13 agosto 2025
Agostino d’Ippona De Trinitate
Leggendo Agostino mi si è posta una questione che riguarda il linguaggio. La domanda è questa: il linguaggio produce gli enti al solo scopo di dominarli, cioè, di significarli? È tutto lì, o c’è dell’altro? Il linguaggio crea, nel senso che produrre nel suo svolgersi. Come se lo scopo fosse unicamente quello di controllare, di gestire il significato che si produce. Qui il termine scopo non quello più appropriato, perché il linguaggio, come qualunque altra cosa, non ha nessuno scopo se non quello che io gli attribuisco.
Intervento: Mi e venuta in mente la formula del Credo Niceno “generato non creato”. È lo stesso problema che stiamo affrontando adesso, perché il creare attribuisce uno scopo legato al controllo: creo qualcosa di altro da me…
Questo fu un problema teologico: se il Figlio è creato vuole dire che non c’era prima di Dio e, dunque, Dio a questo punto non è stato un tutto fin dall’inizio, ma ha incominciato a esserlo dopo. Se, invece, avviene per generazione, per processione, come diceva Plotino, allora mentre c’è l’uno immediatamente c’è anche l’altro, inesorabilmente. È una produzione nel senso della poiesis greca. In effetti, pensate alla formula greca λέγειν τί κατά τίνός, se io dico, dico necessariamente qualcosa. Questo qualche cosa è generato oppure creato? Né l’uno né l’altro. Questo qualche cosa, cioè il τί è il λέγειν, nel senso che non si possono in nessun modo separare. Λέγειν τί: dicendo dico qualcosa. Questo qualche cosa, che esiste mentre dico, che faccio esistere semplicemente dicendo, è ciò che il linguaggio immediatamente produce mentre si fa. Ora, questa produzione, il τί, il qualche cosa, è sempre in vista di qualche cos’altro, il κατά τίνός, cioè, verso altro. E, allora, avviene una cosa del genere: parlo, parlando produco il τί perché, se dico, dico, qualche cosa, ma questo qualche cosa perché sia utilizzabile per il κατά τίνός, cioè, verso qualche cos’altro, per l’altro rinvio, deve essere determinato, deve essere qualche cosa. Da qui la necessità di significarlo. A questo punto, significarlo, controllarlo, gestirlo, sono la stessa cosa. E, allora, da tutto questo verrebbe che il linguaggio produce enti, e cioè il τί, per significarlo, cioè, per poterlo utilizzare per parlare. Se fosse così come mi è apparso, se fosse così in questi termini, la cosa diventa complessa e anche interessante perché a questo punto noi parleremmo, parlando produciamo gli enti, il τί, ma questi enti per potere essere utilizzati devono significare, cioè, hanno bisogno di un significato, che gli viene dal κατά τίνός, che non è altro che il rinvio. Cioè, tutto ciò che si vede, che si pensa, tutto ciò con cui si ha a che fare è ciò che la mia parola produce, sempre nel senso della poiesis greca. Tutto ciò che io vedo, incontro, manipolo, ecc., non è altro che il τί del λέγειν, il qualcosa, che inesorabilmente si produce con il λέγειν, perché appunto dicendo dico necessariamente qualcosa, sennò non dico. In effetti, questa cosa ogni tanto compare in Agostino, e poi dopo anche in altri: ogni tanto compare questa idea che siamo noi a produrre le cose. Uno degli ultimi è stato Berkeley, anche se non l’ha posta in questi termini, ovviamente. Ma pensateci bene, parlando, come dicevo, dicendo dico qualcosa. Questo qualcosa che dico di per sé non è determinabile, perché per determinarlo mi trovo preso in un processo all’infinito; quindi, devo fermarlo per poterlo usare, per potere continuare a parlare, cioè, devo significarlo. Ecco la necessità, una volta che si è prodotto il τί, di doverlo controllare per poterlo usare, cioè, per potere continuare a parlare.
Intervento: Non è il κατά τίνός che dà il significato al τί?
Sì. Teniamo sempre conto che il significato non è altro che un rinvio.
Intervento: Il λέγειν τί senza il κατά τίνός non significa nulla. Dico qualcosa ma quel qualcosa, per essere determinato, ha bisogno del κατά τίνός.
E qui sta la differenza tra questa posizione e la posizione religiosa, perché κατά τίνός fornisce, sì, il significato, ma non tornando indietro, non torna affatto, ma procede, procede su altro, non c’è nessun ritorno, da nessuna parte.
