – “il resto dell’ente (quello che non è compreso come ούσία), infatti, è predicato in riferimento a quel che si è detto nel dire dell’ούσία, sia il quanto sia il come e gli altri enti predicati nello stesso modo. Tutti gli enti (le restanti categorie ad eccezione dell’ούσία), in fatti, devono avere presso di sé e in sé il dire dell’ούσία, secondo quel che abbiamo esposto… Questo giusto per ricordare che l’ούσία, la sostanza, è la prima categoria, quella più importante, quella alla quale fanno riferimento tutte le altre categorie. A pag. 12. Abbiamo appena detto, però, proprio nell’interpretazione della seconda proposizione di Aristotele, che le categorie trovano posto nel λόγος. Ma il λόγος, l’enunciazione, è enunciazione sull’ente e non esso stesso l’ente. Abbiamo così una doppia affermazione: le categorie fanno parte del λόγος e le categorie sono l’ente stesso. Come possono coesistere queste due affermazioni? La risposta manca. E noi siamo portati a pensare che la domanda sull’essenza delle categorie sfoci nell’oscurità. (L’essenza delle categorie è radicata nel λόγος inteso come raccogliente render palese. Questo insieme di unità e verità indica forse l’essere? Quando, con Parmenide, si arriva al primo dire dell’essere, l’ν è il carattere della presenza. Da notare è la connessione tra ν, inteso come ούσία, παρ-, e συνουσία, e ν, inteso come presso e insieme, e λόγος, inteso come esser-raccolto, esser-posto-presso, esser-trattato-insieme; e, a partire di qui, la “copula”, lo “è”.) A pag. 14. L’ente viene detto e chiamato in causa una volta nel modo delle categorie e una volta nel modo di δύναμις e ένέργεια Qui stiamo ancora cercando di capire con Aristotele che cos’è l’ente …quindi in due modi, διχς (due), e non μοναχς (uno), non in un solo ed unico modo. A che cosa risale questa distinzione? Con quale diritto il modo di chiamare in causa e di dire l’ente viene diviso in due? Aristotele non ne dà, né qui né altrove, alcuna spiegazione e alcuna giustificazione. Questa domanda non viene affatto posta. La distinzione dell’ν sta semplicemente lì. Il termine ν indica l’ente ma talvolta anche l’essere. Quasi come se noi dicessimo: tra gli animali ci sono i mammiferi e anche gli uccelli. Τό ν λέγεται τό μέντό δέ. Perché l’ente si divide in questi due modi? La ragione della divisione sta nell’ente stesso o in noi, visto che sono gli uomini a dover dire l’ente in questi due modi? O non sta né solo nell’ente né solo in noi uomini? E dove allora? Non appena cerchiamo di orientarci, anche solo approssimativamente, nell’ambito della domanda sull’ente, ripiombiamo subito nell’oscurità. Ma la perplessità cresce ancora quando scopriamo che non si tratta solo di stabilire se l’ente si dica nel modo delle categorie o nel modo di δύναμις e ένέργεια, giacché Aristotele stesso ci insegna in questo stesso trattato, all’inizio del capitolo finale, che c’è anche un altro modo. Questo capitolo, il decimo, si apre dicendo: “Poiché però l’ente e il non-ente sono detti una volta secondo le figure delle categorie, poi secondo la possibilità e la realtà di queste categorie o dei loro contrari /…/ l’ente per eccellenza però è l’ente vero o falso. Si può dire in tanti modi, però, l’ente per eccellenza è quello che noi possiamo dichiarare vero o falso. Qui c’è ovviamente il richiamo al principio di non contraddizione. A pag.18. Noi vediamo che porsi la domanda τί τό ν (che cos’è l’ente?) è come porsi la domanda τί τό εναι (che cos’è l’essere?). Qui distingue tra ν, l’ente, e εναι, l’essere. Come può Aristotele equiparare τό ν e τό εναι? Perché, se ci si interroga sull’essere (εναι), dire che la domanda verte sull’ente (ν)? Qui noi avremmo la risposta: per parlare dell’essere occorre parlarne astraendolo, facendone un astratto, quindi, ponendolo come un ente. Non possiamo dire l’essere se non come ente. Questa fu poi la maledizione di Heidegger appena se ne accorse, e allora incominciò a scrivere l’essere con le crocette, con la ipsilon, in tutte le maniere possibili e immaginabili per dire che, sì, ne parla ma non potrebbe parlarne. Anche ai giorni nostri questa equiparazione è ancora normale, certamente piuttosto nel senso di un’insanabile