INDIETRO

 

 

13 agosto 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 452. Vediamo che la manifestatività pre-logica dell’ente… Ricordate che qualcosa si manifesta pre-logicamente e che condizione della logica, perché la logica afferma delle cose ma su qualche cosa; non potrebbe farlo se non ci fosse questo qualche cosa. …ha il carattere del “nella sua totalità”. In ogni asserzione, che lo sappiamo o no e di volta in volta in modo diverso e mutevole, parliamo a partire dalla totalità e penetrando in essa. Vale a dire, parliamo sempre a partire non dalla semplice presenza ma dalla totalità dell’ente e degli enti. Soprattutto, questo “nella sua totalità” non riguarda soltanto l’ente che, in una qualunque occupazione, abbiamo direttamente davanti a noi, bensì: tutto l’ente di volta in volta accessibile, inclusi noi stessi, è circondato da questa totalità. Noi stessi siamo con-inclusi in questo “nella sua totalità”, non come una componente che ne fa parte, che è anch’essa presente, bensì in maniera sempre diversa e in possibilità che appartengono all’essenza stessa dell’esser-ci, sia nella forma dell’essere assorbiti nell’ente, sia nella forma del diretto stare-di-fronte, concorrere, venir-respinti, venir-lasciati-vuoti, esser-tenuti-in-sospeso, esser-colmati o sorretti. Queste sono modalità dell’esser-circondato, compenetrato e dominato da questo “nella sua totalità” … Che poi sarebbe il mondo. infatti, definisce il mondo come la manifestatività dell’ente in quanto ente nella sua totalità. …che vengono prima di tutte le prese di posizione e prima di tutti i punti di vista indipendenti dalla riflessione soggettiva e dall’esperienza psicologica. Sempre a pag. 453. Quella che formalmente viene detta molteplicità dell’ente… L’ente è molteplice, è un sacco di cose. …necessita di condizioni ben determinate, per divenire manifesta in quanto tale – e niente affatto solamente della possibilità della distinguibilità delle diverse specie dell’essere, quasi queste fossero come allineate l’una accanto all’altra nel vuoto. L’esser l’una dentro l’altra delle differenze stesse e il modo in cui esso ci opprime e ci sorregge è, in quanto tale prevalere, la legislazione originaria, a partire dalla quale soltanto afferriamo concettualmente la costituzione ontologica specifica dell’ente che ci sta di fronte, e che magari è stato reso oggetto di teoresi e di scienza. Per fornire un esempio concreto: quando Kant, nella Critica della ragion pura, si interroga intorno alla possibilità intrinseca della natura nel senso dell’ente sussistente, in tutto quel modo di porre la questione, per quanto rispetto a tutti i precedenti possa essere radicale, non viene colto qualcosa di essenziale e centrale, e cioè che questo ente materiale di cui si parla – ha il carattere dell’assenza di mondo. Se io isolo questo oggetto, questo ente, diventa assente di mondo: lo diventa per assurdo perché, di fatto, non può essere così, però, diventa assente di mondo. per quanto questa sia una determinazione negativa, in vista della determinazione metafisica dell’essenza della natura è qualcosa di positivo. La problematica della questione kantiana nella Critica della ragion pura può venir condotta al fondamento metafisico, solamente se comprenderemo che le cosiddette regioni dell’essere non sono inscatolate le une accanto alle altre, oppure le une sopra o dietro le altra, ma sono quelle che sono solamente all’interno di un prevalere del mondo e a partire da esso. Qualunque cosa si manifesti si manifesta a partire da un prevalere del mondo, cioè, dalla totalità degli enti. A pag. 455. Ma se in ogni interrogarsi, la filosofia può valutare e si deve accontentare soltanto di ciò che è, in senso primario, un ritrovamento essenziale… La questione del ritrovamento in Heidegger è importante, nel senso che ciò che si ritrova è il fatto che si è parlanti. È questo che i ritrova continuamente: che si è sempre stati parlanti, che non c’è stato un momento in cui non lo si sia stato, ma siamo già sempre nella parola, quindi, si ritrova sempre la parola. …che quindi l’uomo in quanto uomo, senza saperlo, ha già sempre compiuto, ciò non vuol forse dire che l’essere dell’ente, prima e al di fuori di ogni filosofare, è già trovato; un ritrovamento, però, che è così logoro e che nella sua prima apparizione risale a tempi tanto remoti che non ci facciamo più caso? Sentiamo parlare dell’essere dell’ente con la filosofia oppure abbiamo già trovato l’essere dell’ente al quale ci rapportiamo e del quale noi stessi facciamo parte? Non siamo