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13 luglio 2022

 

I presocratici di Diels-Kranz

 

Questa sera incominciamo la lettura de I presocratici di Diels-Kranz. Leggeremo questo testo come sempre abbiamo fatto, quindi, non come suggerisce Reale. Reale, a pag. XL, dice così: L’origine del filosofare per i Greci è derivato da un bisogno di conoscenza e di sapere. Il fine della filosofia doveva essere appunto l’appagamento, o, quantomeno, il tendere all’appagamento di questo bisogno e, dunque, il conoscere ricercato e conseguito per se stesso e non per scopi ulteriori… Questa è l’idea che molti hanno tutt’oggi di un percorso fine a se stesso. Che non esiste. …come in modo emblematico viene detto per alcuni dei Presocratici a partire da Talete, e in particolare per Anassagora e soprattutto per Democrito. Il fine del filosofare è il conoscere per il conoscere o, come dicevano i Greci, il theorein (ϴεωρεν), il conoscere come puro atteggiamento contemplativo del Vero. Che è poi diventato il Paradiso dei cristiani. La tradizione antica riconosceva come creatore del tipo di vita che ha come fine il “contemplare” proprio il primo dei filosofi greci, ossia Talete. Gadamer ha richiamato l’attenzione su questo significato del classico theorein – antitetico a quello che oggi viene dato al termine – che da molti è del tutto ignorato. Oltre che in Verità e metodo, Gadamer è ritornato più volte su questo tema, e lo ha ripreso anche nell’ultimo libro da lui pubblicato… /…/ “Essa rappresenta ciò che contraddistingue propriamente l’uomo, questo fenomeno frammentario e subordinato di tutto l’universo, che è tuttavia capace, nonostante la sua misura esigua e finita, della pura contemplazione dell’universo. E tuttavia sarebbe impossibile, dal punto di vista greco, formulare delle teorie. Ciò suona come se noi potessimo “fare”. La parola non significa il comportamento teoretico pensato dal punto di vista dell’autocoscienza, quella distanza dall’ente che senza prenderne parte ci fa conoscere ciò che è, e con ciò lo sottomette ad un potere anonimo. La distanza della theoria è piuttosto quella della vicinanza e dell’appartenenza. Intanto, non esiste la pura contemplazione: io contemplo qualcosa, ma perché? Per farci cosa? Dice poi della distanza, che c’è una distanza, senza accorgersi che questa distanza non è altro che il linguaggio, che, sì, da una parte ci illude di dominare l’ente, ma al tempo stesso ce lo allontana definitivamente. Cosa che noi oggi sappiamo perfettamente, perché sappiamo il suo funzionamento, e cioè per il fatto che per potere dire qualunque cosa devo determinarla, se non la determino quella cosa è nulla. Anche l’ente, il famoso ente di Platone: lui lo voleva irrelato, ma se è irrelato non è determinato da nulla e, quindi, se non è determinato non posso neanche dire che è un ente; se dico che è un ente, questa è già una determinazione, cioè, sto dicendo dell’ente qualche cosa che l’ente non è, perché è un’altra cosa, sto dicendo un’altra cosa. Ora, lasciamo perdere tutto il resto, che comunque va nella stessa direzione, cioè di una lettura accademica, di una lettura cioè che vuole sapere che cosa ha veramente voluto dire l’autore. Quindi, non una lettura sfrontata, audace, che pratica la hybris, e cioè che interroga il testo per vedere come approccia la questione e che cosa può dare da pensare. Un testo letto accademicamente è un testo che non deve dare nulla da pensare, se non ripetere quanto è già stato detto. Cosa che a noi non interessa. Il testo inizia con Orfeo, che non si sa nemmeno con precisione se sia mai esistito, per esempio per Aristotele no, lo ritiene una leggenda, un mito. Era un cantore, suonava la cetra. Di lui non c’è nessuna traccia se non testimonianze, alcune delle quali non si sa nemmeno da dove arrivino, non c’è alcun riferimento; sono state trovate, ma non si sa con precisione di chi siano. D’altra parte, siamo a cavallo del VI-VII secolo a.C. A pag. 13. Il Caos vi era e la Notte e il tenebroso / Erebo al principio, e il vasto Tartaro; / non c’erano invece la Terra né l’Aria né il Cielo: / nelle infinite cavità dell’Erebo / per primissima cosa la Notte dalle nere ali genera / un uovo che è senza seme, / da cui, nel corso delle stagioni, / germogliò l’amabile Eros, / dal fulgido dorso per le ali d’oro, / somigliante a turbini ventosi. / Poi costui, associato al Caos alato, / nottetempo, per il vasto Tartaro / fece nascere la nostra stirpe, / e per prima la recò alla luce. / In precedenza non c’era la stirpe degli immortali, / prima che Eros mescolasse tutto: / mescolati poi gli uni agli altri, / nacquero Cielo e Oceano, / la Terra, e di tutti gli dei beati l’incorruttibile stirpe. Questa è la genealogia, una cosmogonia. Quindi, all’inizio vi era il Caos, e la Notte. Poi, dice, e questa è la cosa interessante, c’è Eros, l’Uno, ciò che unisce. Continueremo a vedere come già c’era l’idea dell’uno e dei molti, molto prima di Parmenide. Il Caos è associato ai molti e Eros è associato all’Uno, come ciò che unisce. Come dire che ci si è accorti fin da subito della necessità che ci sia l’Uno per potere conoscere, per potere sapere, ma un Uno che viene dai molti, dal Caos, dall’apèiron nel caso di Anassimandro, o, come diranno i latini molto tempo dopo, ex pluribus unum, dai molti l’uno. Si sa che sono molti, li vedo, ma per conoscere devo ridurli a Uno, a qualcosa di conoscibile, di finito. Io parlo dell’infinito ma, di fatto, parlandone lo pongo come finito, altrimenti non potrei parlarne. A pag. 15. Alcuni, tra i quali c’è anche Eforo, raccontano che i Dattili Idei nacquero nei pressi dell’Ida, in Frigia, e che passarono poi con Migdone in Europa; siccome, da maghi quali erano, incominciarono ad operare incantesimi, riti e cerimonie misteriche, presa dimora intorno a Samotracia, stupirono non poco gli abitanti della zona. Ebbene, in quel tempo anche Orfeo, per natura eccezionalmente dotato per la poesia e per il canto, divenne loro allievo, e fu il primo a introdurre tra i Greci riti e misteri. Sembrerebbe di no perché altri già li praticavano, sono cose più antiche di Orfeo. Risulterà, mano a mano che andiamo avanti, che alcune cose si ripetono, cose che sono dei punti fermi presso gli antichissimi, e cioè gli dei, vale a dire, l’idea di un qualcuno più potente di tutto e di tutti, e la giustizia. Badate bene. Intanto i Greci avevano due dee che si occupavano della giustizia, Δίκη e Nέμεσις. Δίκη è la dea che punisce chi offende Δίκη: chi offende la giustizia, cioè Δίκη, viene punito. Perché? La risposta in qualche modo ce la dà l’altra dea, Nέμεσις, che è la dea della giustizia distributiva, quella che deve uniformare le cose: tu hai troppo, te ne levo un po’, tu hai poco, te ne do un altro po’, oppure, più propriamente, tu mi fai uno sgarbo, io ne faccio uno a te e, come si suole dire, siamo pari. Da dove viene questa idea di essere pari? Questa è la Nέμεσις, la dea della giustizia distributiva, che riequilibra le cose, rimette tutto in equilibrio, cioè, in armonia, in ordine. Non dimentichiamoci che Κόσμος in greco originariamente significa ordine. L’ordine vuol dire che è qualcosa di misurato, di misurabile. Da qui i numeri, che servono a misurare. L’ordine è già un modo di possedere la cosa: la ordino, quindi, la controllo; mentre se c’è il disordine allora è il caos, è l’πειρον. Quindi, c’è l’idea di un ordine, di un Κόσμος: tutto deve essere ordinato, tutto deve essere cioè controllabile. A pag. 19. Alcuni affermano che il corpo (soma) sia la tomba (sema) dell’anima, in quanto essa vi starebbe come sepolta nel tempo presente, e anche perché grazie ad esso l’anima significa ciò che può significare, e per questa ragione viene detta correttamente “segno” (sèma), a me pare che gli Orfici, soprattutto, abbiano stabilito questo nome, come se l’anima, scontando la giusta punizione per le colpe per le quali è punita, abbia il corpo come luogo di detenzione, per esservi custodita, a somiglianza di un carcere. Dunque, a loro avviso, il corpo, così come il nome indica, è custodia (soma) dell’anima, fino a che essa non abbia scontato le pene che deve scontare: e non c’è bisogno di cambiare nemmeno una lettera. – anche gli antichi teologi e indovini, poi, attestano che l’anima, a causa di determinate punizioni, è sepolta in questo corpo (soma) come in una tomba (sèma). L’idea della