confusione. Spesso, infatti, nella filosofia si parla dell’essere e s’intende dire l’ente. In fondo, non si comprende né l’uno né l’altro. E tuttavia qualcosa diciamo, anche se tutto svanisce nella nebbia non appena tentiamo di afferrare quello che diciamo. Questo accade sempre, non solo quando si parla dell’ente o dell’essere, ma di qualunque cosa. Per esempio, questa cosa, questo pezzo di gesso è un ente, “è”; diciamo che “è” perché esso stesso, per così dire, ce lo dice preliminarmente. Allo stesso modo, anche il fatto che io adesso parli e Loro ascoltino e prestino attenzione è un ente. Esperiamo e cogliamo facilmente continuamente enti. Ma l’essere? Anche dell’essere abbiamo una certa comprensione, anche se però non riusciamo ad afferrarlo. Come facciamo a discernere le due cose, l’ente e l’essere, e addirittura a comprendere quel che, nel loro intimo rapporto, appartiene a ciascuna delle due, se tutto questo non è stato portato alla luce e nemmeno affrontato in modo adeguato come domanda? /…/ dell’ente e di singoli enti abbiamo conoscenza: è quel che ci rende contenti o ci opprime, quel che richiede la nostra opera o ci pianta in asso; e poi noi stessi siamo enti. Non siamo usciti dall’ente. A che scopo, allora, l’essere? Dice: se tutto è ente, dell’essere che ce ne facciamo? L’interrogarsi sull’essere si presenta forse come l’ha inteso Nietzsche (nel suo primo periodo), quando dice di Parmenide: “Probabilmente soltanto nella sua età avanzata, Parmenide ha avuto un momento di purissima astrazione, non intorbidata da alcuna realtà e assolutamente esangue. Questo momento, così poco greco come nessun altro nei due secoli dell’età tragica, il risultato del quale è la dottrina dell’essere, divenne per la sua stessa vita, la pietra terminale…” (La filosofia nell’epoca tragica dei Greci, 1873) Lo stesso Nietzsche ha quindi ragione anche quando nel suo ultimo periodo dice che l’essere è “l’ultimo fumo della svaporante realtà” (Crepuscolo degli idoli). “L’essere”: un pensiero così poco greco come nessun altro o così greco come nessun altro? “L’essere”: fumo e vapore o la più intima segreta fiamma dell’esserci umano? /…/ che cosa intendiamo dire, però, quando diciamo l’ente, l’ente senz’altro? Quando i filosofi dicono l’ente, τό ν, τό εναι, intendono forse dire questo ente e quello, le tante cose essenti, piate, animali, uomini, opere umane, dei, tutto quel che è ente preso insieme, la somma che raccoglie numerandoli tutti i singoli enti? La somma di tutti gli enti alla quale giungiamo o tentiamo di giungere con l’enumerazione e l’accumulo dei singoli enti è dunque l’ente? Facciamo la prova. Incominciamo l’enumerazione: questo ente, poi quello, poi quell’altro, poi quell’altro ancora, e così di seguito. Supponiamo per un momento di essere arrivati alla fine. Con che cosa abbiamo cominciato? Con un ente preso a caso. Quindi, non con il nulla, che poi proprio con l’enumerazione di tutti gli enti avremmo dovuto riempire per ottenere in questo modo l’ente. All’inizio, prima dell’enumerazione, non abbiamo ancora l’ente, visto che l’ente si forma grazie alla somma. Noi però cominciamo con un ente;… Prima ancora di sapere che cos’è incominciamo già con l’ente …incominciamo infatti con la nostra intenzione di ottenere la somma grazie all’enumerazione, incominciamo cioè con la somma: noi estraiamo dalla somma, che secondo la premessa è l’ente, un primo ente (dalla somma, naturalmente, che non è ancora il risultato dell’enumerazione finale). Gli enti hanno la loro somma, ma il numero che indica questa somma non è ancora noto; spetta all’enumerazione il compito di determinarlo. Noi partiamo dalla somma non ancora calcolata e, per calcolarla, incominciamo da uno degli enti che le appartengono. Nell’enumerazione, quindi, ciò da cui incominciamo è la somma stessa non calcolata; questa somma sta al primo posto. Ma allora l’ente con il quale cominciamo l’enumerazione e al quale diamo il numero uno non è affatto il primo. Quando enumeriamo singoli enti, partiamo dalla somma non calcolata dell’ente. Che cos’è questa somma non calcolata? È il tanto-così nel quale il quanto resta indeterminato relativamente al numero cardinale /…/ e tuttavia, per noi, è come se l’ente fosse qualcosa di complessivo. Che cosa intendiamo indicare con il carattere complessivo di quel che è complessivo? Non qualcosa che ci viene incontro come somma determinata o indeterminata, ma invece qualcosa che ci viene incontro “sommariamente”. E, infatti, è qualcosa che cogliamo ed abbiamo già sempre colto in questo modo. Sommariamente vuol dire: cogliere qualcosa nl suo tratto principale, per sommi capi, in quel che il singolo ente è prima di ogni enumerazione e al di là di ogni particolarità e generalità. Se ci accorgiamo del fatto che, come accade costantemente finché esistiamo, siamo preceduti, circondati, costituiti e seguiti dall’ente, allora siamo sopraffatti da qualcosa che urge e si impone oltre l’ente. E anzi, dopo tutto, non è proprio questa urgenza che riposa in se stessa a far sì che noi esigiamo l’ente, τό ν, del quale diciamo che è, e dicendo che è intendiamo dire propriamente quel che noi chiamiamo l’essere, τό εναι? In carattere complessivo di quel che è complessivo (l’ente) è il tratto originariamente concentrato della sua urgenza. Sta dicendo una cosa molto semplice: noi cogliamo l’ente, l’astratto, perché c’è il concreto, perché c’è il linguaggio. L’ente è qualcosa che esiste perché esiste il linguaggio, è da lì che viene fuori l’ente. Per questo motivo abbiamo già da sempre l’ente: perché siamo da sempre nel linguaggio, non possiamo uscirne. L’ente: che cos’è? In quanto che cosa esso si dà e si dà a noi? A noi si dà in quanto qualcosa che chiamiamo l’essere. L’ente è, in primo luogo e soprattutto, τό ν - τό εναι. L’ente è proprio nel momento in cui noi lo cogliamo in quanto ente, in quel momento l’ente è l’essere. Cioè: noi cogliamo l’ente ma, nel momento in cui lo cogliamo in quanto ente, lo cogliamo in quanto elemento del linguaggio, ed è allora che ci appare l’essere, cioè, ci appare il fatto che l’ente è un’astrazione rispetto al concreto. A pag. 22. Ma che cos’è l’ente? E questo, adesso, significa: che cos’è l’essere? La risposta a questa domanda, infatti, non è nient’altro chela risposta all’intera questione sull’ente. Certo. E il primo del quale sappiamo che si sia interrogato in questo modo sull’ente e che abbia cercato di cogliere l’essere è anche il primo che abbia risposto alla domanda che cosa sia l’essere: è Parmenide. /…/ Con Parmenide si è accesa la lotta per l’ente, non come conflitto arbitrario per fini arbitrari, ma come γιγαντομαχία, secondo l’espressione di Platone, come lotta di giganti per le prime e le ultime cose nell’esserci dell’uomo. Sta dicendo che nella domanda intorno all’essere ne va dell’essere dell’uomo, ne va dell’uomo stesso. E oggi non rimane che un gioco letterario di nani, ambiziosi e dotati di una maggiore dose di ingegno, che sanno dire che la proposizione di Parmenide “l’essere è l’uno” è tanto falsa quanto primitiva, ossia goffamente primordiale, quindi insufficiente e di scarso valore. La falsità di una conoscenza filosofica costituisce un caso a sé e non è questa la sede per parlarne. Che poi la proposizione τό ν τό ν (l’essere è uno) sia primitiva è indubbio: è iniziale in senso stretto. Nella filosofia e quindi in tutte le possibilità dell’esserci umano che toccano l’essenza ultima, l’inizio resta la cosa più grande, per sempre impossibile da raggiungere nel futuro, la cosa che la posterità non solo non potrà indebolire e o respingere, ma che con la posterità, nella misura in cui la posterità sarà autenticamente tale, è collocata in maniera veramente grande nella sua grandezza per avere espressamente inizio. Ma per quell’attività umana che si orienta verso il progresso, è naturale che l’iniziale e il primordiale si facciano sempre più piccoli ed irreali e che le cose più nuove, per il solo fatto di essere più nuove, siano le migliori. E se la filosofia occidentale fino a Hegel, nonostante tutte le trasformazioni, in fondo, non è andata oltre la proposizione parmenidea τό ν τό ν, questo allora significa non una carenza ma un vantaggio ed è il segno che la filosofia, nonostante tutto, è rimasta tanto forte da essere in gradi di conservare la sua prima verità. Adesso dovrebbe essere diventato