13 settembre 2017
M. Heidegger, Essere e Tempo
Siamo al § 56, pag. 326. Qui Heidegger sta incominciando a porre alcune questioni a partire, come abbiamo già visto, dalla coscienza. Cerca di cogliere l’Esserci come totalità, come qualcosa che sia possibile controllare, gestire, manipolare.
Del discorso fa parte ciò-di-cui il discorso discorre. Il discorso informa su qualcosa e per un determinato riguardo. Da ciò su cui il discorso verte deriva ciò che il discorso dice in quanto è questo rispettivo discorso, ciò che è detto come tale. Come dire che il discorso dice ciò che dice. Nel discorso, in quanto comunicazione, ciò che è detto è reso accessibile al con-esserci di altri e, per lo più, nella forma dell’espressione linguistica. Nella chiamata della coscienza, che cos’è ciò di cui si discorre? Ovvero che è chiamato nel richiamo? Manifestamente l’Esserci stesso. Questa risposta è tanto incontestabile quanto indeterminata. Poco dopo. Ma l’Esserci è tale nella sua essenza che esso, con l’apertura del suo mondo, è aperto a se stesso, cosicché già da sempre si comprende. La chiamata investe l’Esserci in quanto è già sempre autocomprensione quotidiana, media e prendente cura. La chiamata concerne il Si-stesso del con-essere con gli altri prendendo cura. Questa chiamata non viene da qualcuno ma è l’Esserci che chiama se stesso. Da dove lo chiama? Dal Si, perché la coscienza cerca di trarlo fuori, fuori dalla chiacchiera, in modo che possa avere accesso autenticamente a se stesso, perché finché è nel Si non ha un accesso autentico. Qual è la differenza tra autenticità e inautenticità? Sono inautentico quando dico cose che ho sentito dire, che non sono mie, mi adeguo a ciò che altri dicono. Invece, nel discorso autentico, non parto più da ciò che ho sentito dire ma, dice Heidegger, l’Esserci si riflette su se stesso. Il che significa, per dirla in modo semplice, che le cose che ho sentito dire non bastano più, non sono più sufficienti. Occorre che io rifletta su ciò che sto facendo e incominci a pensare a queste cose, a metterle in gioco, a riflettere, a domandare, in modo che queste cose che penso, vengano da me e non da altri, da un sentito dire, cioè, vengono da una mia riflessione. Che cos’è ciò a cui l’Esserci è richiamato? Al se-Stesso che gli è proprio. Se io penso in base a ciò che ho sentito dire, queste cose non mi appartengono, non sono mie proprie. Non quindi a qualcosa a cui l’Esserci, nell’essere-assieme pubblico, conferisce valore e urgenza di possibilità o di cura, e neppure a ciò che esso ha afferrato, a cui si è dedicato, da cui si è lasciato trascinare. Questa è la chiacchiera: si è fatto trascinare dalle sciocchezze che ha sentito dire in giro. L’Esserci, quale risulta a se stesso e agli altri nell’ambito della mondità, è oltrepassato da questo richiamo. Questo richiamo lo trae fuori, lo chiama fuori dal Si. La chiamata rivolta al se-Stesso ignora del tutto il Si. Non se ne fa più carico, lo abbandona. Poiché soltanto lo Stesso del Si-Stesso è richiamato e indotto a sentire, il Si sprofonda. Il fatto che il Si sprofondi di fronte a questa chiamata è ciò che comporta il passaggio all’autentico. Quando dice che lo Stesso è richiamato al Si-Stesso è come dire che è in gioco il Si. Dice poi, in effetti, che questa chiamata non è una chiamata che ha bisogno di essere comunicata, non c’è qualcuno che chiama. No, questa chiamata della coscienza - perché è la coscienza che chiama, la coscienza è il riflettersi dell’Esserci sull’Esserci – questa chiamata, dice Heidegger, è silenziosa, non dice in effetti nulla. Infatti, a pag. 327, dice La coscienza parla unicamente e costantemente nel modo del tacere. Con ciò essa non solo non perde nulla in fatto di percepibilità… Il fatto che la voce della coscienza sia muta non impedisce il fatto che io la senta. … ma costringe l’Esserci, richiamato e ridestato, al silenzio che gli si addice. Cioè, non ha più da dire sciocchezze, per dirla in modo un po' rozzo. La mancanza di una formulazione verbale di ciò che nella chiamata viene detto non condanna il fenomeno alla nebulosità di una voce