punizione. Δίκη va sempre di pari passo con l’altra dea Nέμεσις. Sono le due facce della stessa cosa: l’una punisce perché si è offesa la dea Δίκη e l’altra, Nέμεσις, rimette le cose in equilibrio, in pari. Andiamo avanti e arriviamo a Epimenide. Alcuni dicono che fosse figlio di Orfeo, altri dicono che fosse un suo discepolo, altri dicono che fosse il padre di Orfeo. A pag. 67. Coloro che con maggiore curiosità indagano la provvidenza dell’universo e con maggiore impegno celebrano gli dei sono popolarmente chiamati “maghi”… Gli antichi fisici erano tutto sommato dei maghi. …come se fossero in grado anche di fare accadere quello che sanno che accadrà: tali, per esempio, furono un tempo Epimenide, Orfeo, Pitagora, Ostane, e successivamente furono considerate di questo tipo le Purificazioni di Empedocle, il demone di Socrate, il Bene di Platone. A pag. 69. Cretesi: sempre mentitori, cattive bestie, solo ventre, e pigri! Da qui hanno poi costruito il famoso paradosso di Epimenide, che dice che tutti i cretesi sono mentitori, solo che anche lui era cretese, per cui mente o dice la verità? Passiamo a Ferecide di Siro. A pag. 107. Ferecide diceva che Zeus si trasformò in Eros, allorché si accingeva a fabbricare il cosmo, e che, costituendolo a partire dai contrari, lo portò alla concordia e all’amicizia, e disseminò in tutti gli esseri l’identità e l’unità che è diffusa nell’universo. Qui c’è già la questione: fabbricare il cosmo. Per fabbricarlo, dice costituendolo a partire dai contrari, quindi, i contrari erano già prima. Quindi, cosa ha dovuto fare? Eros ha dovuto compiere quella operazione che poi Hegel chiamerà Aufhebung. Eros non la chiamava così, ma ha dovuto fare un’operazione simile, cioè riunire i contrari. Solo in questo modo ha potuto disseminare identità. Ricordate l’in sé e il per sé, che ritorna sull’in sé. Stiamo vedendo come già negli anni antichissimi fossero presenti quelle stesse questioni che poi hanno interrogato Platone, Aristotele e altri a seguire, ma erano già lì. A pag. 109. Celso, spiegando i versi omerici, dice che sono parole del Dio rivolte alla materia quelle di Zeus indirizzate a Era, e che le parole rivolte alla materia sono enigmatiche e alludono a questo: mentre in principio la materia si trovava in stato di confusione, Dio la collegò in determinate proporzioni e le conferì un ordine, e, quanto ai demoni viventi attorno ad essa, gettò fuori quelli tracotanti, castigandoli, facendoli venire quaggiù. Perché i demoni tracotanti? Perché erano quelli che evidentemente non si sottomettevano all’ordine che lui voleva imporre e, quindi, li ha voluti castigare. Ecco la giustizia che riporta l’ordine. La giustizia riporta, potremmo dire così, la computabilità delle cose, la loro governabilità. A pag. 111. Ferecide e i suoi seguaci chiamarono la diade “ardire”, “impulso” e “opinione”, poiché nell’opinione risiedono il vero e il falso. Quindi, già Ferecide sapeva che opinare non è l’affermare qualche cosa di vero, ma che può essere vero o falso. Cosa ripresa da Aristotele. Troveremo spesso cose riprese poi da altri, come Platone, Aristotele. Passiamo a Teagene. A pag. 113. La grammatica è duplice; una, infatti, riguarda i caratteri scritti e la pronuncia delle lettere, ed è chiamata grammatica antica, in quanto è anteriore perfino alla guerra di Troia ed è venuta alla luce quasi insieme con la natura; l’altra, invece, riguarda il greco, ed è quella più recente: incomincia da Teagene, ed è stata poi perfezionata dai Peripatetici Prassifane e Aristotele. Anche questa questione della grammatica, antichissima, loro la fanno cominciare, così come la conosciamo, con i Greci. La teologia, ossia il discorso relativo agli dei, riguarda nel complesso ciò che non è costruttivo e al contempo è anche sconveniente; infatti sostiene che non sono decenti i miti sugli dei. Questo è tratto da uno scolio. Gli scolii non sono altro che raccolte di detti, riferiti agli antichi. Ebbene, contro un’accusa del genere, alcuni cercano di sbarazzarsi dell’interpretazione letterale, considerando che tutto sia stato detto in senso allegorico a proposito della natura degli elementi, come in riferimento a contese tra gli dei. E