13 settembre 2023
Aristotele Le Categorie
Le categorie hanno comportato, non tanto per Aristotele ma nei secoli successivi, cioè nel Medioevo, quando Aristotele è stato ripreso, quella cosa che nel Medioevo è sorta come disputa sugli universali. Aristotele poneva il genere come qualcosa di più ampio rispetto alla specie, e questo ha indotto i medioevali a pensare ai generi come degli universali. E allora si è posto il problema: questi universali sono enti di natura o enti di ragione? È questa la disputa degli universali tra i due opposti, i realisti e i nominalisti, tra cui Guglielmo di Champeaux, che rappresentava il culmine del realismo, per cui gli universali esistono in quanto tali, e il nominalismo estremo di Guglielmo di Ockham, che diceva che gli universali sono soltanto un flatus vocis, una parola e niente di più. Tutti questi problemi sono sorti, sì, a partire da Aristotele ma mi viene da pensare che se fosse stato letto in modo più attento, e non attraverso Platone, questa lettura non sarebbe stata possibile perché Aristotele non si pone questa distinzione degli universali come enti di natura o enti di ragione. L’universale, l’ούσία, la prima categoria, non è altro che ciò che se ne dice. Quindi, non si pone il problema se sia reale o nominale, è quello che si dice. Questo modo di leggere Aristotele è già una sorta di pregiudiziale platonica. A pag. 127 parla degli opposti. Una realtà… Anche qui la parola realtà non compare nel testo greco. …si dice opposta a un’altra in quattro modi:… Il testo greco recita: Λέγεται δέ ἕτερον έτέρῳ άντικεῐσθαι τετραχῶς, si dicono alterità che si oppongono in quatto modi. La parola realtà non compare, e invece qui c’è. …o come i relativi, o come i contrari, o come la privazione e il possesso, o come l’affermazione e la negazione. Questi sono i vari modi di considerare gli opposti. Ognuno di questi casi dà luogo a una opposizione, per dare un’idea, come il doppio si oppone alla metà per i relativi, come il male si oppone al bene per i contrari, come la cecità si oppone alla vista per la privazione e il possesso, e come “è seduto” e “non è seduto” per l’affermazione e la negazione. La lettura che è stata fatta nel Medioevo – bisognerà poi verificare negli Analitici – dà una particolare enfasi ai contrari, non ai relativi ma ai contrari. Da qui sorge il tertium non datur dei medioevali, cioè non c’è una terza possibilità: lei è Simonetta o non lo è, non ci sono altre possibilità. Tuttavia, la cosa che a noi interessa è che, in effetti, in ciascuna di queste opposizioni non si esclude la relazione, perché l’opposizione è già una relazione: se io oppongo una cosa a un’altra, metto le due cose già in relazione, sennò non le posso opporre. Ora, questo in Aristotele c’è e non c’è, per cui occorrerà vedere negli Analitici. Dunque, le realtà che si oppongono come i relativi sono tali che ciò che sono in sé si dice degli opposti, o in relazione ad essi, qualunque altro sia il modo: il doppio, ad esempio, si dice ciò che è in sé, e cioè, appunto, doppio, della metà;… Non posso dire la metà se non è presente anche il doppio o l’intero; come dire che uno appartiene all’altro, non li posso separare. Questo per quanto riguarda la relazione. A pag. 129. Le realtà che si oppongono come i relativi, quindi, sono tali che ciò che sono in sé si dice degli opposti o in qualsiasi altro modo che implichi reciprocità. Se io parlo della metà parlo simultaneamente anche del doppio; non posso accennare a uno senza che sia presente anche l’altro. E qui pone chiaramente la questione della relazione. Le realtà che si oppongono come i contrari, invece, sono tali che non si dicono in nessun modo le une in relazione alle altre, ma, appunto, “contrarie” le une alle altre: il bene, infatti, non si dice “bene” del male, ma contrario, e il bianco non si dice “bianco” del nero, ma contrario. Di conseguenza, queste opposizioni differiscono le une dalle altre. Qui Aristotele sta cercando, nelle Categorie chiaramente, di tenere separate le cose. Ovviamente, nella relazione non lo può fare, perché la relazione è una connessione, ma nei contrari, dice, non si dice bene del male, e lo dice come se qui non ci fosse una relazione. Ora, in questa furia di volere separare le cose, Aristotele non tiene in alcun conto elementi