misteriosa, ma sta semplicemente a indicare che la comprensione di ciò che nella chiamata “è detto” non può aggrapparsi all’attesa di una comunicazione verbale o di qualcosa di simile. Questo silenzio sta a testimoniare l’abbandono del Si, della chiacchiera. Passiamo a pag. 328, al § 57, La coscienza come chiamata della Cura. La coscienza risveglia il se-Stesso dell’Esserci dalla sua dispersione nel Si. Il se-Stesso richiamato resta indeterminato e vuoto nel suo che-cosa. Questo se-Stesso, che è richiamato dalla coscienza, non è un determinato, non è un qualche cosa di preciso. L’Esserci, in quanto è quel che-cosa che innanzi tutto e per lo più comprende se stesso a partire dall’ente di cui si prende cura, è oltrepassato dalla chiamata. L’Esserci, che è un ente, è quello che comprende se stesso ma a partire dall’ente di cui si prende cura, cioè, a partire dal mondo. Diceva prima, da qualche parte, che si parte sempre dal Si, dalla chiacchiera, è lì che le cose incominciano. E, difatti, per uscirne occorre un percorso, un lavoro. Dunque, l’Esserci è oltrepassato dalla chiamata, vale a dire, attraverso questa riflessione dell’Esserci su se stesso, è come se l’Esserci si oltrepassasse, andasse oltre se stesso. Adesso vedremo come perché la questione è complicata. Vediamo di arrivare al punto centrale. A pag. 328 dice La chiamata non è mai né progettata né preparata né volutamente effettuata da noi stessi. Non siamo noi che ci facciamo la chiamata. “Qualcuno” chiama, contro la nostra attesa e contro la nostra volontà. D’altra parte la chiamata non proviene certamente da un altro che sia nel-mondo-insieme a noi. La chiamata viene da me e tuttavia da sopra di me. È da intendere nel senso che la chiamata viene, sì, da me, dall’Esserci che io sono, ma da sopra di me, perché questo Esserci che io sono è il mondo in cui io sono, che non mi consente di individuarmi come soggetto, come un Io, perché è al di sopra di me. Dirà poi che questo Esserci è gettatezza ed è per questo che non è determinabile, perché essendo sempre gettato l’Esserci è come se diventasse nulla, perché l’Esserci si attua nell’essere gettato, quindi, è sempre avanti: nel momento in cui è gettato, scompare. A pag. 330. Infatti l’Esserci esiste sempre effettivamente. Cosa vuole dire? Che è l’unico di fatto esistente, perché può dirselo: io esisto. Indipendentemente da ciò che questo significhi. Per Heidegger significa che questo ente, che sono io, che è l’Esserci, può riflettere se stesso e, riflettendo se stesso, si accorge che esiste, indipendentemente da ciò che si vuole intendere con esistenza. Esso non è un autoprogettarsi astratto, ma è determinato dall’esser-gettato come il “fatto” dell’ente che è… È sempre gettato in quanto ente, quell’ente che è, e quell’ente che è in quanto è sempre gettato, sempre proiettato in avanti. …giacché esso è già sempre e rimane costantemente consegnato all’esistenza. La sua esistenza consiste in questo: l’essere gettato, l’essere pro-gettato. Il fatto che l’Esserci ci sia effettivamente può restare nascosto quanto al suo perché; il “fatto che” stesso è invece aperto all’Esserci. L’esser-gettato di questo ente fa parte dell’apertura del “Ci” e si rivela costantemente nella rispettiva situazione emotiva. Questa situazione emotiva è quella dell’angoscia, cioè, questo Ci si rivela quando? Nel momento in cui c’è il disorientamento, c’è l’angoscia di fronte al fatto che l’Esserci rileva di sé di essere una semplice pura possibilità. Ma, essendo una pura possibilità, nel momento in cui attua una possibilità, ne scarta altre. Come dire che, nel momento in cui l’Esserci è quello che è, cioè pura possibilità, è come se si annullasse nel momento in cui si progetta e progettandosi sceglie una possibilità, scartando tutte le altre, per cui è come l’Esserci trovasse il suo fondamento sul nulla. Nulla è da intendere qui come il trovarsi ciascuna volta in cui si progetta di fronte al fatto che lui stesso e il suo stesso progetto sono nulla, perché procedono da una mancanza. Heidegger non parla di mancanza perché non è che manchi qualche cosa. Questo