chiaro che l’equiparazione di τό ν e τό εναι non è un casuale ed esteriore capriccio dell’uso linguistico, bensì la prima espressione della domanda e della risposta fondamentali della filosofia. /…/ La distinzione tra l’ente e l’essere è tanto antica quanto la lingua, ossia tanto antica quanto l’uomo. A pag. 24. Secondo quel che abbiamo detto finora, ci si chiede, dunque, se Aristotele misconosca e neghi la prima decisiva verità della filosofia, così come era stata enunciata da Parmenide. La risposta è che Aristotele non la respinge, ma la coglie per la prima volta in modo appropriato. Aristotele aiuta cioè questa verità a diventare davvero una verità filosofica, vale a dire una domanda effettivamente posta. Il πολλαχς (la molteplicità), infatti, non espelle semplicemente l’ν da sé, ma piuttosto fa sì che l’uno si faccia valere nella molteplicità come ciò che ha dignità di domanda. Si resta alla superficie se si pensa che Aristotele si sia limitato ad aggiungere ad un significato dell’essere altri significati. Il suo lavoro non ha solo ampliato la domanda ma l’ha interamente trasformata: solo con Aristotele la domanda sull’ν come ν acquista tutta la sua acutezza. Naturalmente, era necessario che prima fosse compiuto un passo decisivo rispetto a Parmenide, e questo passo fu compiuto da Platone, in un periodo in cui il giovane Aristotele si dedicava già con lui al filosofare, e questo significa sempre contro di lui. Platone ha fatto trionfare la visione secondo la quale anche il non-ente, l’errore, il male, l’inconsistente sono, secondo la quale cioè anche il niente è. In questo modo, però, il senso dell’essere ha dovuto trasformarsi, perché adesso anche il negativo doveva essere compreso nell’essenza dell’essere. Ma se sin dai tempi più remoti l’essere è l’uno (ν), allora questa irruzione del negativo nell’unità significa lo sfaldamento dell’unità stessa in una pluralità. Allora, però, il molto (il molteplice) non è più semplicemente respinto dall’uno, dal semplice, ma entrambi sono riconosciuti come appartenenti ad uno stesso ambito. Qui va un po’ oltre Aristotele, non è che Aristotele arrivi proprio a questo; Hegel, sì, certo. Noi moderni, nella nostra pocaggine, con le nostre imitatissime scoperte, intorno alle quali però facciamo tanto rumore, quasi non siamo più in grado di misurare quanta forza il lavoro filosofico ha dovuto impiegare per rendere visibile il fatto che l’essente in quanto uno è in se stesso il molto. A pag. 22. Qui c’è una citazione importante di Aristotele. “L’essere e l’uno sono la stessa cosa e una sola (un’unica) ψύσις (un imporsi), in quanto infatti seguono l’uno dall’altro.” Vorrei mostrarvi come la stessa frase viene tradotta. Reale la traduce in questo modo. Ora, l’essere e l’uno sono una medesima cosa ed una realtà unica, in quanto si implicano reciprocamente l’un l’altro, anche se non sono esprimibili con un’unica nozione. È abbastanza simile alla traduzione fatta da Heidegger, tenendo conto anche del fatto che la sua traduzione dal greco è stata ovviamente fatta in tedesco, poi tradotta in italiano da Ugo Ugazio, che è un bravo studioso, grande conoscitore di Heidegger; quindi, possiamo dire che la traduzione di Ugazio è un’ottima traduzione. Vediamo, invece, una traduzione, fatta da Antonio Russo nel 1973. Tuttavia, se l’essere e l’uno sono identici, hanno una sola natura ed esiste tra loro la medesima correlazione che si riscontra tra principio e causa, e non in quanto essi vengono indicati con la medesima definizione. Del resto, non vi sarebbe alcuna differenza, anzi, sarebbe persino più utile a noi concepire l’identità dell’essere e dell’uno anche questo sotto secondo aspetto, giacché sono la medesima cosa le espressioni “un uomo” ed “un uomo esistente” e uomo è così anche raddoppiare le espressioni dicendo “uomo” e “uomo esistente”, ecc. Questa traduzione è di Russo, non ci si capisce niente. Il testo è sempre apparentemente lo stesso, ma, come vedete, la traduzione è totalmente differente. Ciascuno di voi può trarre le sue conclusioni a questo riguardo. Prosegue Heidegger. Qui Aristotele intende dire che ognuno dei due rincorre l’altro e che ovunque sia presente uno