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13-8-2014

 

La volta scorsa fra le varie cose ce n’era una in particolare sulla quale ho sorvolato abbastanza rapidamente, mentre invece è una questione molto complessa che merita di essere ripresa, a un certo punto ho posto una domanda e cioè “che cosa è dimostrabile?” non “che cos’è la dimostrazione?” né a quali condizioni qualcosa è una dimostrazione, ma che cosa è dimostrabile? Che è diverso. C’è un testo di Gabriele Lolli, che insegna qui a Torino al politecnico ed è un logico matematico. Dice un po’ di cose intorno alla dimostrazione [Capire una dimostrazione. Gabriele Lolli. Il Mulino] che adesso vi leggerò, commentandole, parte ad un certo punto con una citazione di Henri Poincaré, noto matematico francese, dice Poincaré: una dimostrazione veramente fondata sui principi della logica analitica si comporrà su una successione di proposizioni, le une che serviranno da premesse saranno delle identità o delle definizioni, le altre si dedurranno dalle prime passo a passo, ma benché il legame tra ogni proposizione e la successiva si percepisca immediatamente, non si vedrà di primo acchito come si è potuti passare dalla prima all’ultima in modo che si potrà essere tentati di considerarla come una verità nuova. Ma se si rimpiazzano successivamente le diverse espressioni che vi figurano con le loro definizioni, e se si eseguirà questa operazione finché è possibile, non resteranno più alla fine che delle identità, di modo che tutto si ridurrà a un’immensa tautologia. Questo lo ho annotato perché è interessante, in effetti sta dicendo che una dimostrazione di fatto non è nient’altro che mantenere l’identità della premessa da cui si è partiti. Lo dice in modo apparentemente paradossale perché lui sottolinea il fatto che si potrà essere tentati di considerarla come una “verità nuova” ma non lo è. Più sotto questo non è più Poincaré ma è Gottlob Frege che dice: una inferenza non consiste di segni, noi possiamo solo dire che nella transizione da un gruppo di segni a un nuovo gruppo di segni può apparire qui e là come se ci trovassimo di fronte a un’inferenza, un’inferenza semplicemente non appartiene al dominio dei segni, piuttosto è il pronunciamento di un giudizio fatto in accordo con le leggi logiche sulla base di altri giudizi precedentemente passati, ciascuna delle premesse è un pensiero determinato riconosciuto come vero, infatti non dice che è vero ma che è “riconosciuto come vero”, e nella conclusione anche un determinato pensiero è riconosciuto come vero. Il fatto che questi personaggi incomincino a porre delle difficoltà o delle obiezioni alla questione della verità in connessione con la dimostrazione è importante, e mano a mano si articola la questione. Questo è Lolli: non è chiaro perché lo studio di una realtà diversa dovrebbe fornire degli strumenti utili a dominare quella fisica, l’unica spiegazione che si può dare è che la mente funziona così e abbia bisogno di tale geometrizzazione magari a causa del funzionamento di un emisfero del cervello (qui parte con le sue fantasie) ma la funzione dell’immagine rispetto alla trasmissione di significato è un argomento contestato ancora oggi nelle scienze cognitive, la posizione favorevole sostiene che le immagini convogliano informazioni meglio chele proposizioni, tra gli oppositori un certo Pylyshyn sostiene che la cosa importante di un immagine è l’insieme delle proposizioni che possono accompagnarla o dedursi da essa, più che eventuali qualità pittoriche della stessa. Una ulteriore complicazione è data dal fatto che per quel che ne sappiamo sulla base della “apparenza” e in attesa di approfondimenti sul cervello le posizioni che fanno riferimento alla mente umana portano verso logiche non classiche del tipo di quella intuizionista nella giustificazione della realtà o dei processi mentali, se la realtà matematica è mentale si passa dal platonismo al concettualismo, o all’intuizionismo. Qui la dimostrazione allora ha tutt’altra funzione e cioè quella di stabilire il significato, di fondare la teoria del significato, un problema di squisito interesse filosofico solo marginale per la matematica. /…/ La dimostrazione non può che svolgersi a partire dagli assiomi che definiscono i gruppi, se non si usa altro, se è tutto lì negli assiomi quello che individua tutti i gruppi allora sì è in pieno metodo assiomatico ma non si deve usare altro che non sia negli assiomi, se no il teorema non è conseguenza logica degli assiomi ma anche di altro. /…/ la relazione di conseguenza logica