assolutamente banali. Esisterebbe il bene se non ci fosse il male? Sarebbe bene di che? Quindi non è proprio così, non è che si dice bene del male; dicendo bene si dice anche male, esattamente come diceva prima rispetto alla metà e al doppio. A pag. 131. Tra i contrari tali che l’uno o l’altro di essi inerisce necessariamente a ciò in cui esso genera per natura o di cui si predica, non c’è nulla di intermedio. Appunto, tertium non datur, il terzo è l’intermedio. Anche gli esempi che fa sono parecchio discutibili. Dice la malattia e la salute, ad esempio, si generano per natura nel corpo di un animale, ed è necessario che l’una o l’altra – la malattia o la salute – inerisca a corpo dell’animale;… Uno può essere malato ma non tanto. Non è che sia così netta la differenza, mentre lo è rispetto al dispari e al pari. Qui i due termini qui sembrano assolutamente separati, non c’è qualcosa in mezzo. Mentre tra salute e malattia può esserci, come me che sto benino, non sono malato, non sono sano, non sono nessuna delle due cose. Tra dispari e pari, invece, non c’è un terzo elemento: ecco il tertium non datur. Tenete sempre conto che si tratta di elementi linguistici, le categorie per Aristotele sono elementi linguistici, ed è questo che ha dato adito a Trendelenburg di pensare che Aristotele avesse in realtà costruito le sue Categorie sulla grammatica greca. Quindi, non si sta riferendo, come ogni tanto qui appare, alla realtà; non c’è nessuna realtà in Aristotele, sono λέγεται, sono cose che si dicono. E, dunque, tra il pari e il dispari non c’è il terzo, o è pari o è dispari. Ma questo cosa ci dice? Che lui avrebbe trovato degli elementi, dei termini che non ammettono la relazione. Nella relazione c’è il terzo, il terzo è la relazione. Qui no, tra il pari e il dispari non c’è relazione, lo dice lui stesso. Però, preso dalla furia di separare tutto, non tiene conto di questo, e cioè che …il dispari e il pari si predicano del numero, ed è necessario che l’uno o l’altro – il dispari o il pari – inerisca al numero. Tra questi contrari non c’è, appunto, nulla di intermedio, né tra la malattia e la salute, né tra il pari e il dispari. Sì, potremmo anche dire provvisoriamente che non c’è nulla di intermedio, ma ciò che connette questi due elementi, il pari e il dispari, come dice, è ciò che di fatto si predica del numero. In questo caso il numero sarebbe il genere e pari e dispari le specie; il numero sarebbe l’universale e le specie il particolare. Lui vuole separarli, ma è costretto ad ammettere che comunque pari e dispari ineriscano, appartengano al numero. Quindi, sono in relazione al numero e, essendo in relazione al numero, sono in relazione tra loro, perché se ciascuna di queste specie è in relazione all’universale, allora anche le specie fra loro sono in relazione.
Intervento: Aristotele dice che non c’è intermedio nei contrari. Ma una relazione c’è, è quella di contrarietà.
Sì, lo dice all’inizio, la relazione li pone tra i contrari, perché la relazione, mettendo in relazione una cosa a un’altra, mette in relazione un qualche cosa con un’altra cosa che la prima non è, sennò sarebbe un’identità e non una relazione. Ha detto bene lei; infatti, nella relazione c’è già l’opposizione: se A è in relazione a B, significa che A non è B e, quindi, si oppone a B, che, direbbe Hegel, è il negativo di A: B nega A. Anche dicendo che A è B, comunque B nega A, perché non è A, sennò avremmo detto A, ma in questo caso sarebbe un’identità. Quindi, nella relazione sono presenti tutti i contrari. Invece, tra i contrari dei quali non è necessario che l’uno l’altro inerisca all’oggetto, c’è qualcosa di intermedio: il nero e il bianco, ad esempio, si generano per natura in un corpo, e non è necessario che l’uno l’altro inerisca al corpo – non tutto, infatti, è o bianco o nero –… Qualche cosa appartiene al corpo ma non è necessario. Qui interviene la nozione di necessità, che in greco si dice άναγκαῐόν. Sono tutti termini che saranno ripresi da Aristotele negli Analitici ma soprattutto dalla logica medioevale, in particolare nel basso Medioevo, perché nell’alto Medioevo, invece, prevaleva il pensiero agostiniano; dopo mille anni o poco meno – si considera l’alto Medioevo dalla caduta dell’impero romano all’anno mille – ha prevalso in modo assoluto il