dei due, lì è già presente anche l’altro. Se c’è uno c’è anche l’altro. Questo essere unico, prima di dispiegarsi in qualche modo, è qualcosa? È cioè un sussistere di per sé, e in questo stare-in-sé consisterebbe la vera essenza dell’essere? O, invece, l’essere, in base alla sua essenza, non è mai non dispiegato, cosicché sono proprio la molteplicità e il suo dispiegarsi a fissare l’unità di quel che vien messo insieme. /…/ Eppure è evidente che anche Aristotele fu toccato dalla domanda sull’unità dei πολλαχς λεγόμενα (sulle cose che si dicono in quanto molteplici), dal momento che avvertiamo nei suoi scritti lo slancio preso in vista della risposta a quella domanda. E questo slancio va ad urtare contro il limite estremo di quel che era divenuto complessivamente possibile sul terreno dell’impostazione antica della domanda sull’essere. In quel periodo storico questa domanda intorno all’uno e ai molti era veramente una domanda importante. Per stabilire con certezza che l’uno non sia né possa essere viziato dal molteplice, perché se l’uno è uno, almeno apparentemente, è facilmente conoscibile, gestibile, dominabile. In fondo, questa questione antica si è ripetuta, è riportata anche oggi in tutto il pensiero, e cioè qualche cosa deve essere dominato, ma perché possa essere dominato è necessario che sia determinato; e perché possa essere determinato occorre che sia separato. È questo che ha accomunato tutto il pensiero, in parte da Platone ma soprattutto da Aristotele, fino ad oggi. Il modo in cui si fa filosofia oggi è ancora aristotelico. Dopo avere attentamente letto Aristotele ci si rende che effettivamente tutti i filosofi che gli hanno fatto seguito hanno detto malamente le cose che lui stesso aveva già poste, e mi riferisco anche a Hegel. La divisione che fa Aristotele tra δύναμις e ένέργεια e il dire che queste due cose vanno insieme e che non si dà l’una senza l’altra è in nuce la dialettica hegeliana; il Dio, di cui parla Aristotele, è il pensiero pensante di Gentile, è quello che in un certo senso ciascuno dovrebbe essere. Lasciando da parte la filosofia medioevale, la Scolastica, che è aristotelica per definizione, tutti i filosofi che ne sono seguiti, da Cartesio a Spinoza, a Hume, ecc., sono tutti aristotelici, anche quando criticano Aristotele. A pag. 33. Questo corrispondere, άνάλέγει (corrispondere), in sé è un άνάφέρειν πρός τό πρτον, un portare il significato al primo per fissarlo lì. Qui si sta interrogando su una questione importante, quella dell’analogia: questo primo significato quello più importante a cui tutti i significati di tutte le categorie, ecc., vanno ricondotti quello più autentico, è quello che si produce per analogia. Questo πρτον è ciò /…/ “cui gli altri significati sono legati (e fissati), e per il cui tramite tali significati possono essere (compresi e) detti”. Ci sono tanti significati che intervengono in una parola, però, tutti sono riconducibili, dice, a un primo significato, a un capostipite, quello che rende possibile tutti gli altri significati. Prendete una metafora. La metafora è una trasposizione, ma funziona perché qualcosa rimane lo stesso; se non rimanesse lo stesso non ci sarebbe nessuna metafora né nessuna possibile figura retorica; la figura retorica è tale perché qualche cosa rimane immutata. E questo per Aristotele sarebbe il πρτον, il primo significato, quello autentico. Ma noi sappiamo qual è il significato autentico per Aristotele: è il luogo comune, cioè, la chiacchiera, l’analogia, l’induzione, è questo il “primo”. Il primo è comunque il significato fondamentale che porta e guida gli altri, è sempre il punto a partire dal quale il significato che si porta ad esso e gli corrisponde diventa propriamente capace di parlare. Tutti gli altri significati significano perché si rifanno a questo primo significato. Il punto-a-partire-dal-quale è in greco άρχή In genere con άρχή si intende qualcosa di arcaico, di antico, un principio; la traduzione che dà invece qui Heidegger è interessante: Il punto-a-partire-dal-quale. Come potete vedere, si sta avvicinando qui alla questione della δύναμις: la δύναμις come il primo movimento, come ciò che muove; è la potenza, e