forse già da sempre e così da lungo in sintonia con questo ritrovamento che non ci facciamo più caso, tanto che invece, in tutta la nostra condotta in rapporto con l’ente, in ultima analisi, non udiamo l’essere dell’ente, non lo udiamo a tal punto che incappiamo nell’idea stravagante e addirittura impossibile secondo la quale ci atteniamo all’ente, e possiamo fare a meno dell’essere? Non ci si accorge che si dice continuamente “è”, che l’essere ce l’abbiamo sempre lì, continuamente: questo è quell’altro. E qui introduce la differenza dell’essere dall’ente. Che differenza è mai questa: l’essere dell’ente? Essere ed ente. Ammettiamolo tranquillamente: è oscura e non facile da effettuare come quella di bianco e nero, casa e giardino. Perché in questi casi è facile da effettuare? Perché è la differenza tra ente ed ente. Ecco perché è facile, perché non è la differenza tra essere ed ente ma tra ente ed ente. …essere ed ente. Qui la difficoltà non sta soltanto nella determinazione del tipo di differenza (che è quella che appartiene agli enti) l’insicurezza e la perplessità cominciano già, se vogliamo raggiungere semplicemente il campo, la dimensione per la distinzione. Come facciamo a distinguerli, propriamente? Questa infatti non si trova nell’ente? L’essere non è un ente tra gli altri, bensì, tutto ciò tra cui prima si è compiuta una distinzione, tutto e gli ambiti corrispondenti viene ora a trovarsi dalla parte dell’ente. E l’essere? Non sappiamo collocarlo in alcun luogo. E inoltre: se i due sono fondamentalmente diversi, tuttavia sono, nella differenza, ancora correlati l’un l’altro: il ponte tra i due è l’“è”. Quindi, come totalità, è una differenza completamente oscura nella sua essenza. Andiamo a pag. 459. Tutto ciò si esprime nel fatto che diamo al problema della differenza di essere ed ente un nome tematico: lo chiamiamo il problema della differenza ontologica. Cosa significhi qui differenza è immediatamente chiaro: appunto questa differenza di essere ed ente. E cosa significa qui “ontologica”? anzitutto: “logico” indica ciò che è proprio del λόγος, che lo riguarda o che è determinato da esso. L’“ontologico” riguarda l’ν nella misura in cui viene visto a partire dal λόγος. Nel λόγος abbiamo un’enunciazione sull’ente. Ma non ogni asserzione e opinione è ontologica, bensì soltanto quella che si esprime sull’ente in quanto tale, e cioè in relazione a ciò che fa sì che l‘ente sia ente, l’“è”, e questo appunto lo chiamiamo l’essere dell’ente. Ontologico è quanto concerne l’essere dell’ente. La differenza ontologica è quella differenza che concerne l’essere dell’ente, più precisamente quella differenza nella quale si muove tutto ciò che è ontologico, che quest’ultimo in qualche modo presuppone per la sua propria possibilità, la differenza nella quale l’essere si differenzia dall’ente che al tempo stesso esso determina nella sua costituzione ontologica. La differenza ontologica è la differenza che sorregge e guida qualcosa come l’ontologico in generale, e quindi non una differenza determinata che possa e debba venir effettuata all’interno dell’ontologico stesso. Di cosa parlando qui Heidegger? Sta dicendo una cosa che, forse, non si coglie immediatamente, ma incomincia a dire che la differenza ontologica non è che la differenza tra significante e significato. Possiamo porre la differenza ontologica come qualche volta fa indicavamo come distanza, quindi, qualcosa che attiene al linguaggio. Nel momento in cui si instaura questa distanza, è perché c’è linguaggio. Questa differenza ontologica è ciò che non può ridursi, cioè il significante non può mai ridursi al significato, cesserebbe di esistere perché non ci sarebbe più significato, e se non c’è significato non c’è nemmeno significante. Quindi, l’essere, o questo significato, dice che cos’è il significante, che cos’è l’ente. Ricordate: a è b. questa a è la b, non è un’altra cosa, nel senso che abbiamo la a, come ciò che si manifesta, ma ciò che non si manifesta, che trascende la a, è ciò che la a è. Ecco perché la metafisica, già in Kant, è stata posta come qualcosa di trascendente. Il trascendentale di Kant ha a che fare anche con questo: c’è l’immanente, ma le cose che “sono” sono che cosa? La metafisica cerca di sapere che cosa è l’ente, cosa è, e in questo “è” c’è l’essere dell’ente. Quindi, cercando di sapere che cosa è l’ente, cosa trova? Trova altre cose, continuamente, cioè, trova il mondo, trova la totalità degli enti. A pag. 461. La questione della differenza diviene tanto più bruciante, se risulta che essa non