platonismo e il neoplatonismo agostiniano. Quindi, dopo sei-settecento anni è difficile che scompaia tutto questo solo perché compare Aristotele, e, difatti, la lettura di Aristotele è stata fatta soprattutto attraverso Porfirio, che è un neoplatonico. Parla poi dell’intermedio. A pag. 131. Tra tali contrari c’è, appunto, qualcosa di intermedio: tra il bianco e il nero ci sono il grigio, il giallo e tutti gli altri colori; tra il pessimo e l’eccellente c’è ciò che non è né pessimo né eccellente. Però, qui la cosa interessante è che lui nota che nelle altre categorie la loro opposizione netta e determinata, tale per cui tertium non datur, rimane sfumata. A proposito della privazione e del possesso, che sono delle categorie, a pag. 135. Che la privazione e il possesso non si oppongano al modo dei relativi è evidente. Ciò che essi sono non si dice, infatti, del loro opposto: la vista non è “vista” della cecità, né si dice in altro modo in relazione ad essa; allo stesso modo, la cecità non potrebbe dirsi “cecità” della vista; piuttosto, la cecità si dice “privazione” della vista, e non “cecità” della vista. Questi due termini, vista e cecità, anche in questo caso sono comunque relativi, perché non potrei parlare di cecità se non ci fosse la vista e viceversa, non si porrebbe il problema. E, quindi, la relazione c’è sempre e comunque, perché si dicono: ecco perché c’è la relazione, λέγεται, si dicono, non sono ma si dicono. Cioè, siamo noi che diciamo così, ma diciamo così di cose che noi costruiamo parlando. Ecco perché dicevo prima si era scatenata questa opposizione nel basso Medioevo tra realisti e nominalisti – la cosiddetta disputa sugli universali. Questa cosa in Aristotele è difficile da sostenere, che siano cioè reali o nominali, perché per Aristotele sono sempre cose che si dicono, non c’è questa realtà, non dice che sono così ma che si dicono tali: noi diciamo così, è una nostra costruzione. L’unica cosa che non ammetterebbe il terzo, quindi la relazione, sono i numeri. Certo, pari e dispari, va bene, ma nel numero non c’è mediazione: tra il due e il tre, cosa c’è in mezzo? C’è qualche cosa che fa da intermedio e che unisce il due al tre? È anche il problema di Zenone: io posso tentare di creare un qualche cosa che mi unisca il due al tre, ma incontro il problema del passaggio al limite, che, come sappiamo, la matematica non risolve ma aggira, per cui quando scrive che il limite di x che tende a 1, vale x=1, mente perché non è vero, perché se x tende a 1 vuol dire che non è 1, mentre nel calcolo infinitesimale la cosa scompare del tutto e il limite che tende a 1 diventa 1, e bell’e fatto. Quindi, tra un numero e l’altro c’è quell’infinito, che potremmo chiamare potenziale, perché quanti numeri posso inserire tra il due e il tre? Infiniti. Pertanto, il due non sarà mai il tre. Ecco che quindi potremmo dire, seguendo Aristotele, che tra un numero e l’alto non c’è nessuna relazione, tranne il fatto che entrambe le specie appartengono allo stesso genere, il numero, e, quindi, si trovano necessariamente in relazione. Qui introduce un’altra questione, che è stata poi ripresa nel Medioevo e poi anche oggi, e cioè il problema del divenire. Il divenire è sempre divenire altro chiaramente, sennò rimane lo stesso. Aristotele pone il divenire tra i contrari; in effetti, si oppongono il ciò che è a ciò che questo è diviene, si oppongono perché non sono la stessa cosa, sennò non parlerei di divenire. A pag. 137. Inoltre, nel caso dei contrari, se c’è ciò che è capace di riceverli, è possibile che si verifichi un mutamento dall’uno all’altro, qualora non gliene inerisca uno per natura, come al fuoco l’essere caldo. Cioè, si può passare da una condizione all’altra, a meno che questa condizione non appartenga necessariamente alla cosa. Se una proprietà è necessaria che sia, allora non diviene perché è quella, perché se divenisse non sarebbe più una proprietà di quella cosa. Potremmo fare un esempio che ci riguarda: il linguaggio. Seguendo questa via, potremmo dire che il linguaggio, se divenisse, diventerebbe altro, quindi, se diviene non è linguaggio; per rimanere linguaggio è necessario che non divenga. Ma perché il linguaggio non divenga è necessario, di nuovo, che non si alteri. Ma non abbiamo sempre detto che il linguaggio è relazione? Se