la potenza è ciò che muove. …per questa ragione, Aristotele determina l’essenza dell’άνάλογία in maniera generale come λέγειν πρός μίαν άρχήν (il modo in cui questo principio mette insieme le cose). Questa άρχή è l’unificante dei molti che le corrispondono, e cioè il significato che porta e guida i diversi modi in cui avviene di volta in volta il corrispondere: è all’άρχή che ogni volta il significato corrisponde. L’άρχή, cioè, il significato primo, il luogo comune, quello che pensano i più per lo più. Il λέγειν del λόγοςSappiamo che il λόγος è il mettere insieme, il raccogliere insieme per offrire, per mostrare. …dell’άνάλογία è il λέγειν πρός ν - πρτον (il raccogliere insieme come uno). Questo ν πρός è dunque un κοινόνQuesto uno inteso come tutto; il κοινόν mette insieme (κοιν è l’unione). …ma non il semplice κοινόν del γένος (il genere), bensì κοινόν τι (unire qualcosa e non l’unire in generale), qualcosa come un alcunché di comune, che in sé sussiste come un modo dell’identico per mantenere in un’unità i molti che gli corrispondono. È questo che fa il κοινόν: mette insieme tutti questi elementi che corrispondono, cioè, tutti questi significati, che però dipendono dal primo significato che, come sappiamo, è il luogo comune, ciò che in genere si pensa. A pag. 36. Che cosa sia il primo e l’ultimo πρτον ν, πρός τά λλα λέγεται, che cosa sia cioè per il πολλαχς, nel senso più ampio il primo significato, è oscuro. Qual è il primo e l’ultimo significato dell’ente? Non si sa, anche se in qualche modo lo ha già detto: il primo significato è quello che viene dall’analogia, quello che si trae per induzione. Ed è per questo motivo che la πρώτε φιλοσοφία, il filosofare vero e proprio, è in se stessa, in un senso radicale, oggetto di domanda. Tutto questo in seguito è stato messo da parte grazie alla tesi secondo la quale l’essere è la cosa più ovvia. (Che la filosofia sia essa stessa oggetto di domanda è qualcosa che sta molto lontano dall’immagine che si ha generalmente di Aristotele, la cui filosofia viene pensata più sul modello dell’attività intellettuale di uno scolastico medioevale o di un professore tedesco). Allo stesso modo, non sappiamo quale connessione vi sia tra l’ν come δύναμις e ένέργειαCome connettere a questo punto l’ente, il cui significato primo è quello che viene dal luogo comune? È quello da cui si parte sempre, lo diceva prima: si parte sempre dall’ente, non si parte dall’essere, non si può partire dal concreto, si parte dall’astratto. … e gli altri significati, né quale sia il loro posto nell’unità dell’essere. Proprio qui, però, dobbiamo guardarci bene dal dare alle cose un ordine artificioso pur di mettere insieme, alla fine, un “sistema” senza intoppi. Qual è la soluzione che offre meno problemi? Bisogna che tutto resti aperto e pronto a diventare oggetto di domanda… Cosa che dopo Aristotele è stata cancellata, e anche lui, Aristotele, è in parte responsabile di questo. Bisogna che tutto resti aperto e pronto a diventare oggetto di domanda, perché solo così potremo realmente liberare e tenere desto quel tratto più intimo del domandare di Aristotele, e quindi di tutto il filosofare antico e del nostro stesso, rimasto senza risposta. Che cos’è l’ente in quanto tale? Che cos’è l’essere per essere qualcosa che si dispiega in quattro modi? Essere come sostanza, come categorie, come vero o falso, ecc. il quadruplice dispiegarsi seguendo il quale Aristotele prepara la domanda sull’essere è davvero la più originaria molteplicità dell’essere? L’essere è uno (Parmenide), però è anche molteplice. E se non lo è, perché no? Perché Aristotele si imbatte proprio in questi quattro modi? Com’è stato compreso l’essere nell’intero domandare antico per diffondersi in quegli ambiti del domandare che noi incontriamo in Aristotele? Nell’oscurità in cui con le domande poste in ultimo ci muoviamo a tastoni si trova il trattato che abbiamo scelto come oggetto della nostra interpretazione. E quel che ci regge in questo lavoro è la convinzione, per il momento infondata, che proprio questo trattato, se lo seguiremo filosofando, ci consentirà di penetrare il più profondamente che sia possibile in questa oscurità; questo