Intervento: Come se producesse un altro τί, che ha bisogno di un altro κατά τίνός.
Esattamente, in continuazione, senza soluzione di continuità. Questo può essere interessante se riferito a ciò che si pensa continuamente.
Intervento: Più che altro anche alla coesistenza dell’uno e dei molti, perché il linguaggio che è il λέγειν τί κατά τίνός, l’essere quello uno produce…
Sì, perché il τί sono i molti del λέγειν, che è uno. La parola che io dico è quella, ma è quella in quanto c’è il τί, in quanto dice qualcosa, e questo qualcosa sono i molti. E questi molti immediatamente rinviano a altri molti, che sono il κατά τίνός, cioè, non si ferma lì, naturalmente, perché sennò il linguaggio si fermerebbe.
Intervento: Non pensavo al τί come ai molti…
Perché ci sia un qualche cosa occorre che questo qualche cosa rinvii a sua volta ad altro, in questo processo ininterrotto. Il qualcosa è ciò che non è determinabile in quanto tale perché è un qualcosa. Se io dico, la parola che dico è quella, che dice qualcosa. Che cosa? Vuole dire infinite cose. Naturalmente, questo non si ferma lì, perché questo qualcosa è qualche cosa in quanto rinvia ad altro - ecco il κατά τίνός - è rivolto verso qualche cosa. Perché sennò, posta così come dice lei, se il τί fosse l’uno, allora il λέγειν dove lo mettiamo? È solo una questione puramente, come dire, logica.
Intervento: La formulazione religiosa mi sembra sia il λέγειν τί senza il κατά τίνός
La formulazione religiosa è quella che fa in modo di tornare all’uno, è quella di Hegel, della dialettica hegeliana, e cioè, per usare i suoi termini, l’in sé e il per sé e poi il ritorno all’uno, e allora diventa l’in sé e il per sé, diventa il tutto, l’intero, diventa lo Spirito assoluto, per via di questo ritorno, che invece non c’è nell’esempio che facevo, non c’è nessun ritorno. È questo che lo pone a distanza infinita dalla religione, perché non c’è ritorno, cioè, non c’è salvezza, perché solo se c’è ritorno c’è salvezza. Lo diceva anche Plotino: tornare all’Uno è la salvezza. Però, è una questione appena abbozzata, sulla quale lavoreremo perché è abbastanza complessa. Siamo al Libro ottavo, 2.8. Non cercare di sapere cos’è la verità, perché immediatamente si interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo, quando ti ho detto verità. Resta che poi, nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia, quando ti ho detto: Verità. Cioè, lui si rende conto, sa che la verità non è un prodotto della logica, non si raggiunge la verità. Lui la dice un po’ retoricamente: le nubi, i fumi, le caligini, ecc., che ti impediscono di vederla. L’unica verità è quella che non si vede con gli occhi, la si sente. La verità non è un prodotto logico. Cosa che invece ha tentato di fare Anselmo, e cioè produrre Dio, quindi la verità, attraverso un calcolo logico. 3. 4. Infatti, fra tutti questi beni - quelli che ho ricordato, o altri che vedono o si immaginano - noi non potremmo dire che uno è migliore dell’altro, quando noi giudichiamo secondo verità, se non fosse impressa in noi la nozione del bene stesso, regola secondo la quale dichiariamo buona una cosa e preferiamo una cosa ad un’altra. Come dire che abbiamo dentro il concetto di verità e, quindi, di bene. È qui che sorge l’anima bella: ciò che io sento dentro è vero perché lo sento, e ciò che sento dentro è il fine. Originariamente perché questo bene viene da Dio, ma in ogni caso viene da dentro, viene dal cuore. 6. 9. Facciamo dunque insieme un passo indietro ed esaminiamo perché amiamo l’Apostolo. Si riferisce a Paolo. È forse perché, grazie al concetto di natura umana, che conosciamo benissimo, crediamo che fu un uomo? Certamente no, perché altrimenti non esisterebbe ora l’oggetto del nostro amore, dato che egli non è più uomo in quanto la sua anima è stata separata dal corpo. Ma ciò che amiamo in lui noi crediamo che viva ancora adesso; amiamo infatti la sua anima giusta. Ed in virtù di quale norma generica e specifica, se non perché sappiamo che cos’è un’anima e che cosa è un giusto? Sta dicendo che noi dobbiamo già avere queste nozioni, non possiamo dedurle logicamente. Se