è relazione allora è in continuo mutamento; dunque, diviene e, quindi, non è più linguaggio. Questa è la conclusione, apparentemente ineluttabile, del ragionamento di Aristotele. Ma con questo abbiamo affermato che il linguaggio non diviene? No, abbiamo semplicemente costruito delle proposizioni a partire da qualcosa che dice Aristotele. Ciò che è sano può infatti ammalarsi, ciò che è bianco può diventare nero, ciò che è freddo caldo, ecc. A pag. 139. È evidente che tutte quelle realtà che si oppongono come affermazione e negazione non si oppongono in nessuno dei modi di cui abbiamo parlato: solo in questo caso, infatti, è sempre necessario che una di esse sia vera e l’altra falsa. La questione del mutamento Aristotele la lascia così. Chiaramente, non poteva pensare una cosa del genere, perché per lui il linguaggio non era così come lo intendiamo, anche se lui dice, come pure Platone, che il linguaggio è relazione, è il πρός τί, è sempre relazione a. Vi ricordate, λέγειν τί κατά τίνός, dicevano gli antichi, cioè il dire è sempre un dire qualcosa relativamente a qualche cos’altro; quindi, è una relazione, il linguaggio è una relazione, lo sapevano bene. Perché, dunque, dice che non c’è mutazione o, meglio, che la mutazione prevede la negazione di uno dei due opposti? Infatti, se diviene, come abbiamo detto, diviene altro da sé. Però, questa cosa, seguendo Aristotele, posso porla come universale – chi me lo impedisce? – e, quindi, applicarla al linguaggio: se la applico al linguaggio accadono queste cose, e cioè che il linguaggio non è una relazione perché nega il movimento, perché non c’è qualcosa che non è linguaggio. Tutte queste cose sono cose, che noi diciamo, si dicono, λέγεται, non stiamo parlando di enti di natura. Ma se, come dicevo prima, Aristotele sapeva che il linguaggio è relazione, in effetti, tutte queste cose che sta dicendo rispetto alla opposizione avrebbe forse dovuto riconsiderarle meglio. Forse, è anche per questo che alcuni non attribuiscono questo scritto ad Aristotele, o comunque lo ritengono spurio, cioè non puro, non proprio tutta opera di Aristotele ma di qualche allievo, con varie contaminazioni, ecc. Questo modo di porre le questioni logiche già anticipa ciò che vedremo negli Analitici, che costituiscono l’impianto, l’ossatura di tutta la logica fino a oggi. Parlare logicamente significa attenersi alle regole che Aristotele ha stabilito negli Analitici. Ecco, tutto questo anticipa ciò che dicevamo forse l’altra volta, e cioè che la logica è retorica. Quando noi argomentiamo, come facevo io prima rispetto al linguaggio, sì, certo, utilizziamo la logica, ma questa logica sappiamo non essere fondata logicamente ma retoricamente, fondata sulla δόξα. Cosa che sapeva Aristotele perché lui stesso lo diceva nella Metafisica quando cercava il principio primo, e alla fine che cosa trova? Trova la δόξα, il si dice. Ricordate le sue parole: a un certo punto dobbiamo fermarci e, quindi, che cosa prendiamo per vero? Quello che i più saggi dicono, quello che gli antichi hanno tramandato, e questo diventa il vero da cui partiamo, ciò su cui costruiamo tutto. A pag. 141. A un bene è necessariamente contrario un male. Ciò risulta chiaro per induzione… L’induzione è una forma di inferenza, che dice che se una certa cosa è sempre accaduta, probabilmente accadrà anche dopo: questa mattina è sorto il sole, è sorto anche ieri mattina, ma anche l’altro ieri, ecc., quindi, siccome non abbiamo motivo per pensare che domani sarà diverso, presumiamo che domani sorgerà il sole. Questa è l’induzione, cioè un’analogia: siccome è stato sempre così, sarà così anche dopo. Quindi, che a un bene corrisponda necessariamente un male risulta chiaro per induzione, per analogia, perché ci sembra così – è questa l’analogia: un sembrare –, una cosa funziona così, quest’altra è simile, dovrebbe quindi funzionare anche lei nello stesso modo. E, allora, questo “necessariamente” risulta improprio, non è necessario, ma è così per sentito dire, perché si usa pensare così. È necessario che tutti i contrari siano o nello stesso genere o in generi contrari, oppure costituiscano essi stessi dei generi: bianco e nero sono nello stesso genere – il colore, infatti, è il loro genere -; giustizia e ingiustizia, invece, sono in generi contrari… Ci