significa che ci costringerà a stare di fronte alla domanda fondamentale della filosofia, posto che si sia abbastanza forti per lasciarsi davvero costringere. Finora abbiamo letto l’introduzione. Passiamo alla Parte Principale, dove nella Prima Sezione affronta il primo capitolo del Libro Θ. Il trattato su δύναμις e ένέργεια si muove nella direzione della domanda che guida il filosofare: che cos’è l’ente in quanto tale? Da parte sua e alla sua maniera, questa domanda vuole ottenere un chiarimento sull’essere. Quale andamento segue la ricerca? Con che cosa incomincia? È quel che dicono le seguenti proposizioni. Qui cita Aristotele. “E in primo luogo (intendiamo trattare) della δύναμις nel significato secondo il quale per lo più questa parola propriamente si usa; ma a dire il vero la δύναμις intesa in questo modo non può servire allo scopo che noi qui (in questo trattato) perseguiamo; infatti, δύναμις e ένέργεια si estendono a qualcosa di più, mentre le espressioni corrispondenti sono utilizzate solo in riferimento al movimento”. /…/ Quando ci riferiamo a movimenti, ci viene incontro qualcosa che si muove. E allora parliamo (inevitabilmente) di forze che imprimono il moto a quel che si muove, così come parliamo di attività che sono all’opera nel lavoro (ργον). Il greco ργον ha lo stesso doppio significato che ricorre anche nel nostro uso della parola “lavoro”: 1) il lavoro come occupazione, come quando, per esempio, diciamo che qualcuno non ha utilizzato tutto il tempo di lavoro concessogli; 2) il lavoro come la cosa lavorata ed elaborata durante l’occupazione, ecc. A pag. 49. Finora sappiamo solo che il δυνατόν (possibile)/ άδυνατόν (impossibile) e quindi il relativo concetto di δύναμις non sono χατά χίνεσις (secondo il movimento);… Sorge allora la domanda: χατά τί τό δυνατόν λέγεται – in riferimento a che cosa è compreso il significato di “dotato di forza” di cui si sta discutendo? Questo δυνατόν e questo άδυνατόν che cosa sono? La risposta ci proviene dall’ampia trattazione di Δ 12, 1019 b 23-30: “Non dotato di forza significa qui qualcosa il cui contrario è necessariamente qualcosa che è così come si svela; per esempio, nel quadrato, la diagonale non ha forza di avere la stessa misura del lato; parliamo di una mancanza di forza, perché questo, ossia l’avere la stessa misura del lato del quadrato, nasconde, sottrae cioè la diagonale alla misurabilità che le è propria; che essa, infatti, al contrario non sia misurabile per mezzo del lato del quadrato non è solo semplicemente svelato, svelato è invece che l’incommensurabilità della diagonale rispetto al lato è necessaria. La determinazione della misurabilità per mezzo del lato non è solo ingannevole, tale cioè da nascondere lo stato delle cose, ma il suo nascondere è addirittura necessario. Ma il contrario di questo, ossia il contrario di quel che non è, nel modo compreso ora, dotato di forza, vale a dire quel che ha forza di… si ha allora quando non sussiste alcuna necessità in base alla quale la determinazione contraria nasconda; così, per esempio, un uomo che adesso sta in piedi ha forza di sedersi; giacché la determinazione “non sedersi” non nasconde necessariamente il che-cos’è proprio dell’uomo”. Qui incomincia a dire che la forza è qualcosa che esiste in quanto qualcosa le si oppone; la forza, δύναμις c’è perché c’è qualcosa che si oppone, che la ostacola. A pag. 50. Di una cosa, però, dobbiamo renderci conto: in quale senso e a partire da quali fondamenti anche nell’ambito dell’άποφανσις, e anzi proprio in questo ambito, il discorso possa cadere su una δύναμις e quindi su δυνατόν e άδυνατόν. Solo in rapporto all’illustrazione di questa connessione, do una breve interpretazione del passo tratto da Δ 12; manca qui l’occasione per una sua interpretazione completa, che ne esaurisca tutti gli aspetti essenziali. Aristotele dice: nel quadrato, la diagonale non ha forza di avere la stessa misura del lato – σύμμετρον εναι. Questo è ψεύδος, travisa e nasconde quel che la diagonale palesemente è. Se della diagonale enunciamo la misurabilità per mezzo del lato del quadrato, allora non lasciamo che giunga alla parola quel che la diagonale stessa dice sotto