le abbiamo già, da dove ci vengono? Questa è la questione di Agostino: non possono che venirci da Dio, perché il concetto di verità, con la V maiuscola, da dove può venire? Non da Tizio o da Caio, soltanto Dio possiede la verità. Quindi, se noi abbiamo questo concetto di verità, ci viene naturalmente da Dio: l’argomentazione è questa. C’è infatti una cosa conosciuta più intimamente, che senta con più chiarezza la sua esistenza, di ciò con cui sentono anche tutte le altre cose, cioè l’anima stessa? Io sento le cose, le sento dentro, e ciò che me le fa sentire è l’anima, le sento perché ho un’anima, e quest’anima me l’ha data Dio, sennò non potrei sentire niente. Perché anche i movimenti dei corpi per mezzo dei quali percepiamo che vivono altri esseri oltre a noi, noi li conosciamo per analogia con noi, in quanto anche noi è grazie alla vita che muoviamo al nostro corpo, come vediamo che si muovono quei corpi. Infatti, quando si muove un corpo vivente, non si apre ai nostri occhi alcuno spiraglio per cui possiamo percepire l’anima, realtà che non si può vedere con gli occhi. Ma noi percepiamo che c’è in quella massa corporea un principio analogo a quello che in noi muove similmente la nostra massa. Questo principio è la vita, è l’anima. In altri termini, noi conosciamo le cose perché Dio ci ha dato un’anima. Questa è la teoria della conoscenza, la gnoseologia di Agostino. L’anima qui ha già un significato che non è più quello greco di ψυχή. Ψυχή in greco non è l’anima di cui parla l’Agostino, cioè un qualche cosa che in fondo sento, perché non può che venire da Dio; la ψυχή, invece, è l’umano con tutto il bagaglio di informazioni che possiede, ecc. Ricordate il famoso esempio di Heidegger: ψυχή è il tizio che legge il giornale, che, quindi, ha già acquisito una quantità enorme di competenze per potere leggere il giornale. E qui come spiega il fatto che sappiamo di avere un’anima? Torna la questione di prima: perché sappiamo che cosa è giusto e che cosa è vero, lo sappiamo intimamente e questo sapere intimamente è ciò che chiamiamo anima. 6. 9. Quando cerco di parlarne (del giusto) non ne trovo l’idea altrove, ma solo in me; e se chiedo ad un altro che cosa sia il giusto, è in sé stesso che egli cerca ciò che deve rispondere, e chiunque su questo punto può rispondere il vero, trova in se stesso che cosa può rispondere. Questo per dire - è questa la cosa che a noi in fondo interessa - che tutti questi concetti non possono essere fatti con certezza, logicamente. Cosa che invece poi si cercherà di fare, già nel basso Medioevo. Lui si accorge, sa a modo suo che non c’è la possibilità di dimostrarli, e quindi ecco Dio. Qui sta parlando della verità, che si ama. Dunque, l’uomo che è ritenuto giusto e amato secondo la verità che contempla ed intuisce in sé colui che ama; questa verità ideale, però, non si ama per un motivo diverso, ma per se stessa. Qui incomincia ad apparire una questione, l’anima bella che, come vi ha accennato all’inizio, ama il prossimo, non per il prossimo in quanto tale, ma perché lo vuole Dio. Cioè, lo ama perché è giusto così, perché è bene fare così; del prossimo in quanto tale non gliene importa niente, gliene importa in quanto è Dio che lo vuole. 7. 10. Qui si interroga sull’amore. Perciò in questa questione sulla Trinità e la conoscenza di Dio, dobbiamo principalmente indagare che cosa sia il vero amore o, meglio, che cosa sia l’amore, perché non c’è amore degno di tal nome che quello vero; il resto è concupiscenza. L’amore vero è quello di Dio, naturalmente. Quindi, amare il prossimo per il prossimo in quanto tale sarebbe per Agostino concupiscenza e non vero amore, perché il vero amore è l’amore che io ho per Dio e, quindi, avendo l’amore per Dio, a questo punto posso amare anche l’altro. Ed è improprio dire amano gli uomini dominati dalla concupiscenza, come dire che sono dominati dalla concupiscenza gli uomini che amano. Ora il vero amore consiste nell’aderire alla verità per vivere nella giustizia. Dunque, disprezziamo tutte le cose mortali per amore degli uomini, amore che ci fa desiderare che essi vivano nella