nulla è ciò da cui l’Esserci trae il proprio fondamento. Adesso lo dirà in modo forse più comprensibile. Adesso parla del nulla, nulla che è lo spaesamento e, infatti, a pag. 331 dice Lo spaesamento è il odo fondamentale dell’essere-nel-mondo, anche se è quotidianamente coperto. L’Esserci stesso, come coscienza, chiama dal profondo di questo suo essere. “Sono chiamato” è una espressione eminente dell’Esserci. La chiamata, emotivamente pervasa di angoscia, fa sì che l’Esserci possa progettarsi nel suo poter-essere più proprio. La chiamata della coscienza, compresa esistenzialmente, dà ragione di ciò che sopra abbiamo semplicemente affermato: lo spaesamento incalza l’Esserci e minaccia il suo oblio nella perdizione. Ora, ci troviamo di fronte allo spaesamento. Che cos’è lo spaesamento? L’Esserci si trova nel progetto, ma questo progetto, quello che gli è più proprio, e qui torniamo alla questione della morte, è anche la sua fine. A pag. 332. Eppure sembra che l’interpretazione del chiamante – che dal punto di vista mondano è “nessuno” – come potenza riposi sul riconoscimento spassionato della sussistenza di qualcosa di “oggettivamente riscontrabile”. Ma, a ben guardare, questa interpretazione è null’altro che una fuga davanti alla coscienza, una scappatoia con la quale l’Esserci fugge svignandosela lungo il sottile muro che, per così dire, separa il Si dallo spaesamento del suo essere. Qui ci sta dicendo semplicemente che il Si cerca di cacciare via questo spaesamento, non ne vuole sapere. Inoltre questa coscienza universalmente-valida è elevata a “coscienza universale”, la quale, per il suo carattere fenomenico, è un “soggetto neutro”, un “nessuno”, che dunque parla nel singolo “soggetto” proprio in questa sua indeterminatezza. Questa sarebbe la coscienza pubblica che, dice, sarebbe la voce del Si. Ma questo a noi non interessa. A un certo punto torna a parlare della colpa. La colpa connessa con lo spaesamento, la colpa che procede dalla difficoltà dell’Esserci a individuarsi come soggetto. Nel momento in cui l’Esserci è quello che è, cioè, è gettatezza, si trova di fronte alla sua indeterminatezza, non può determinarsi perché, nel momento stesso in cui cerca di farlo, è già gettato in avanti. In questo gettarsi in avanti, rispetto a un progetto, facendo quella scelta ne scarta altre. Quindi, la colpa è questa sensazione, questo stato emotivo, che è poi l’angoscia, procede dall’indeterminatezza strutturale dell’Esserci, che si trova in quella situazione in cui riflette su se stesso ma, riflettendo su se stesso, riflette su qualche cosa che è già proiettato in avanti. Il progettarsi dell’Esserci è un andare avanti, dice Heidegger, ma anche un tornare indietro. È un andare avanti perché comunque è sempre gettato innanzi ma è anche un tornare indietro perché, riflettendosi, riflettendo su se stesso, si trova a cercare di afferrare il se stesso, ma come lo ritrova, se è sempre indeterminato? Lo ritrova sempre in uno spostamento, sempre spostato, sempre gettato in avanti. L’Esserci in quanto tale è questo, l’Esserci autentico non è altro che il prendere atto che io, in quanto Esserci, sono continuamente gettato in avanti e questo mi impedisce di determinarmi come qualche cosa di determinato. Questo mi fa rendere conto che l’Esserci non è altro che possibilità pura, non questa o quella possibilità, ma possibilità pura. Questa possibilità pura comporta la sua indeterminatezza. Essendo l’Esserci possibilità pura c’è sempre qualcosa non soltanto di gettato in avanti ma questa sua gettatezza è esattamente l’Esserci, cioè, l’Esserci trova se stesso in questa gettatezza, in questa indeterminatezza, costantemente. Questo è l’Esserci autentico: il cogliere il se stesso dell’Esserci, in quanto indeterminatezza e in quanto gettatezza. Io sono continuamente questa gettatezza, l’Esserci non è qualche cosa o qualcuno, è questa gettatezza continua, che in nessun modo può arrestarsi. A pag. 339. …l’esser-colpevole non è il risultato di una colpevolezza, ma, al contrario, questa diviene possibile solo “sul fondamento” di un esser-colpevole originario. È