sorge a posteriori, soltanto con un distinguere cose diverse presenti di fronte a noi, bensì fa parte dell’accadimento fondamentale nel quale si muove l’esser-ci in quanto tale. Quindi, l’esser-ci in quanto tale si muove in un accadimento fondamentale. Qui inizia a parlare dell’accadimento, dell’accadere, dell’evento (Ereignis): qualcosa accade. A pag. 462. Questo accadimento fondamentale è in sé primariamente e unicamente riferito al λόγος. Quest’ultimo però quanto alla sua possibilità si fonda in esso. Vale a dire, λόγος e accadimento, a questo punto, si fondano l’uno sull’altro; potremmo quasi dire che sono la stessa cosa. Tralasciando la differenza nel suo stampo terminologico e tematico, osiamo il passo essenziale di trasporci nell’accadere di questo differire, nel quale essa accade; in altri termini, interroghiamoci intorno alla struttura originaria dell’accadimento fondamentale. Quindi, ci dobbiamo interrogare sulla struttura originaria dell’accadimento fondamentale. L’accadimento fondamentale è l’accadere della parola, l’accadere del linguaggio. L’accadimento fondamentale ci è divenuto familiare con quell’elemento triplice: il portarsi-incontro di ciò che è vincolante, l’integrazione, lo scoprimento dell’essere dell’ente. Quindi, il venire incontro di qualche cosa; l’integrazione – adesso la dico in modo un po’ rozzo – integrazione mia con questa cosa che mi viene incontro; e, tenendo che ciò che mi viene incontro fa parte del mondo, cioè fa parte di me, a questo punto ecco l’interrogazione rispetto all’esser-ci, cioè al fatto che io vedo questa cosa in questo modo perché io sono qui, in questo momento, con tutto ciò che questo comporta. Queste non possiamo farle oggetto di conoscenza come fossero qualità sussistenti, sono piuttosto disposizioni per un esser-trasposti nell’esser-ci originariamente unitario. A pag. 464. Ci chiediamo ora: qual è il carattere unitario dell’accadimento fondamentale al quale conducono questi tre elementi? Questi tre elementi, possiamo dire, accadono simultaneamente. Concepiamo la struttura originaria dell’accadimento fondamentale, caratterizzato in questo triplice modo, come progetto. Il progetto è questo: qualcosa mi viene incontro e mi modifica; modificandomi, ho l‘opportunità di accorgermi che io sono questo progetto, sono questa cosa che viene a modificarsi continuamente mentre modifica ciò che la modifica. È il circolo ermeneutico. In base al puro significato terminologico, conosciamo quanto viene così definito dall’esperienza quotidiana dell’essere come progettare provvedimenti e piani nel senso dell’anticipata regolamentazione della condotta umana. Avendo ciò sott’occhio, anche nel corso della prima interpretazione di questo fenomeno, ho assunto il “progetto” in questa ampiezza di significato, e ho dato alla parola, nota nell’uso linguistico comune, il tratto distintivo di termine specifico, ma al tempo stesso mi sono interrogato retrospettivamente intorno alla sua possibilità intrinseca nella sua costituzione ontologica dell’esser-ci stesso. E ho chiamato progetto anche ciò che lo rende possibile. Ma da un punto di vista chiaro e rigoroso, in senso filosofico-terminologico può venir denominato così in generale soltanto il progetto originario, quell’accadimento che radicalmente rende possibile ogni progettare noto nella condotta quotidiana. Infatti, solamente se tale denominazione la riserviamo per questo Unico, saremo in qualche modo costantemente desti per l’unicità di questo fatto, che cioè l’essenza dell’uomo, l’esser-ci in lui, è determinata dal carattere di progetto. Questa è l’essenza dell’uomo: è determinata dal progetto. Il progetto come struttura originaria del suddetto accadimento è la struttura fondamentale della formazione di mondo. A questo punto è chiarissimo. Il progetto è, certo, questo essere gettati ma in questo essere-gettati c’è questo triplice movimento: c’è la cosa che appare, c’è il mio trovarmi coinvolto in questo apparire della cosa e, infine, c’è la possibilità di accorgermi di tutto ciò che sta accadendo, cioè, del mondo, che mi consente di percepire quella cosa nel modo in cui la percepisco. Ora, in che senso – così ci chiediamo più concretamente - il progetto è la struttura originaria di quell’accadimento fondamentale caratterizzato in modo triplice? Con “struttura originaria” intendiamo ciò che originariamente unifica quell’elemento triplice in una unità articolata. Unificazione “originaria” significa formare e sorreggere in sé questa unità articolata. Nel progetto i tre momenti non devono soltanto