afferma che ogni interpretazione che rende vere in un senso che è abbastanza irrilevante cioè compatibile con diverse accezioni di “vero” quindi ciò che rende vere le premesse rende vera anche la conclusione. Qui vedete in che modo le rende vere, dice che è abbastanza irrilevante, è come una sorta di climax direbbero i retori. Dunque ecco Peano – posto questo obiettivo che era quello di Peano e anche di Leibniz che infatti cita, si deduce la necessità nell’uso di simboli non ambigui, i simboli corrispondono a qualche atto o aspetto elementare della mente non a caso Enriques, contestava questo aspetto della impostazione di Peano - ricordate delle idee primitive di Peano, i cinque assiomi di Peano che diceva 0 è un numero, se 0 è un numero allora il successore di 0 è un numero eccetera - infatti nella sua prospettiva era poi difficile (riferita a Peano) recuperare l’idea di base del metodo assiomatico della mutua definizione dei concetti primitivi, mutua definizione proprio perché al di fuori non c’è nessun significato di appoggio se sono idee primitive, sono primitive, le conseguenze di una simile diversa sfumatura possono arrivare ad essere drammatiche non solo sulla questione dei fondamenti del metodo assiomatico esse investono il problema se la manipolazione meccanica possa trattare solo la relazione di conseguenza logica oppure no, anche relazioni diverse - qui il punto è questo, se le idee primitive di Peano siano veramente primitive, se non ci fosse altro al di fuori di queste non dovrebbero dipendere dalle proposizioni che le descrivono, se queste sono idee primitive e per Peano in qualche modo erano la base del pensiero in assoluto oltre il quale non c’è niente, ora queste idee tecnicamente non dovrebbero dipendere da altre idee che sono quelle che le descrivono, per esempio- (Lolli) ora la dimostrazione formale non è pensiero nella motivazione con cui ci si presenta nella sua necessità ma è lo stabilimento della relazione di conseguenza logica tra premesse e conclusione – dice non è un pensiero ma è lo stabilire delle relazioni di conseguenza, nient’altro che questo, quindi è qualcosa che potremmo dire di meccanico, che riguarda una macchina – ormai dovrebbe essere chiaro che la caratterizzazione delle inferenze logiche come preservanti la verità non richiede come preliminare la comprensione della nozione di verità o l’assunzione di questa nozione in riferimento a un mondo o a una classe di mondi fissati – vedete che la nozione di verità incomincia a sganciarsi da qualunque cosa – la menzione della verità è un passaggio astratto su cui non ci si vuole soffermare perché non ci si vuole vincolare a nessuna assunzione ontologica o epistemologica. L’abbiamo accennato all’inizio a proposito dell’uso della nozione di verità in logica che è difficile non perché sia in sé un concetto difficile ma perché è qualcosa su cui non ci si vuole impegnare, che non è fondante ma al contrario è subordinata al formale, anche lei (la verità) deve essere vuota. Come la nozione di verità non è preliminare altrettanto non è a sua volta fondata dalla nozione di interpretazione usata in relazione ai linguaggi formali. La teoria dei modelli o semantica insiemistica ha le caratteristiche che ha proprio perché deve salvaguardare la generalità delle interpretazioni che vuole il formalismo, non fonda la verità ma è solo un modo di alludere al significato eventualmente fatto entrare in gioco se mai interesserà, senza vincolarsi a una definizione di esso. Non si dovrebbe dire che le inferenze conservano la verità (come diceva Poincaré, la prima citazione che abbiamo letta) che non sappiamo che cosa sia da quando è scomparso il dominio reale di riferimento piuttosto si potrebbe dire meglio che le inferenze conserverebbero qualsiasi attribuzione di verità si convenisse di adottare, allora si vede anche che il così detto paradosso della deduzione è basato su un equivoco o su di una formulazione imprecisa non c’è una verità già tutta contenuta nelle premesse e che si ritrova nella conclusione - cioè non c’è una verità la premessa che arriva automaticamente nella conclusione - nelle premesse non c’è nessuna verità non c’è niente che è interessante talvolta il paradosso è formulato con maggior attenzione ad esempio come conciliare la fecondità della deduzione, il fatto che in essa apprendiamo qualcosa di nuovo, con la validità della deduzione? Che per essere tale non deve essere ampliativa, non deve contenere più informazioni di quelle contenute nelle premesse (e qui si rifà a ciò che diceva Poincaré, cioè