sta dicendo che, perché delle cose siano contrarie, occorre che siano in relazione. Se non c’è nessuna relazione, se non appartengono allo stesso genere, non possiamo parlare di contrari. Simonetta è il contrario di una libreria? Che razza di domanda è? Non può essere il contrario perché non appartiene allo stesso genere. Il contrario è se appartiene allo stesso genere, solo allora si può parlare di contrari; ad esempio, bianco e nero, bene e male, che appartengono allo stesso genere, allo stesso universale. Ma, allora, l’universale – Aristotele non parla propriamente di universale – non è altro che una relazione; è la relazione che hanno una serie di elementi, dei quali diciamo che appartengono allo stesso genere. Quindi, parlare di universali è come parlare di relazione, tant’è che tempo fa abbiamo accostato il linguaggio all’universale. Si parla per universali: ogni volta che si afferma qualche cosa, la si afferma come se fosse un universale e non particolare, cioè, si afferma qualche cosa come se si stesse dicendo che quello che dico corrisponde alla realtà delle cose, le cose stanno così come sto dicendo io: questo è l’universale. Altrimenti, se si trattasse del particolare, dovrei dire che le cose in questo momento preciso a me appaiono in questo modo per questo motivo. Sarebbe la formulazione più corretta, per cui le cose non stanno così, ma a me, in questo momento, date queste circostanze, date le mie fantasie, data tutta una serie di cose, appaiono così, in questo istante, magari fra cinque minuti cambia tutto. Che già sarebbe dopo tutto una formulazione problematica, perché mi appaiono così in questo istante, ma quale istante? Occorrerebbe determinare anche quello, ma come lo determiniamo? Quindi, ogni volta che si afferma, si afferma un universale, si afferma un genere, come se si fosse colto il genere dei vari particolari di cui si sta parlando. Ma questo universale non lo sappiamo, ce lo ha detto prima che risulta chiaro per induzione, cioè per analogia: noi parliamo sempre e soltanto per analogia o, se preferite un altro termine, per rappresentazione; cioè, ci rappresentiamo un qualche cosa che, di fatto, non c’è anche quando vediamo qualcuno che appare noto, familiare, noi sappiamo chi è, di fatto, esattamente quella persona? Oppure, ci appare così come ci appare? Questo è sempre stato da migliaia di anni un problema. Che differenza c’è tra una cosa, così come lei è e, invece, come mi appare? Sono la stessa cosa? C’è una relazione tra loro? E se sì, quale? Se c’è una differenza, qual è e perché c’è? Questi sono stati, in fondo, i problemi fondamentali del pensiero: posso cogliere la cosa così come essa è? Dovrei stabilire come è. In base a quali criteri? Come stabilisco che, per esempio, Cesare è Cesare. Sì, mi appare Cesare, certo, ma posso dimostrare, provare in modo assoluto che Cesare è quella cosa che io tra l’altro penso che sia, perché per un altro è un’altra cosa. Quindi, che cos’è realmente Cesare? A questo punto possiamo cominciare a pensare che di qualunque cosa noi possiamo avere solo una rappresentazione; cioè, ci rendiamo presente – in questo caso Cesare – qualche cosa che, di fatto, non è presente, e non è presente perché non lo posso determinare, rimane indeterminabile. La rappresentazione, invece, fa pensare che sia determinato, cioè, Cesare mi appare così, quindi, è così, le cose mi appaiono così, quindi, sono così. È il modo di pensare comune, è il modo di pensare platonico, non aristotelico. Aristotelicamente, io dovrei dire che io sto dicendo che sono così, e lui aggiungerebbe: sono come io sto dicendo, le cose sono il mio dire; mentre per Platone sappiamo che non è così, per lui le cose sono per virtù propria, e tanto basta. Questo è il platonismo, è il fondamento del pensiero corrente: per potere pensare qualunque cosa, noi pensiamo che le cose stiano così; per questo dicevo che ogni affermazione è universale, ogni affermazione dice, in un certo qual modo, com’è l’universo. A pag. 147. Sembrerebbe, tuttavia, che, oltre a quelli di cui abbiamo detto, ci sia ancora un altro senso di anteriorità. Sta parlando degli anteriori. Infatti, tra le cose che si convertono nella sequenza dell’esistere, ciò che è, in qualunque modo, causa dell’esistenza di un’altra realtà dovrebbe essere detto a