essere presenti nello stesso tempo, ma anche con-appartenere in esso alla loro unità. Cioè, si con-appartengono gli uni agli altri. Non soltanto avvengono simultaneamente ma si con-appartengono. Esso stesso deve così mostrarsi nella sua originaria unità. Il progetto è, sì, fatto di questi tre elementi, ma, dice, non possiamo isolarli se non a scopo didattico. Di fatto, non c’è nessuna possibilità di isolare l’uno rispetto agli altri, sono tre parti della stessa cosa. A pag. 465. Così il progetto è in sé l’accadimento che fa scaturire l’esser-vincolante in quanto tale, in quanto questo accadimento presuppone sempre un render-possibile. Quindi, il progetto è l’accadimento, l’accadimento è ciò che è fondante di ciò che accade, ed è pre-logico, perché ciò che mi appare mi appare nel mondo, cioè nella manifestatività dell’ente in quanto ente nella sua totalità. Solo a questa condizione c’è qualche cosa, su cui poi posso giudicare, ed ecco la logica, che arriva dopo. Con questo libero vincolo… Vincolante è il fatto che un elemento mi coinvolge. …nel quale tutto ciò che rende possibile si tiene dinanzi al possibile-reale, è sempre insita al contempo una propria determinatezza del possibile stesso. Infatti il possibile non diviene più possibile per mezzo dell’indeterminatezza, cosicché in qualche modo ogni possibile cresce nella sua possibilità e forza di render-possibile per mezzo della limitazione. Ogni possibilità porta in sé con sé il suo limite. È chiaro che ogni possibilità esclude le altre. Il progetto e il progettare sono in sé liberanti verso possibili vincoli… Ricordate il progetto come pura possibilità. …e vincolanti-estendenti nel senso del tener-dinanzi una totalità all’interno della quale si può realizzare questo o quell’altro reale in quanto reale del possibile progettato. Rende possibili anche le cose stese, cioè, materiali. Ma – come ora si può vedere facilmente – non è un fisso e semplice stare aperto per qualcosa, né per il possibile stesso né per il reale. Il progettare non è un guardare a bocca aperta il possibile, non può essere nulla di simile perché nel mero osservare e discutere, il possibile in quanto tale viene soffocato nel suo esser-possibile. Il possibile dispiega la sua essenza nella sua possibilità, solamente se ci vincoliamo ad esso nel suo render-possibile. Cioè, se lo cogliamo come pura possibilità, non se lo schiacciamo nella possibilità di qualche cosa. Né la possibilità, né la realtà sono oggetto del progetto – questo non ha affatto un oggetto… il progetto non ha un oggetto, progetto nell’accezione che indica Heidegger, come progetto autentico. …bensì è l’aprirsi per il render-possibile. In questo è disvelato l’originario riferimento di possibile e reale, di possibilità e realtà in quanto tali. Il progettare in quanto questo disvelare il render-possibile è l’autentico accadimento di quella differenza di essere ed ente. Il progetto è l’irruzione in questo “tra” della differenza. Disvela il render-possibile: questo è il progetto, dice: è l’autentico accadimento di quella differenza di essere ed ente. Qui c’è la differenza ontologica, propriamente, cioè, un disvelare un rendere possibile qualcosa, che altrimenti è velato; quindi, disvelo una possibilità. Che cosa vuol dire che è l’accadimento della differenza tra essere ed ente? Il progetto, in effetti, che cosa fa? Lo dice lui, a pag. 467. Il progetto scopre l’essere dell’ente. Il progetto, mostrando questa possibilità, mostra l’essere dell’ente, cioè, mostra il significato del significante. Mostrando il significato del significante, mostra le infinite possibilità del significante. Non possibilità nel senso di enumerabilità delle cose che sono possibili, ma dell’aprirsi a infinite possibilità; questo aprirsi stesso è esattamente l’essere dell’ente. Possiamo dire ancora che questo aprirsi è il mondo, l’ente nella sua totalità; come dire anche che il significato del significante è il mondo nella sua totalità. Il significante è quello che è in quanto preso nell’apertura di queste infinite possibilità. Per cui esso è, come possiamo dire ricollegandoci a una parola di Schelling, il raggio di luce nel possibile-possibilizzante in generale. Lo sguardo nella luce squarcia verso di noi la tenebra in quanto tale, dà la possibilità di quel crepuscolo del quotidiano nel quale, innanzitutto e per lo più, scorgiamo l’ente, lo affrontiamo, ne soffriamo, ne gioiamo. Il raggio di luce che penetra nel possibile rendere aperto il progettante per la dimensione dell’“aut-aut”, del “sia-sia”, del “così” e