giustizia. Cioè, noi amiamo gli uomini non per loro ma perché vogliamo che loro vivano nella giustizia, e io sono quello che farà in modo che vivano per la giustizia, volenti o non volenti. Allora potremmo aggiungere anche al punto di essere disposti a morire per il bene dei nostri fratelli... O a far morire. …come il Signore Gesù Cristo, che ci ha insegnato con il suo esempio. Benché vi siano due precetti dai quali dipende tutta la Legge ed i Profeti: l’amore di Dio e l’amore del prossimo, ma non è senza motivo che la Scrittura di solito ne ricordi uno per tutti e due. L’amor di Dio e l’amore del prossimo sono la stessa cosa. Talvolta parla solo dell’amore di Dio, come in questo passo. Sappiamo per coloro che amano Dio, egli fa concorrere tutto al bene. /…/ Talvolta, la Scrittura ricorda soltanto l’amore del prossimo, come nel passo: Sopportate gli uni i pesi degli altri e così adempirete in questo solo comando: Ama il prossimo tuo come te stesso. /…/ E noi incontriamo nelle sante Scritture molti altri passi, in cui solo l’amore del prossimo sembra comandato per la perfezione… È comandato. Non è qualcosa che una persona fa naturalmente ma è comandata. Questo però comporta un’altra questione, e cioè: se conosco il bene allora è come se fossi comandato di fare in modo che anche altri conoscano e accolgano questo bene, inevitabilmente. Tutto questo per il loro bene, s’intende. 8. 12. Carissimi, amiamoci vicendevolmente perché l’amore viene da Dio; colui che ama è nato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. Questo concetto mostra in maniera sufficiente e chiara che questo amore fraterno – infatti, l’amore fraterno è quello che ci fa amare ingannevolmente - non solo viene da Dio, ma che, secondo una così grande autorità, è Dio stesso. 10.14. Che è dunque l’amore o carità, tanto lodato e celebrato dalle divine Scritture, se non l’amore del bene? C’è l’amore del bene prima di tutto: è per amore del bene che io sono come comandato a giudicare l’altro e, quindi, a redimerlo, correggerlo. Ma l’amore suppone uno che ama e con l’amore si ama qualcosa. Ecco tre cose: colui che ama, ciò che è amato e l’amore stesso. Che è dunque l’amore se non una vita che unisce o che tende a che si uniscano due esseri, cioè colui che ama e ciò che è amato? Questo è l’altro modo per pensare questa cosa che lui ha sempre in mente, cioè il ritorno all’Uno, il fare Uno. Che poi è rimasto anche oggi, quando si pensa all’atto della copula tra uomo e donna, per cui i due fanno uno. È così anche negli amori più bassi e carnali, ma per attingere ad una fonte più pura e cristallina, calpestiamo con i piedi la carne ed eleviamoci fino all’anima. Che ama l’anima in un amico se non l’anima? Rispetto alla donna non è specificato, non ci dà indicazioni precise. Anche qui, dunque, ci sono tre cose: colui che ama, ciò che amato e l’amore. Ci rimane di elevarci ancora e cercare più in alto queste cose, per quanto è concesso all’uomo di farlo. Questo cercare sempre più in alto, fino ad arrivare all’Uno: questo è Platone. Libro nono. Qui ci saranno parecchie cose da leggere, soprattutto verso la fine. 4.7. Ci sono dei corpi che non si possono assolutamente sezionare e dividere... Qui ha sempre in mente la Trinità. È come se dicesse: guardate che non potete dividere la Trinità tra Padre, Figlio e Spirito Santo come se fossero tre cose diverse, perché sono la stessa unica sostanza. La parte dunque dice in relazione al tutto, perché ogni parte è parte di un tutto e il tutto è tutto per tutte le sue parti. Ma poiché parte e tutto sono corpi, essi non hanno solo valore relativo, ma esistono anche in senso sostanziale. Poi, fa degli esempi. Però, la cosa è interessante non è tanto quello che dice in quanto tale, ma la forma retorica. Lui fa degli esempi e, per esempio, verso la fine della pagina dice: Ma l’acqua, il vino e il miele non appartengono ad una sola sostanza, sebbene dalla loro mescolanza risulti l’unica sostanza della pozione. Non vedo al contrario come quelle tre realtà non siano di una stessa essenza, dato che lo spirito che ama se stesso, ed è lo spirito che conosce