possibile porre in luce qualcosa di simile nell’essere dell’Esserci? E come è possibile, in generale, sul piano esistenziale? L’essere colpevole procede da un essere colpevole originario, che è determinato nell’angoscia ed è il cogliersi come quel progetto continuo, sempre gettato, quindi mai determinato, mai coglibile in qualche modo. Ricordate che Heidegger aveva questa idea di cogliere l’Esserci come un tutto, però, si pose questo problema, per cui se l’Esserci non è altro che gettatezza quando mai posso coglierlo? È impossibile. L’essere dell’Esserci è la Cura. Di che cosa è fatto l’Esserci? Di Cura, cioè, di prendersi cura del mondo. Cura qui non nel senso di terapia ma di un prendersi cura, di un occuparsi di qualche cosa in modo prioritario. Ora, potremmo dire qui che se fosse così, se l’essere dell’Esserci fosse la Cura, la Cura allora è qualcosa, quindi, un ente e, pertanto, l’essere è un ente. Non è che Heidegger non si sia accorto di queste cose e, infatti, a un certo punto, più in là negli anni, comincia a scrivere l’essere, Sein, prima barrato, poi con la y, poi gli fa una gabbietta, insomma le studia tutte per dire che lui parla dell’essere ma che in realtà non ne può parlare, cioè, che parla di qualcosa di cui non potrebbe parlare, se ne parlasse lo porrebbe come un ente. Lui dice che L’essere dell’Esserci è la Cura, ma la Cura è un ente e, quindi, anche l’essere è un ente. E la differenza ontologica, dove la mettiamo? In ogni caso, a parte questo, il dire che l’essere dell’Esserci è la Cura è come dire che ciò di più proprio che appartiene all’Esserci è il prendersi cura del mondo, occuparsi del mondo, essere nel mondo. Essa comprende in sé l’effettività (esser-gettato), l’esistenza (progetto) e la deiezione. Questi tre aspetti sono ciò di cui è fatta la Cura. In quanto è, l’Esserci è stato-gettato, cioè non si è portato nel suo Ci da se stesso. Chi ce l’ha portato? Non è qualcuno che lo ha portato. Heidegger si arrampica un po' sugli specchi, potremmo dire più semplicemente che ciò che lui chiama Esserci, cioè la persona, è gettata nel mondo dal linguaggio. È il linguaggio che lo getta nel mondo, volendo usare i suoi termini, che fa esistere il mondo. Essendo, l’Esserci è determinato come un poter-essere che appartiene a se stesso… Questo poter essere appartiene a se stesso o, più propriamente, all’Esserci. …ma tuttavia non in quanto esso stesso si sia conferito il possesso di sé. Non è che l’Esserci sia padrone di sé. Intanto, è stato gettato, la sua esistenza non è altro che essere un progetto e la sua effettualità consiste nell’essere continuamente gettato. Quindi, in che modo potrebbe possedersi? Possedere che cosa, a questo punto? Esistendo, esso non può risalire oltre il proprio esser-gettato… Cioè, dal momento in cui esiste, l’Esserci non può tornare indietro: una volta che l’Esserci è gettato diventa quella cosa cui si riferisce Heidegger, cioè un progetto sempre gettato, non può cessare di esserlo, così come quando si è nel linguaggio non si può cessare di essere nel linguaggio. …come se il “che c’è e ha da essere” potesse essere prodotto dal suo essere se-Stesso e portato come tale nel Ci. Come se il fatto di essere gettatezza fosse qualcosa che lui stesso si è dato. No. Ma l’esser-gettato non precede l’Esserci come un evento fattuale, irrelativo all’Esserci e semplicemente accaduto ad esso… Perché sembrerebbe così che l’esser gettato sia qualcosa che lo precede: a un certo viene gettato e da quel momento Esserci. No, dice Heidegger. …l’Esserci, in quanto è, è costantemente (in quanto Cura) il proprio “che”. Cosa vuol dire questo? L’Esserci in quanto è costantemente il proprio “che”. In quanto è, cioè in quanto esiste, esiste costantemente. Ma come esiste? Esiste in quanto gettatezza. Quindi, la gettatezza non precede l’Esserci, né temporalmente né in qualunque altro modo. La gettatezza e l’Esserci sono la stessa cosa. Come dire, rispetto al linguaggio, che nel momento in cui io sono nel linguaggio è come se lo fossi stato da sempre, perché non posso più tornare indietro né posso pensare a come sarebbe