una immensa tautologia) allora però se parliamo di quello che apprendiamo con una deduzione ci spostiamo su di un piano diverso più gnoseologico in cui non sussiste il paradosso, apprendere è diverso dall’essere vero, mentre non ha senso forse parlare di trasformazione del vero e di più o meno vero, ha senso parlare di trasformazione e arricchimento dell’informazione quindi nient’altro che questo /…/ Il problema del perché e come mai la verità resta invariante per trasformazioni formali - pensate per esempio alla trasformazione dell’implicazione in una disgiunzione – ebbene questo è un problema della definizione di verità, è un problema invero difficile non per nulla stiamo dicendo che la verità deve essere definita, poi aggiunge: è dubbio che sia un problema della logica sapere cosa sia la verità, poi dice: sbarazzati della verità ci accorgiamo che questo aiuta ad affrontare i problemi che ripetutamente vengono sollevati se, ammesso l’obiettivo della conseguenza logica, si debba per le dimostrazioni fare riferimento a uno dei sistemi di logica usuali, secondo se si debba fare riferimento a uno dei sistemi formali usuali, la distinzione dei due quesiti che talvolta sono distinti non ha senso perché come abbiamo visto i sistemi di logica usuali sono formali /…/ certezza e sicurezza non sono aspetti da snobbare finché c’erano solo interpretazioni degli assiomi la giustificazione della natura logica della dimostrazione poteva essere quella della sicurezza, se la ragione è superiore ai sensi allora un risultato stabilito per via di ragione soltanto senza introduzione di nessun elemento sensibile è più pura e quindi più certa di altre e a maggior ragione ma per una diversa ragione adesso se non si sa di che cosa si parla o se si parla di tante cose non unificabili contemporaneamente e quindi non si può fare riferimento a loro proprietà concrete e verificabili, allora è già una consolazione sapere di non commettere errori o meglio la garanzia di non commetterne va cercata in una forma diversa da quella della costante aderenza alla realtà. Da ultimo dice: la consistenza sintattica (di cui abbiamo parlato qualche volta fa) è proprietà che si sperimenta attraverso i calcoli deduttivi, di cui interessa inizialmente la consistenza locale allargata a un materiale sempre più ampio, con il crescere dell’esperienza e con la formulazione della ipotesi generalizzata di consistenza si passa alla fase realista del convincimento della realtà, nella pratica è l’esperienza che convince della realtà delle cose, nel caso della matematica la pratica consistente porta addirittura alla costruzione della realtà o dell’idea (cioè la pratica consistente, uno continua a fare calcoli in un certo modo e a un certo punto immagina che questi calcoli descrivano la realtà) la consistenza è l’affermazione che tutti gli elementi si incastrano perché non ci sono due elementi che si espellono l’un l’altro, allora se non c’è la simultaneità di due cose diverse posso fare un’immagine che mostra qualcosa di costruito nel mondo (qui sembra evocare a ciò che diceva Kant rispetto a ciò che è vero e cioè è vero ciò che non è auto contraddittorio) l’assenza di contraddizioni fa scattare la capacità immaginifica, evidentemente dentro il cervello scatta qualcosa, magari non sappiamo cosa e come ma il teorema di completezza ci fa vedere come scatta l’immagine col rapporto con la teoria semantica /…/ Il punto non è che i matematici fanno errori, questo va da sé, il punto è che gli errori dei matematici sono corretti non attraverso la logica simbolica formale ma da altri matematici. Come lavora un matematico? Una dimostrazione non è un oggetto astratto con esistenza indipendente ma un messaggio, quando un matematico ha elaborato una dimostrazione corre dai colleghi nella stanza accanto e la racconta per vedere se l’accettano e la convincono, se trova una buona risposta scrive una traccia di dimostrazione poi la manda in giro e gli arrivano correzioni e consigli intanto il suo risultato gira per il mondo tra i colleghi e se suona bene, se sembra plausibile gli altri cominciano a usarlo magari solo perché è annunciato su una rivista di prestigio, viene da una sede o da una persona affidabile, in questo caso il teorema diventa parte di un tessuto di altri risultati che vengono inseriti in un contesto utilizzati e ampliati, questo è il processo sociale che le dimostrazioni semplicemente sostengono o puntellano. Vi ho letti questi passi che riguardano appunto la dimostrazione, ciò che sta dicendo Lolli, più o meno tra le righe, è che