se stesso, e l’unione di queste tre realtà è tale che per nessun’altra cosa lo spirito è oggetto di amore o di conoscenza. Fa l’esempio delle tre cose che, messe assieme, non si possono separare, che diventano un’unica sostanza. Sì, però, uno potrebbe obiettare immediatamente che questo è un esempio, perché ciò di cui parla non ha nulla a che fare né con l’olio, né con l’acqua, né con qualche altra cosa. Che è ciò che si fa sempre retoricamente quando uno con un esempio vuole dare un supporto alla propria tesi; cioè, lui vuole unire l’esempio che fa con ciò che vuole dimostrare. In questo caso, per impedirglielo, basta separarli, dicendo che non sono la stessa cosa. Tu fai un esempio, ma questo esempio non c’entra niente con ciò di cui stiamo parlando: questo è il modo per troncare ogni possibilità. 7.12. Così nulla facciamo con le membra del nostro corpo, nei gesti o nelle parole, con cui approviamo o disapproviamo la condotta degli uomini, che non anticipiamo con un verbo espresso nell’intimo di noi stessi. Nessuno, infatti, fa qualcosa volontariamente che prima non l’abbia detto nel suo cuore. Agostino è molto attento alla questione del linguaggio, lo ha dimostrato anche con De Magistro, lui si rende conto che le cose accadono lì e, infatti, è stato costretto a un certo punto a dire che la parola dice questo ma non è garantita da niente, ma è quella stessa parola che ha dentro nel cuore, che è invece garantita da Dio. Cioè, questa è l’unica soluzione che trova, perché non ce ne sono altre. D’altra parte, è la stessa soluzione che trova anche Guglielmo di Ockham: io vedo questa cosa così come la vedo perché è Dio che lo garantisce, perché di fatto non posso dimostrare che sia così in nessun modo; non potrei neanche dimostrare che noi siamo qui in questo momento, in questa stanza, non lo posso fare. 13. È dunque perché concupiscenza o per carità; non che non si debba amare la creatura, ma se questo amore viene riferito al Creatore non sarà più concupiscenza ma carità. Io posso amare l’altro ma per carità. È per carità che vuole portarci al bene, perché questo è il suo compito, il suo mandato, e cioè mostrare agli umani che cos’è il vero bene. C’è infatti con coefficienza quando la creatura è amata per se stessa. Non bisogna amare la creatura per se stessa, per quello che è. Allora non è più di utilità per chi ne usa, ma corrompe chi di essa fruisce. Dato per ciò che la creatura o ci è uguale o inferiore... Che possa essere superiore non è contemplato. …bisogna usare di quella inferiore in vista di Dio, fruire invece di quella uguale, ma in Dio. La creatura non è mai amata per se stessa. Io amo la creatura per carità, la amo perché ho questo comando che mi viene da Dio e che devo eseguire – questo lo diceva già Paolo l’Apostolo - perché questo è il bene e io sono costretto, per comandamento, a imporlo, a trasmetterlo. 9. 14. Il verbo è identico nella sua concezione e nella sua nascita, quando la volontà si riposa nella conoscenza, cosa che accade nell’amore delle cose spirituali. Colui che, per esempio, conosce perfettamente ed ama perfettamente la giustizia, è già giusto, anche prima che debba tradurre questo ideale di giustizia in un atto esteriore mediante le membra del corpo. Al contrario, nell’amore delle cose carnali e temporali, è come nella generazione degli animali; una cosa è la concezione del verbo, un’altra il parto. In questo caso, infatti, ciò che si concepisce con il desiderio, nasce con il conseguimento. Perché non basta all’avarizia conoscere ed amare l’oro, se anche non lo possiede; non basta conoscere ed amare i piaceri della tavola e del letto, se non se ne gode di fatto; né conoscere ed amare gli onori e il potere, se non li si consegue. Questo per quanto riguarda i piaceri carnali cosiddetti. Ma anche quando si posseggono tutti questi beni, non bastano. Cosa che era già nota agli antichi: non basta. È detto: Chi berrà di questa acqua, tornerà ad avere sete. Perciò è detto nel Salmo: Ha concepito il dolore e generato l’iniquità. Il Salmista dice che si concepisce il dolore o la pena quando si concepiscono le cose che