se non fossi nel linguaggio. Dal momento in cui sono gettato nel linguaggio lo sono sempre stato, da quel momento lo sono sempre già stato. Ma in qual modo l’Esserci è questo fondamento che è stato-gettato? L’Esserci come fondamento di se stesso: l’unico fondamento che ha l’Esserci è l’Esserci. Unicamente progettandosi nelle possibilità in cui è stato-gettato. È questo il fondamento di sé, il fatto di essere nel progetto. Il se-Stesso, che come tale ha da porre il fondamento di se stesso, non può mai insignorirsi di questo fondamento, ma, esistendo, ha da assumere l’esser-fondamento. L’aver da essere il proprio gettato fondamento è il poter-essere in cui ne va nella Cura. Questa frasetta richiederebbe un’oretta di discussione. Dunque, dice, il se-Stesso, l’Esserci, che pone se stesso come fondamento, non ne ha altri, come dire che il linguaggio ha se stesso come fondamento, non trae fondamento da altro, da qualcosa fuori del linguaggio. Questo se-Stesso non può mai insignorirsi di questo fondamento, cioè, dominare, controllare questo fondamento perché, dice, esistendo, ha da assumere l’esser-fondamento. Quindi, è questo fondamento, non è che c’è l’Esserci e c’è il fondamento ma l’Esserci è il fondamento, sono la stessa cosa. Per esserne padrone dovrebbe porsi fuori, in un certo qual modo. Essendo-fondamento, cioè esistendo come gettato, l’Esserci è sempre indietro rispetto alle proprie possibilità. Esso non è mai esistente davanti al proprio fondamento, ma sempre solo dal proprio fondamento e in quanto proprio fondamento. Se l’Esserci è fondamento di sé, cioè esiste in quanto gettato, l’Esserci è sempre indietro alle proprie possibilità, perché le proprie possibilità sono ciò che sono gettate innanzi e l’Esserci ha ancora da scegliere la possibilità, non in termini temporali, però, è come dire che l’Esserci non è mai davanti, come dice Heidegger, al proprio fondamento, all’essere gettato, perché l’Esserci è questo essere gettato e, pertanto, non lo può precedere. Esser-fondamento significa, quindi, non esser mai, dalle fondamenta, signore dell’essere più proprio. (pagg. 339-340) L’Esserci si pone, sì, come fondamento si sé ma proprio per questo, dice Heidegger, non è mai signore dell’essere più proprio, non è mai padrone di questa gettatezza, dato che l’essere più proprio è la gettatezza. Non è mai padrone, quindi, non controlla la gettatezza, perché è lui, l’Esserci, la gettatezza. Questo “non” rientra nel senso esistenziale dell’esser-gettato. Questo “non” non va inteso negativamente, come negazione, ecc., ma va posto in modo esistenziale, e cioè come qualcosa che appartiene all’essere dell’Esserci. L’Esserci, essendo-fondamento, è, come tale, una nullità di se stesso. Perché non è padrone della gettatezza e, poiché lui è gettatezza, non è padrone di niente. Questo se stesso diventa nulla perché ciò che dovrebbe essere lo sarebbe se potesse controllarlo, se potesse controllare se stesso, ma non lo può fare. Ma “nullità” non significa affatto non esser-presente, insussistenza; essa concerne un “non” che è costitutivo dell’essere dell’Esserci, del suo esser-gettato. Il carattere di “non” di questo “non” può essere determinato esistenzialmente come segue: essendo se-Stesso, l’Esserci è l’ente gettato che è in quanto è se-Stesso… È se stesso in quanto è gettato. …non è in virtù di se stesso, ma è lasciato essere in se stesso a partire dal fondamento, per avere da essere questo fondamento. Questo Esserci ha a che fare con il nulla, perché l’essere dell’Esserci… che poi lo porterà a dire che l’essere è il nulla, è il nulla perché io non posso determinare questo Esserci, questo Esserci non è padrone della propria gettatezza, è il fondamento di se stesso ma questo fondamento è di nuovo la gettatezza stessa. Questo lo porta a dire, come aveva fatto prima, l’Esserci, essendo fondamento, è come tale una nullità di se stesso. Il fatto che sia una nullità di se stesso ha delle implicazioni, ovviamente. Intanto, la questione dell’angoscia, perché se l’Esserci, cioè io, volessi determinarmi, volessi essere padrone della mia gettatezza, tutte