la questione della verità nella dimostrazione non è così rilevante, cosa che appare un’assurdità perché si considera che una dimostrazione debba dimostrare che una certa cosa è vera oppure no. Sta dicendo questo nella dimostrazione, almeno nei calcoli formali, nella logica formale la verità è un’opzione, ha un’utilità ma marginale, ciò che importa è intendere quali sono le connessioni tra elementi, e addirittura giunge a dire alla fine che questa connessione certo occorre che non sia auto contraddittoria, ma il fatto di risultare non contraddittoria è importante unicamente perché a questo punto se non è contraddittoria appare come un’immagine del mondo, perché per definizione la “realtà” non è, o non dovrebbe essere, contraddittoria perché è quello che è, è una identità nel luogo comune. Se tutto ciò ha un interesse consiste proprio in questo, e cioè una dimostrazione è un percorso che come sappiamo muove da premesse, passaggi, conclusione che nel caso della logica è un teorema, e come diceva già Wittgenstein, la dimostrazione non ha nessun riferimento a qualcosa che è fuori della dimostrazione, lui diceva come ricordate benissimo “quando avremo compiuto una dimostrazione e saremo giunti all’ultima formula, che cosa sapremo a questo punto? soltanto che ci siamo attenuti rigorosamente alle regole stabilite per quella dimostrazione” non c’è nessuna realtà che è stata scoperta, la dimostrazione non dice nulla di nuovo, non dice, questo lo diceva già Poincaré “non dice nulla che non sia già nella premessa”, è un’articolazione della premessa, mantiene la verità la conclusione? Dice giustamente Lolli che quando parliamo di verità non è che non possiamo definirla, possiamo definirla come ci pare, il problema è che tutte queste definizioni che sono differenti tra loro non sono riconducibili a una definizione, a un’unica definizione che ci dica che cos’è, di fatto parlando di verità è come se non sapessimo di cosa stiamo parlando, per questo lui dice “la verità è un posto vuoto” non c’è niente dentro, non c’è la realtà, non ci sono le cose, non c’è la descrizione di uno stato di fatto, non c’è niente. E allora facciamo un passo indietro, che cosa è dimostrabile? Ricordate che la volta scorsa parlavamo dell’“innatismo” per esempio, e non a caso la questione della dimostrazione si è posta proprio parlando dell’innatismo, dicendo che non è dimostrabile, è lì che mi sono chiesto “che cos’è dimostrabile?”

Intervento: allora qualsiasi premessa è vuota? Cioè non si parte da una premessa che si presume che sia vera, questo vero non c’è, questo vero deriva da un’altra argomentazione…

Nella logica, quella formale, le premesse da cui si parte sono gli assiomi, gli assiomi sono delle sequenze fatte in modo tale per cui qualunque valore di verità si attribuisca alle variabili, la proposizione risulterà sempre vera, come il primo assioma della logica che dice che “se a, allora se b allora a”, qualunque valore di verità io attribuisca alla “a” o alla “b” questa sequenza sarà sempre vera. Assiomi, che Vico chiamava “degnità”, appunto perché l’assioma è degno di essere posto come principio da cui partire. Ma torniamo alla domanda “che cosa è dimostrabile?” e che cosa diciamo quando diciamo che qualcosa è dimostrabile? Perché sta qui la questione, perché diciamo che, per esempio l’esistenza di dio o l’innatismo o qualunque altra cosa, non è dimostrabile? Perché non è formalizzabile? Inseribile all’interno di un sistema formale? Lolli sembra tendere verso questa soluzione, ciò che non è inseribile all’interno di un sistema formale non è dimostrabile, come se l’unico modo per dimostrare qualcosa, l’unica cosa che è in condizioni di dimostrare qualcosa fosse la logica formale. Lolli non ha tutti i torti, in primo luogo perché la nozione di dimostrazione così come è intesa oggi è una sorta di invenzione della logica, è come se si fosse deciso che è dimostrabile solo ciò che è formalizzato, e cioè ciò che è disposto in una sequenza di segni, di simboli senza significato, in altri termini ancora portando la cosa alle estreme conseguenze, è dimostrabile unicamente ciò che non significa niente. Potrebbe apparire strano, ciò che non significa niente e che può essere utilizzato eventualmente per metterci dentro delle cose, però questo a quel punto sposta la questione, diventa un’altra cosa che non è più propriamente riconducibile alla prima perché è diventata un’altra cosa, e Lolli insiste su questo perché sono cose diverse che non sono riconducibili a un’unità, rimangono cose diverse, per dirla in termini più