dell’“altrimenti”, del “cosa”, dell’“è” e del “non è”. Solo nella misura in cui questa irruzione è accaduta divengono possibili il “sì” e il “no” e l’interrogarsi. Solo quando c’è l’irruzione della parola, perché il significante e il significato sono il segno, sono la parola. Quindi, soltanto a questo punto è possibile la logica, il giudizio di valore, il giudizio di esistenza; soltanto a condizione che ci sia questo accadimento, cioè, che accada la parola. A pag. 467. Ciò che prima avevamo messo in luce come caratteri singoli, si rivela ora unitariamente e originariamente intrecciato nell’unità della struttura originaria del progetto. In esso accade il lasciar-prevalere l’essere dell’ente nella totalità del suo esser-vincolante di volta in volta possibile. Nel progetto prevale il mondo. Qui in due righe ha fatto un riassunto tutto il libro. In esso (il progetto) accade il lasciar-prevalere l’essere dell’ente nella totalità del suo esser-vincolante di volta in volta possibile. Quindi, nel progetto accade che si lascia prevalere questo essere dell’ente, certo, vincolante di volta in volta, ma vincolante come possibilità. Prima ancora di essere vincolante rispetto al mio avere a che fare con un utilizzabile, io sono vincolato rispetto a una possibilità. Ora, questa struttura originaria della formazione di mondo rende manifesto, in un’unità originaria, anche ciò a cui Aristotele dovette risalire nella questione intorno alla possibilità del λόγος. Aristotele dice: il λόγος si fonda quanto alla sua possibilità nell’unità originaria di σύνθεσις e διαίρεσις. Infatti il progetto è l’accadimento che, in quanto liberante-gettante-innanzi, in qualche modo disgiunge (διαίρεσις) – quel separare del toglier-via, ma appunto – come abbiamo visto – è tale che in questo accade, in sé, un rivolgersi del progettato in quanto vincolante e collegante (σύνθεσις). La formula a è b. l’aspetto vincolante è che la a non può essere svincolata da b, altrimenti non è niente; quello svincolante è quello per cui a non è b, anche se dice che a è b, ma b è un’altra cosa, sono due cose separate. Ecco, sono una cosa e allo stesso tempo non lo sono. Il progetto è quell’accadimento originariamente semplice che – inteso in senso logico-formale – riunisce in sé una contraddizione: collegare e dividere. Che è esattamente ciò che fa la parola: collega e divide. Collega una parola a un’altra, ma, collegando una parola a un’altra, si trova divisa, perché questa parola non è più se stessa ma è già riferita a un’altra, è già un’altra cosa. La semiotica ci dice che un elemento è quello che è ma, dicendo che è quello che è, sappiamo già che è un’altra cosa.  È questo che sta dicendo Heidegger. A pag. 468. L’“in quanto” è la definizione, per il momento strutturale, di quel “tra” originariamente irrompente. Il “tra” fra disgiungere e congiungere. Infatti, la “è” della formula a è b disgiunge e congiunge. Non abbiamo mai e poi mai “qualcosa”, e poi “ancora qualcosa”, e poi la possibilità di intendere qualcosa in quanto qualcosa, ma, tutto al contrario: qualcosa si dà a noi solamente, se ci muoviamo già nel progetto, nell’“in quanto”. Cioè, se siamo già nella parola. Non è che ci sono le cose e poi la parola che le individua. No, è il linguaggio che consente di dire che cosa c’è. L’uomo è quel non-poter-restare eppure non-potere-lasciare-il-posto. Progettando l‘esser-ci in lui, o getta continuamente nelle possibilità e lo tiene così soggetto al reale. Questo reale non è altro che ciò che si è aperto e che consente, all’interno del mondo, della totalità degli enti, di apparire. Così gettato nel getto, l’uomo è un passaggio, passaggio come essenza fondamentale dell’accadere. Senza l’uomo non accade niente. Nel passaggio l’uomo è rapito e quindi per sua essenza “assente”. L’uomo non è mai lì dove pensa di essere, perché io sono qui ma storicamente. Quindi, io sono qui, certo, posso dirlo, ma sono qui in quanto preso in una gettatezza continua. Assente in senso sostanziale – mai e poi mai sussistente… La sussistenza è l’idea della metafisica dogmatica per cui qualcosa sussiste di per sé, che è per sé sussistente. …bensì assente perché dispiega-via la sua essenza verso l’esser-stato e l’avvenire, assente e mai sussistente, ma nell’assenza esistente. Questa è l’esistenza. L’esistenza è essere progettati. Trasposto nel possibile, deve costantemente essere-in attesa del reale. È soltanto perché è così in attesa e trasposto, può provare orrore. Conclude poi con una citazione dallo Zaratustra di Nietzsche, dal canto dell’ebbrezza.