queste operazioni non riescono perché questo Esserci, essendo gettatezza ed esistendo solo nel progetto, è sempre spostato in avanti, è sempre pro-gettato. Quindi, io voglio cogliere l’Esserci e mi ritrovo nulla. L’Esserci non è esso stesso il fondamento del suo essere nel senso che questo fondamento derivi da un progetto dell’Esserci; … Cioè, da una volontà: io voglio essere il mio fondamento. No, dice, non avviene così. …ma l’Esserci, nel suo essere se-Stesso, è l’essere del fondamento. L’Esserci, in quanto se stesso, se è se stesso, è anche il suo fondamento. Questo sarebbe l’Esserci autentico, cioè l’Esserci che, riflettendo su se stesso, ritrova l’Esserci, perché se l’Esserci riflette su sé ritrova l’Esserci in quanto gettatezza, in quanto pura possibilità. Questo fondamento è sempre e solo fondamento di un ente il cui essere ha da assumere l’esser-fondamento. Il fondamento è il fondamento di un ente il cui essere, ciò che lo fa essere in quanto ente, ha da assumere l’essere fondamento, cioè, questo essere non è nient’altro che essere fondamento, essere gettatezza. È come qualcosa che gira su se stesso, l’Esserci che vuole controllarsi si ritrova invece a essere se stesso, cioè, si ritrova nella gettatezza, si ritrova nella impossibilità di determinarsi in quanto qualche cosa, perché è già gettato innanzi, perché già non c’è più, e quindi si ritrova in quanto nulla. …essendo come poter-essere, l’Esserci è sempre o nell’una o nell’altra possibilità; non è mai l’una e l’altra, poiché, nel progetto esistentivo, ha sempre rinunciato a una. Il progetto, in quanto sempre gettato, non è soltanto determinato dalla nullità dell’esser-fondamento… L’esser fondamento come nullità. Il fondamento è il fondamento di una gettatezza, cioè di qualcosa che è sempre altrove. Da qui la questione dell’alienazione che è simile, in buona parte, a quella sostenuta da Marx, anche se lui partiva da altri presupposti. Il progetto, in quanto sempre gettato, non è soltanto determinato dalla nullità dell’esser-fondamento, ma è essenzialmente nullo proprio in quanto progetto. il progetto, dice, è determinato dall’essere nullo in quanto progetto, perché questo progetto ha come fondamento nulla, quindi, il progetto è nulla. Questa determinazione non indica affatto, daccapo, una qualità ontica come l’“inefficienza” o il “disvalore, ma è un costitutivo esistenziale della struttura dell’essere del progettare. Il fatto è che il fondamento è nulla e che, quindi, il progetto è nulla. La nullità di cui parliamo fa parte dell’esser-libero dell’Esserci per le sue possibilità esistentive. Ma la libertà è solo nella scelta di una possibilità, cioè nel sopportare di non-aver-scelto e di non-poter-scegliere le altre. Questo essere una possibilità pura comporta comunque di trovarsi sempre di fronte al fatto che se io scelgo una direzione evidentemente rinuncia a quell’altra. Tanto nella struttura dell’esser-gettato quanto in quella del progetto è insita per essenza una nullità. Essa è il fondamento della possibilità della nullità dell’Esserci non-autentico nella deiezione, in cui esso già da sempre effettivamente è. La Cura stessa, nella sua essenza, è totalmente permeata. Come dire che la Cura, il prendersi cura del mondo, l’essere nel mondo, è permeato di nullità. Di fatto, ci sta dicendo che se volessimo cercare e trovare il fondamento di questo Esserci troviamo nulla perché, come ho già detto prima, l’Esserci è quell’ente, di cui ne va dell’essere se stesso per se stesso, ne va nel modo della gettatezza, dell’essere sempre altrove, perché l’Esserci è in quanto è “soltanto” nella gettatezza, nel progetto, nell’essere progettato. Se dovessimo trovare una connessione con la questione del linguaggio, dovremmo dire che ciò che si dice, una parola, è tale in quanto è sempre gettata. La parola si dice ed è in questa sua gettatezza che consiste l’essere parola. Potremmo porre la questione anche rispetto al significante: il significante è tale in questo suo essere detto, cioè nella sua gettatezza. In questa gettatezza, tuttavia, il significante non è gestibile, non è