buon diritto “anteriore” per natura. Se chi mi ha generato è appunto ciò che ha generato me, a buon diritto, direbbe Aristotele, dobbiamo pensare che sia anteriore a me, perché mi ha generato e, quindi, c’era prima che ci fossi io. Sì, ma anche no. Questo perché ciò stesso che Aristotele diceva nella Fisica, così come ce ne ha parlato Heidegger, e cioè di come si sia trovato a un certo punto ad accorgersi che nella relazione – ciascuna cosa, se è, è in una relazione – ciò che è causa del secondo elemento viene dopo il secondo elemento. Lui stesso si sorprendeva di questa cosa: come è possibile, si chiedeva, in questo modo ho creato dal nulla il primo elemento, che non c’è finché non c’è il secondo. Ne parla anche nella Metafisica quando parla di δύναμις e di ἐνέργεια. Quindi, dire che ciò che viene prima è condizione di ciò che viene dopo potrebbe essere problematico. Il fatto che ci sia un uomo, infatti, può essere convertito, secondo la sequenza dell’esistere, con l’enunciato vero su di esso: se c’è un uomo, risulta vero l’enunciato con il quale diciamo che c’è un uomo… Questione ripresa millenni dopo da un logico polacco, Alfred Tarski. …e ciò può essere convertito: infatti, se è vero l’enunciato con il quale diciamo che c’è un uomo, allora c’è davvero un uomo. Però, qui va oltre Tarski, che è rimasto indietro, perché Aristotele dice: se diciamo (λεγόμεν) che c’è un uomo allora c’è un uomo, se lo diciamo allora c’è. Poi, però, si corregge subito. L’enunciato vero, però, non è in alcun modo causa dell’esistenza del fatto; il fatto, piuttosto, si presenta, in qualche modo, come la causa della verità dell’enunciato: quest’ultimo, infatti, si dice vero o falso a seconda che il fatto si dia oppure no. Qui si riprende dicendo che comunque, sì, c’è un uomo se lo diciamo, però, riprende la nozione di verità come adeguamento, come όρθότης, cioè, questa proposizione è vera se le cose stanno proprio così come la proposizione dice. Senza tenere conto del fatto che nelle sue Categorie il vero, cioè l’essere, non è altro che ciò che si dice: è questo il vero, l’ούσία, che non può essere falsa, così come non prevede i contrari, perché l’ούσία è ciò di cui si parla, non c’è un contrario; perché ci sia un contrario occorre che ci siano delle determinazioni. Adesso parla della simultaneità. Si dicono “simultanee”, in senso assoluto e più proprio, le realtà la cui “generazione” avviene nello stesso tempo, in quanto nessuna delle due è anteriore o posteriore. Qui fa un esempio interessante, è il caso del doppio e della metà: c’è prima la metà o prima c’è il doppio? Non c’è un prima o un dopo. Di nuovo qui sta parlando della relazione: nella relazione non c’è un prima e un dopo, ma c’è simultaneità o, come diceva Heidegger, c’è coappartenenza. La coappartenenza è il trovarsi di ciascuno dei due elementi nella precisa condizione tale per cui se manca uno manca anche l’altro. Parla poi del movimento. Lui individua sei specie di movimento. A pag. 151. Del movimento esistono sei specie: generazione, corruzione, aumento, diminuzione, alterazione, mutamento secondo il luogo. A pag. 153. …anche ciò che aumenta o si muove secondo un altro tipo di movimento dovrebbe anche alterarsi. Ci sono, però, alcune cose che aumentano, ma non si alterano: così, se si applica lo gnomone (strumento per misurare), il quadrato aumenta, ma non si altera affatto,… Sì, rimane sempre lo stesso, ma con dimensioni differenti. In senso assoluto, il movimento è contrario alla quiete… Sì, certo, ma l’opposto stesso, per potere esistere, necessita della relazione; se non c’è relazione non c’è opposizione. Lo dicevo prima, Simonetta non è il contrario di questa libreria, perché non appartengono allo stesso genere e, quindi, non possiamo in nessun modo parlare di contrari. Se noi riuscissimo a mettere in relazione Simonetta alla libreria, allora ecco che potrebbe avere un senso la nozione di contrario. Ma se non c’è relazione non c’è contrario; quindi, il contrario, l’opposizione, ecc., sono relazione, né più né meno. Lo stesso universale, dicevamo prima, è una relazione, e con che cosa è connesso? Con il particolare, non c’è universale senza particolare, e viceversa. E con questo abbiamo concluso con le Categorie. Mercoledì prossimo incominceremo a leggere il De Interpretatione.