O uomo! Sii attento!

Cosa dice la mezzanotte profonda?

“Dormivo, dormivo, -

da un sogno profondo mi sono risvegliata: -

profondo è il mondo,

e più profondo di quanto pensi il giorno.

Profondo è il tuo dolore -,

piacere – più profondo ancora di sofferenza:

dice il dolore: svanisci!

Ma ogni piacere vuole eternità -,

vuole profonda, profonda eternità!”

 

Non si accontenta del passaggio, vuole l’eternità, vuole la metafisica dogmatica, quella che dice che cos’è veramente per sé, il sussistente. Quindi, che cosa ci ha detto Heidegger rispetto alla metafisica? Ci ha detto delle cose interessanti. Ci sono alcune notazioni che fa intorno a Kant nel Kant e il problema della metafisica. Kant cerca ovviamente anche lui l’essere dell’ente e giunge a intendere che prima di tutto c’è una intuizione pura. Ma questa intuizione pura non può essere solamente intuizione, deve comportare anche una rappresentazione, un intelletto, un’immagine pura. Quindi, questa intuizione pura è un qualcosa che deve essere sempre rappresentata, deve essere sempre mediata da qualche cosa. Ciò che manca in Kant, secondo Heidegger, nella lettura che fa lui, ovviamente, è proprio questo primo elemento da cui muove, da questa intuizione pura che viene fuori apparentemente dal nulla, mentre non viene, per Heidegger, fuori dal nulla ma dal mondo.  È da lì che qualcosa sorge, è da lì che qualcosa può venir incontro, dall’ente in quanto ente nella sua totalità. Ma perché ci sia ente in quanto ente occorre che ci sia il linguaggio; l’ente può essere in quanto ente perché è nella sua totalità: è soltanto il mondo che fa dell’ente quello che è, qualunque esso sia. Perché ci interessa sempre così tanto la metafisica? Perché la metafisica a questo punto è il linguaggio stesso, è il modo in cui il linguaggio funziona, cioè, è il modo in cui qualche cosa, per darsi, deve già essere dato nel linguaggio, deve già esser-ci. Ecco l’essere dell’ente: deve già essere, cioè, c’è già. Questo i filosofi lo avevano già intuito senza intenderlo: ci deve essere già qualche cosa. Lo stesso Platone: io colgo un ente, qualcosa che è immanente, perché c’è un trascendente che mi garantisce che quella cosa che vedo è quella che è. Certo, lui la mette come idea, però, anche porla come idea non è del tutto sbagliato. Il fatto è che l’essere dell’ente sono io, nel senso che è il mio esser-ci, che sono io, che costituisce l’essere dell’ente, il significato e, quindi, l’esistenza e, in definitiva, l’essenza dell’ente. Sappiamo che è dall’esistenza, dal fatto che qualcosa appartenga al mondo, che è possibile dire che qualcosa esiste. Se è nel mondo, se fa parte dell’esser-ci, se è preso nel “mio” mondo, allora esiste, allora posso dire che c’è, sennò non posso dire niente. Quindi, si muove dall’esistenza e si giunge all’essenza, che dice che cosa veramente è. L’oggettività, vi ricordate, non è altro che il così come mi appare; non ce n’è un’altra più oggettiva di questa. Che è un po’ la medesima questione che poneva Kant: il mio modo di vedere la cosa. Non c’è un altro modo per accedere alla cosa se non il mio pensiero, i