non basta conoscere e volere, e l’anima arde e soffre nella sua indigenza fino a quando non abbia raggiunto quelle cose e non le abbia quasi date alla luce. È una interessante anticipazione di quello che dirà Nietzsche rispetto alla volontà di potenza, al superpotenziamento. Il discorso che fa Agostino è che qualunque cosa voi possiate ottenere dai beni materiali non vi basterà, cioè, non placherà la vostra sete. Soltanto Dio può farlo. Quindi, pone la possibilità di placare la sete, cioè, pone la possibilità che la volontà di potenza sia soddisfatta. In Dio, naturalmente. Quindi, ecco la possibilità che offre la Chiesa, il cristianesimo, Agostino in questo caso. Da ciò deriva che nella lingua latina si dice non senza una certa eleganza: parta (partoriti) e reperta, comperta (trovati, scoperti), parole che secondo l’assonanza sembrano derivare da partus (parto)… Qui si sbizzarrisce anche con l’etimologia. Perché: La concupiscenza quando ha concepito genera il peccato. Cioè, se qualcuno concupisce la donna senza carità, allora questa concupiscenza non è grata a Dio. Di qui il grido del Signore: Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi, ed in un altro passo dice: Guai alle donne incinte ed allattanti in quei giorni. E dunque, riferendo ogni buona azione o ogni peccato alla nascita di un verbo, dice: Dalle tue parole sarai giustificato e dalle tue parole sarai condannato, intendendo parlare non delle labbra visibili, ma di quelle interiori, invisibili, del pensiero e del cuore. Ora, al di là di queste amenità, qui comincia a parlare di questioni propriamente teologiche. 10.15. Si ha dunque motivo di chiedersi se ogni conoscenza è verbo o lo è soltanto la conoscenza amata. Cioè, si chiede, se posso conoscere soltanto a parole o se devo anche amare, cioè, diventare quella cosa lì che voglio conoscere. E qui siamo a Hegel: soggetto e oggetto sono la stessa cosa. Infatti, noi conosciamo anche le cose che odiamo, ma non si deve dire che sono concepite e generate dall’anima le cose che ci dispiacciono. Perché non tutto ciò che ci tocca in qualche modo è concepito, ma alcune cose ci toccano per essere soltanto conosciute senza che, come tali, meritino il nome di verbo, come quelle di cui ora trattiamo. In un senso si dice verbo la parola, le cui sillabe - sia che si pronuncino, sia che si pensino - occupano un certo spazio di tempo; in un senso diverso tutto ciò che è conosciuto si dice verbo impresso nell’anima, fintanto che la memoria può esprimerlo e definirlo, sebbene la cosa in sé dispiaccia. La memoria: uno ricorda anche cose sgradevoli, non è che ricorda solo cose belle. Secondo quest’ultima accezione della parola “verbo” va intesa l’espressione dell’Apostolo: Nessuno dice: Signore Gesù, se non nello Spirito Santo. Ma è secondo un’altra accezione della parola “verbo” che si debbono intendere le parole di coloro di cui il Signore dice: Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli. Ma quando ciò che odiamo si ispira una giusta avversione e lo disapproviamo a ragione, noi approviamo questa disapprovazione e ce ne compiacciamo, e c’è il verbo. Ci sta dicendo che tutto si svolge con le parole. Adesso, però, deve cercare un modo per gestire queste parole, che altrimenti gli scappano da tutte le parti. È sempre il problema dell’uno e dei molti. Non è la conoscenza dei difetti che ci dispiace, ma sono i difetti in se stessi. Infatti, mi piace conoscere e definire cosa sia l’intemperanza, e questo è il suo verbo. La definisco e mi piace definire l’intemperanza. Così l’ideale artistico non esclude la conoscenza di alcuni difetti, ed a ragione si trova che è una cosa buona conoscerli, quando il conoscitore discerne la presenza e l’assenza di una qualità... /…/ Definire l’intemperanza, dire il suo verbo (pronunciarla), fa parte della scienza morale: essere intemperante appartiene a ciò che disapprova la morale. Cioè, parlare dell’intemperanza non significa essere intemperanti. Come sapere e definire che cos’è un solecismo (errore grammaticale) fa parte delle regole del linguaggio, proferire un solecismo è un difetto che queste regole condannano. “Se andavo era meglio” è un solecismo, è un errore di grammatica. Il verbo, di cui ora vogliamo discernere e suggerire la natura, è dunque la conoscenza unita all’amore. Qui si sta ponendo la questione se per conoscere qualcosa mi basta la parola o devo diventare questa cosa che io voglio conoscere. Ecco perché quando lo spirito si conosce e si ama, il suo verbo gli è unito tramite l’amore. Ecco l’amore. Come dire: fare uno con la cosa che conosco. E poiché ama la conoscenza e conosce l’amore, il verbo è nell’amore e l’amore nel verbo e tutti e due nello spirito che ama e dice il verbo. 