propri sono giochi diversi, giochi linguistici differenti. Ora l’importanza e l’interesse di una cosa del genere consiste nel fatto che l’idea che sia dimostrabile tutto ciò che è formalizzabile non è un’affermazione che descriva uno stato di cose, è semplicemente una decisione. Una decisione che consente di costruire dei giochi, in questo caso un gioco che chiamiamo “logica formale” con le sue regole, la sua grammatica, come abbiamo visto, la sua sintassi che sono quelle che permettono di funzionare, ma è un gioco inventato, ma a che scopo? Il motivo risale sicuramente molto addietro, l’idea originaria era quella che la logica potesse descrivere, questo addirittura in Aristotele, uno stato di cose, dare la corretta visione dello stato di cose. Alcuni molto più recentemente indicano nella logica il corretto modo di ragionare quando si ragiona correttamente. Affermazioni impegnative che tuttavia permangono a tutt’oggi e danno l’idea di quanto sia difficile comunque il pensare che ciò che gli umani costruiscono lo costruiscono a partire da una grammatica che è il linguaggio, e che tutto ciò che viene costruito non ha nessun valore, non è niente all’infuori di questo sistema chiuso che è il linguaggio. Chiuso perché non è possibile uscire dal linguaggio, ma al tempo stesso aperto in quanto può consentire la costruzione di infinite sequenze, quindi è un sistema chiuso e aperto simultaneamente. Dire, come fa Lolli, che la verità è un posto vuoto all’interno di una sequenza è importante, un posto vuoto che rimane vuoto, che non è riempibile perché nell’idea antica era che la verità fosse riempita dalla realtà: la realtà riempie questo posto vuoto, il concetto di verità dei greci, l’orthotes, cioè l’adæquatio rei et intellectus, la parola adeguata alla cosa è l’idea che ci sia la possibilità di riempire questo posto vuoto che è la verità. Un posto vuoto, però ci suggerisce Lolli che sapere di cosa si sta parlando potrebbe essere irrilevante: immaginate sequenze di giochi linguistici, ogni gioco è linguistico perché senza il linguaggio non c’è neanche la pensabilità di costruire un gioco qualsivoglia sia, dunque pensate a dei giochi, sequenze organizzate in base a certe regole, ciascuna di queste sequenze utilizza la verità al solo scopo di potere proseguire, questo posto vuoto quando viene stabilito dice soltanto che la sequenza può proseguire, non dice nient’altro e cioè il gioco può continuare, un gioco che di fatto però tecnicamente non significa nulla, è soltanto sequenze, sequenze come un linguaggio macchina, sequenze che di fatto danno soltanto una configurazione a un qualche cosa all’unico scopo di farlo girare, di farlo funzionare, e funzionare significa attenersi alle regole della sua grammatica, costruire altre sequenze, non è nient’altro che questo. Ora la domanda è questa: posto che il linguaggio funzioni così, e cioè come sequenze prive di significato il cui unico obiettivo è di costruire altre sequenze, allora gli umani funzionano così? o c’è dell’altro che li riguarda? La risposta è sì e no, come spesso accade. Sì, perché di fatto quella struttura che consente agli umani, per esempio di dirsi umani, di pensarsi di volta in volta il centro dell’universo o qualunque altra cosa gli piaccia pensare, è determinata dalla struttura del linguaggio di cui sono fatti, dal quale linguaggio, dalla quale struttura non possono uscire, struttura che ovviamente vincola il loro modo di pensare, non possono pensare in un modo differente dalla grammatica, dal linguaggio; ma anche no, perché c’è un elemento, dicevo questo tempo fa, che le macchine non hanno, ma non hanno perché nessuno glielo ha messo dentro e che procede dal modo in cui per gli umani avviene la trasmissione del linguaggio, e cioè l’idea che questa verità che è un posto vuoto, non sia un posto vuoto. È questo che viene trasmesso. Un posto vuoto che è riempito all’origine dalla mamma, o chi per lei, è lei che dice la verità, è lei che decide se il bambino ha detto una cosa che va bene o che va male, quindi questa posizione viene riempita e da quel momento avrà la necessità continuamente di trovare un “riempimento. L’idea geniale è stata quella di riempire con quel posto vuoto con la “realtà”, poi si è inventato anche dio certo, però in questo modo, nel modo in cui si trasmette il linguaggio, si trasmette un’altra cosa che è quella che fa funzionare tutto quanto e cioè la necessità del potere. La necessità che questa sequenza che funziona da sé in quanto ha da sé gli strumenti per funzionare, cioè ha la sua grammatica, la