miei schemi mentali, le mie immagini. Non ho un altro modo, qualunque approccio è sempre e comunque mediato da questo. La questione a questo punto si apre verso un’altra questione: in che modo la metafisica, posta in questi termini, determina il linguaggio, cioè, determina ogni pensiero, ogni, discorso, ogni parola che si dice o non si dice? Questo rinvia alla struttura originaria, cioè, a quella struttura per cui, ogni volta che si incontra un ente, ciò che è in gioco è l’essere, cioè, sono in gioco io. È questa l’integrazione di cui parlava Heidegger: ogni volta che c’è un significante, questo significante mi questiona, mi mette in gioco, in movimento, perché il suo significato sono io, non è da qualche parte, chissà dove, per sé sussistente. Questa è la lettura che abbiamo fatto; certo, forzando un po’ qua e là Heidegger, però, mi è parso interessante per approcciarlo. Un approccio che tiene ovviamente conto della formazione psicoanalitica, della semiotica, con tutto ciò che la semiotica ha rilevato, e naturalmente anche di Nietzsche, perché, posta in questo modo, la metafisica dice anche che la volontà di potenza, che è metafisica perché deve fondare l’essere dell’ente, ha questa prerogativa. Certo, la metafisica di cui parla Nietzsche non è la metafisica così come la pone Heidegger: la metafisica di cui parla Nietzsche è quella dogmatica, quella religiosa, quella che immagina gli enti per sé sussistenti. Però, la volontà di potenza è la necessità di stabilire l’essere dell’ente una volta per tutte, in modo tale da poterlo dominare. In effetti, ciascuno come si identifica se non attraverso la propria volontà di potenza, se non attraverso il dominio che ha sulle cose? È questo che dà a ciascuno la sua identità: io sono quello che riesco a dominare. Posta la metafisica in questi termini, allora occorrerebbe, come già Kant aveva immaginato quando era arrivato a porre la questione dell’intuizione pura, una metafisica della metafisica, cioè, un modo di approcciare la metafisica che vada oltre, una meta-metafisica. Heidegger fa un tentativo di uscire dalla metafisica ma è sempre e comunque un progetto di andare oltre, anche se poi si accorge che l’andare oltre la metafisica si ritrova sempre a fare metafisica. Nel dialogo che aveva avuto con Ernst Jünger, raccolto in un volume che si chiama Oltre la linea, mentre Jünger è lanciato oltre la linea della metafisica, per uscirne fuori, Heidegger è meno ingenuo, ci va molto più cauto, insiste non sull’oltre la linea ma sulla linea, per vedere cosa c’è in quella sorta di soglia, come la chiamerebbe Sini, senza andare oltre ma per vedere di che cosa è fatta questa soglia, questo limite, che Jünger voleva valicare. Ogni valicare, ogni voler uscire dalla metafisica, muove sempre e comunque, e questo Heidegger lo sapeva, dalla metafisica. Io devo sapere ciò con cui ho a che fare, quali sono gli elementi di cui dispongo, che cos’è questa cosa, e quindi sono nella metafisica. Non c’è uscita dalla metafisica, in nessun modo. C’è una riflessione intorno alla metafisica, c’è il sapere di essere necessariamente nella metafisica.