questo rispetto. E che cosa dice la diagonale, ossia che cos’è la diagonale stessa? A diagonale rifiuta di dire all’enunciazione che la riguarda la propria misurabilità per mezzo del lato. È un modo un po’ animistico… però, anche se è Aristotele, sappiamo che allora c’era ancora un piede nei miti. Essa si rifiuta di farlo, lo impedisce, perché essa stessa sotto questo rispetto fallisce, fallisce nel tentativo di misurare se stessa per mezzo del lato; non ha in se stessa la forza per una tale misurazione; non la sopporta. Non ha forza, non sopporta nulla di simile; questo significa che essa è incompatibile con il lato del quadrato in rapporto alla misurazione condotta con la stessa misura. Questo per dirvi il modo in cui Heidegger ha inteso la questione della forza, della δύναμις, della potenza: ciò che rifiuta il suo contrario. A pag. 51. Δυνατόν e άδυνατόν significano quindi un non-fallire e un fallire, un esser-compatibile e un esser-incompatibile; ma questo significa: un non-andare-d’accordo-con… o un andare-d’accordo-con…, un non-insieme o un insieme nel senso di un esser-presente-con-altro o non-esser-presente-con-altro, e quindi, vale a dire in senso greco, un certo essere o non-essere (di qualcosa in unione con un’altra cosa). “E così parliamo anche di dotato e non dotato di forza quando qualcosa in qualche modo è e non è”. Questa di Aristotele è un’annotazione importante: che cosa è dotato di forza? Ciò che agisce, cioè, l’essere come atto. Sì, va bene, ma che cos’è che agisce propriamente? È l’atto di parola. Incontriamo in primo luogo e quasi tangibilmente questo essere e questo non-essere, nel senso del compatibile (δυνατόν) e dell’incompatibile (άδυνατόν), nell’enunciazione che in quanto tale dice: qualcosa è questo e quello, oppure non è questo e quello. Il δυνατόν si colloca nella prospettiva dell’enunciazione, dell’άποφανσις. Potremmo dire che qui la δύναμις ci è data nel significato χατά τήν άποφανσις (secondo l’enunciazione). Fa parte dell’essenza dell’άποφανσις, però, la possibilità di essere scoprente o coprente: άληθές o ψεύδος. (Questa determinazione ci è già nota come uno dei modi fondamentali dell’essere). La δύναμις riguarda quindi la φάσις, il dire, il detto. Da ciò deduciamo che nella chiarificazione di δυνατόν e άδυνατόν in questo significato si tratta di un έναντίον (il che è assunto direttamente e non casualmente nella definizione dell’άδυνατόν), che si tratta cioè dell’άντι, di qualcosa che le è contrapposto, della φάσις come άντίφασις; il dire, il detto come contraddire e contraddizione. Ed è per questo motivo che nel cosiddetto principio di non contraddizione incontriamo l’άδυνατόν /…/ lo stesso uomo che parla e comprende non ha la forza, non può sopportare e concedere, relativamente ad un unico e identico ente, di suppore che tale ente sia e non sia. Chi comprende questo άδυνατόν a partire dal suo fondamento, chi cioè non si limita a parlarne vagamente, come amano fare la logica e la dialettica quando parlano del cosiddetto principio di contraddizione, costui ha afferrato la domanda fondamentale della filosofia. Lui parla del possibile e dell’impossibile. Dice lo stesso uomo che parla e comprende non ha la forza, non può sopportare e concedere, relativamente ad un unico e identico ente, di suppore che tale ente sia e non sia. A pag. 53. Il punto sul quale tutti i corrispondenti modi della δύναμις coincidono è il seguente: tutti sono άρχαί τινες, tutti sono come qualcosa da cui qualcosa prende le mosse; e tutti questi molteplici significati di δύναμις coincidono, in quanto tutti, essendo nel loro significato άρχαί, ritornano ad una prima άρχή, ad un significato di δύναμις che entra in gioco prima di ogni altra cosa. È la stessa cosa che diceva dell’ente: quando ci domandiamo dell’ente, già questo domandarci dell’ente è un ente; l’ente, di cui ci domandiamo che cos’è, è già qui in questo momento. Questo πρώτον ν πρός (questo primo verso qualche cosa), questo primo uno, rispetto al quale sono compresi tutti i corrispondenti significati, lo definiamo brevemente come il significato che dirige ogni corrispondenza o il significato conduttore; ό χύριος ρος, il significato dominante.