controllabile, determinabile. Anche de Saussure parlava dell’indeterminatezza del significante, il quale è quello che è in una relazione differenziale con tutti gli altri significanti; è quello che è in questa relazione, cioè, nell’essere gettato continuamente in una relazione, non posso isolarlo, bloccarlo. Se lo isolo, se lo blocco, il significante svanisce. Ora, se il significante si dà in questa gettatezza, faccio un riferimento ad Heidegger e anche alla linguistica, in questo essere sempre preso in una relazione, è chiaro che il significante in quanto tale è nulla. Adesso ho fatto questo rapporto con la linguistica, però, quello che sta dicendo Heidegger è questo, e cioè, se all’Esserci tolgo la gettatezza, è nulla, perché viene da nulla. È nulla nel senso che ciascuna volta in cui si dà l’Esserci in questa gettatezza, che peraltro è, l’Esserci si annulla, così come il significante si annulla. E se io voglio trovare il fondamento del significante trovo nulla, trovo linguisticamente una combinatoria di relazioni ma il significante in quanto tale è nulla. È la stessa cosa che anche Hjelmslev riscontrò rispetto al fonema, la minima unità di suono. Questo fonema è la condizione del dire, perché se non ci fossero i suoni come potrei dire? Però, questa cosa che è a condizione, a fondamento, è nulla. Lui faceva l’esempio del fonema “p”: questa “p” io non ce l’ho in quanto tale, ho soltanto delle esecuzioni della “p”, esiste soltanto nelle sue esecuzioni, nella sua gettatezza. Tolte tutte le esecuzioni, tolta la sua gettatezza, questa “p” ideale non esiste. È come il triangolo, anche quello esiste nelle sue esecuzioni ma il triangolo in quanto tale dove sta?
Infatti, dice a pag. 341 La nullità esistenziale non ha affatto il carattere di una privazione, di una manchevolezza rispetto a un ideale proclamato e non raggiunto dall’Esserci. È l’essere di questo ente a esser nullo precedentemente a tutto ciò che può progettare e per lo più raggiunge, a esser nullo già come progettare. La nullità non compare occasionalmente nell’Esserci per inerirgli come una qualità oscura che esso potrebbe anche rimuovere nel giro di tempo necessario. Sta dicendo che questo essere nullo è qualcosa che precede tutto ciò che può essere progettato, perché questo nullo è il fondamento stesso, cioè, è l’Esserci che è nullo. L’Esserci è nullo nel senso che, come dicevo prima, non può essere determinato, individuato, reificato, oggettivato. Ciò nonostante il senso ontologico della nullezza di questa nullità esistenziale resta ancora oscuro. E ciò vale anche per l’essenza ontologica del “non” in generale. Più avanti dice L’ente il cui essere è la Cura non solo si può coprire di colpe effettive, ma è colpevole nel fondamento del suo essere; questo esser-colpevole costituisce la condizione ontologica della possibilità che l’Esserci, esistendo, diventi colpevole. La colpevolezza è il fatto di non poter essere mai l’ultimo progetto, quello che sarebbe il progetto più proprio dell’Esserci, quello che chiude ogni possibilità perché è l’ultimo, la morte. Nel momento in cui si attua l’Esserci scompare. Sta qui la colpevolezza che l’Esserci avverte sotto forma di angoscia: nella nullità del proprio fondamento, nel senso della impossibilità di dare un volto a questo fondamento.
Il Si fa di tutto per evitare il confronto con l’Esserci più autentico. L’Esserci autentico si confronta con il nulla, con l’assenza di un fondamento che abbia una forma, di un fondamento che sia fondato. Il Si cerca di coprire questa angoscia attraverso la chiacchiera, attraverso il “si dice così, quindi, io faccio così e sono a posto”, però, come dice Heidegger, questa angoscia comunque compare, poi viene coperta di nuovo, però, questa sensazione di nullità negli umani c’è. Questa sensazione di nullità viene dal fatto che non c’è fondamento, che il fondamento non è altro che l’essere gettato, mentre in genere con fondamento si intende qualcosa di solido, su cui si appoggia e da cui si costruisce. In questo caso, invece, il fondamento è ciò che di più proprio è dell’Esserci, cioè il fatto di essere gettato.