sua sintassi, è come se non potesse funzionare se in questa posizione vuota della verità non ci si immettesse qualche cosa, questo è ciò che viene insegnato, il motivo per cui si trasmette questo tipo di insegnamento è molto semplice: e l’unico modo attraverso il quale si possono controllare gli umani, perché se la verità dipende dalla realtà o da un dio, quello che volete, c’è sempre qualcuno che può dire “io sono la via, la verità, la vita” e quindi si mette nella posizione di chi detiene quel potere che è stato insegnato fino dai primi balbettii che è necessario per riempire quel posto vuoto. Questo è ciò che manca alle macchine ovviamente, gli si può anche mettere dentro volendo, ma non avrebbe nessun interesse, questo è ciò che renderebbe le macchine “umane”, perché a questo punto incomincerebbero a fare le bizze, ad avere quella cosa che apparentemente distingue gli umani cioè la volontà, ma la volontà di che? Su questo Nietzsche non ha alcun dubbio, è la volontà di potere, la volontà di imporre ciò che è stato messo in questa posizione vuota, di imporlo agli altri. Una macchina non ha bisogno di fare questo e nemmeno una persona che sa di che cosa è fatta lei stessa, ché è fatta di linguaggio, è fatta di queste sequenze, di queste stringhe che costruiscono ogni cosa, comprese le immagini, questo lo diceva Pylyshyn, anche l’immagine, anche lui se ne è accorto, che non è un filosofo, non è un semiotico ma un matematico, che senza delle proposizioni questa immagine non c’è, non è niente, l’immagine è quelle proposizioni che vengono costruite. È una bella questione questa, come se in tutto ciò io avessi detto che gli umani sono come delle macchine, in effetti le macchine riproducono, per il momento in modo ancora molto rozzo, ma ci sarà sempre questa differenza, a meno che qualcuno per il solo fatto di saperlo fare, di poterlo fare, lo faccia, cioè immetta questa informazione che dice che la verità non è qualcosa che è all’interno del sistema e che serve soltanto al sistema per costruire altri sistemi, altri giochi, altre sequenze, ma gli dice che la condizione per proseguire non è quel posto vuoto ma quello che ci mette lui. È questo che fa la differenza fra gli umani e le macchine: la volontà di potere, “volontà di potenza” diceva Nietzsche, la volontà cioè il desiderio di imporre questo qualche cosa che si immagina che renda questo posto vuoto il posto più importante, lo renda qualche cosa che tutti devono riconoscere perché la struttura impone che, per potere proseguire, questa posizione deve essere quella della verità, che dice soltanto che la sequenza è sintatticamente e grammaticalmente corretta, dice nient’altro, e quindi consente di costruire altre cose; tutto si svolge all’interno del sistema, non c’è, non ha bisogno di qualche cosa al di fuori, che lo confermi, che gli dica “bravo, hai fatto bene, hai fatto male” lo sa già da sé se ha fatto bene o se ha fatto male perché se ha fatto bene vuole dire che la conclusione cui è giunto è coerente con la premessa, cioè tutta la sequenza è consistente, come si usa dire, e cioè non è auto contraddittoria. Sulla questione della contraddizione c’è ancora da dire ma lo diremo mercoledì prossimo perché a questo punto diventa determinante, tutto sembra anche in Lolli dipendere dalla non contraddittorietà, è l’unico elemento che dà la consistenza alla sequenza, se è contraddittoria si ferma, cioè la macchina si ferma, l’umano no, ferma però ferma quella direzione e se ne inventa un’altra, infatti la cosa più fastidiosa per una persona è che qualcuno gli faccia notare che ha detta una cosa e il suo contrario. Intervento: Però il linguaggio non funzionerebbe con un posto vuoto …

Ciò che lei sta dicendo è che senza la volontà di potenza il linguaggio non funziona, è una possibilità. Prima dicevo che è il motore che fa funzionare tutto, non si tratta di togliere questo, lei non ha torto perché togliendo questo si blocca ogni cosa però c’è la possibilità di saperlo, sapere esattamente cosa sta accadendo mentre si parla, è questo che fa la differenza. Sapere che la verità è all’interno di quel gioco, che è un’informazione che non solo non viene fornita agli umani ma è assolutamente celata, nascosta, addirittura dai tempi di Platone con la nobile menzogna 2500 anni fa e dopo si è continuato a mentire, a incrementare in modo sempre più potente, in modo da potere soddisfare questa esigenza, che è del linguaggio: concludere con un’affermazione vera. L’affermazione vera è quella che dà il potere, se io conosco la verità e gli altri no.