11.16. Qui fa un discorso che lui ha elaborato intorno alla conoscenza, che merita di essere letto. Ma ogni conoscenza che attinge la conformità di una cosa, alla sua idea è simile alla realtà che conosce. Questa conoscenza che vuole essere conforme alla cosa che conosce diventa simile alla realtà che conosce. C’è infatti un altro tipo di conoscenza che attinge la privazione in rapporto all’idea e che esprimiamo quando disapproviamo qualcosa. Ma la disapprovazione di questa privazione è un elogio dell’idea e per questo la si approva. Dunque, l’anima ha in sé ha una qualche similitudine dell’idea conosciuta, sia quando essa piace, sia quando la sua assenza dispiace. Qui siamo in pieno platonismo: io conosco l’idea e conoscendo l’idea conosco la cosa. Perciò, nella misura in cui conosciamo Dio noi gli siamo simili... È qui che lui vuole arrivare. …ma non simili fino all’uguaglianza…. Qui ce l’aveva con gli gnostici. …perché non lo conosciamo tanto quanto egli conosce se stesso. E quando con un verbo sensibile conosciamo i corpi… Cioè, con la parola. …si produce nella nostra anima una certa somiglianza di essi, che è la loro immagine… Sta parlando della fantasia: io mi faccio un’idea di qualche cosa, ma questa idea che mi sono fatta è solo mia. …presente nella memoria, perché non sono affatto i corpi stessi che sono nella nostra anima, quando li pensiamo, ma le loro immagini e perciò cadiamo in errore quando prendiamo quelle per questi, poiché l’errore consiste nel prendere una cosa per un’altra… Qui sta anticipando di milleottocento anni tutta la psicologia, cioè, il prendere la fantasia per la realtà. Sta dicendo: non devi scambiare la tua fantasia per la realtà delle cose, sono due cose diverse; una è l’immagine che tu ti sei fatto di qualche cosa e l’altra è il qualche cosa, della quale ti sei fatto l’immagine. Però, sta dicendo che nella conoscenza è quasi praticamente impossibile che noi non ci facciamo un’immagine, una fantasia, come dire che conosciamo attraverso fantasie. …e tuttavia l’immagine del corpo nell’anima è superiore alla forma corporea… Questa immagine che noi ci facciamo, che ha una forma, è superiore alla forma corporea. Perché? …in quanto appartiene ad una natura superiore, cioè ad una sostanza vivente quale è l’anima. Allo stesso modo, quando conosciamo Dio, sebbene diventiamo migliori di quello che eravamo prima di conoscerlo, soprattutto quando questa conoscenza, provocando la compiacenza… /…/ tuttavia essa è inferiore a Dio perché appartiene ad una natura inferiore: l’anima infatti è creatura, Dio è Creatore. Da questo si deduce che, quando lo spirito si conosce ed approva, questa conoscenza è il suo verbo che gli è del tutto uguale ed adeguato, e ciò ad ogni istante, perché non è una conoscenza di natura inferiore, come il corpo, né di natura superiore, come Dio. E poiché la conoscenza rassomiglia a ciò che conosce, cioè a ciò di cui essa è conoscenza, ha una somiglianza perfetta e adeguata la conoscenza con cui lo spirito stesso, che conosce, conosce se stesso. Perciò è immagine e verbo, perché da esso è espressa, allorché nell’atto della conoscenza ad esso si eguaglia e ciò che è generato è uguale al generante. Qui sta facendo un discorso che gli serve poi per mostrare come la conoscenza di Dio presupponga l’esistenza di Dio. Se io lo conosco in qualche modo c’è una somiglianza. Naturalmente, se tutto questo discorso è valido. Ma questa somiglianza presuppone che ci sia il modello da cui si parte, e questo modello è Dio.