dicono, infatti, che il secco contrasta con l’umido, il caldo con il freddo, e il leggero con il pesante. Dicono, poi, che l’acqua ha facoltà di spegnere il fuoco, e il fuoco quello di prosciugare l’acqua. Allo stesso modo, d’altra parte, anche per tutti gli elementi dai quali risulta costituito l’universo sussiste un’opposizione, e qualche volta può esserci una distruzione nelle singole parti, ma l’universo nella sua totalità permane in eterno. Essa fissa, inoltre, varie battaglie, chiamando di volta in volta il fuoco Apollo ed Elio ed Efesto, l’acqua Posidone e Scamandro, la Luna Artemide, l’aria Era, e così via. Nello stesso modo, talvolta, dà i nomi degli dei anche alle disposizioni dell’animo: alla saggezza il nome di Atena, alla stoltezza quello di Ares, al desiderio quello di Afrodite, alla ragione quello di Ermete, e li adattano a questi. Il fissare con dei nomi, in questo caso gli dei, per delle caratteristiche, è come un primo tentativo di stabilire una sorta di dizionario, in un senso molto ampio naturalmente: dare i nomi alle cose è il primo passo per potere pensare di controllarle. Non stiamo naturalmente considerando il fatto che, certo, non possiamo parlare se non usiamo queste cose, ma interessa come sono sorte, in che modo e, soprattutto, a che scopo. Adesso siamo ad Acusilao. A pag. 119. Esiodo dice che per primo ci fu il Caos (e poi la terra dall’ampio seno, sede di tutti gli esseri, sicura sempre) e dopo il Caos (nacquero) questi due, la Terra e Eros. (Parmenide descrive la Generazione come “primissima… di tutti” (28 B 13). Concorda con Esiodo anche Acusilao. Così, da più parti si conviene che Eros è il più antico degli dei. Eros, quello che riguarda l’unità. L’idea di Eros, dell’unione, dell’Uno, del Bene: l’Uno che consente di dominare il Caos. È l’Uno che domina il Caos, lo gestisce, lo ordina. Ma bisogna arrivare a Talete per saperne qualcosa di più e di meglio. A pag. 155. Di lui si tramandano anche i detti seguenti. La più antica tra le cose è dio, perché è ingenerato; la più bella, il mondo, perché è opera di dio; la più grande, lo spazio, perché contiene tutto; la più rapida, la mente, perché attraversa tutto; la più forte, la necessità, perché domina su tutto, la più sapiente, il tempo, perché tutto rivela. Diceva, inoltre, che non c’è alcuna differenza tra la morte e la vita. “Allora tu”, gli disse qualcuno, “perché non muori?” “perché”, egli rispose, “non fa alcuna differenza”. A chi gli domandava che cosa fosse nato prima, la notte o il giorno, rispose: ”la notte, un giorno prima”. Qualcuno gli chiese se un uomo che fa un’ingiustizia possa sfuggire agli dei. “Neanche se solo pensa di commetterla”, rispose. Un adultero chiedeva se potesse giurare di non aver commesso adulterio: "lo spergiuro”, rispose, “è peggio dell’adulterio”. Chiestogli che cosa sa difficile, replicò: “conoscere se stesso”; su che cosa invece sia facile: “il dar consigli a un altro”; sulla cosa più piacevole: “l’esser fortunato”; su che cosa sia il divino, “ciò che non ha né inizio né fine”. Ciò che eterno, così come dice Severino: non ha inizio né fine, non viene da qualche parte e non va da qualche altra parte. Chiestogli che cosa avesse visto di singolarmente nuovo, rispose “Un tiranno vecchio”. Si vede che a quel tempo i tiranni non campavano tanto. Sul modo più semplice, per qualcuno, di sopportare una disgrazia, “Se riuscirà a vedere i suoi avversari star peggio… Anche questo è interessante. Qual è la cosa più bella nell’affrontare una disgrazia? Vedere che i propri avversari stanno peggio. Anche qui è la dea Nέμεσις che interviene per equilibrare: io sto male ma se tu stai peggio, io mi sento meglio. Verrebbe da domandarsi: perché? Solo la volontà di potenza può illustrare una cosa del genere: perché il tuo stare peggio di me mi mette nella posizione di sentirmi comunque superiore, di essere migliore. A pag. 169. Talete, Pitagora e i suoi discepoli hanno diviso l’orbe di tutto il cielo in cinque parti, che chiamano zone. Una di queste è detta artica, ed è visibile sempre; un’altra è quella del tropico d’estate; la terza è equinoziale; la quarta quella del tropico d’inverno, e la restante è l’antartica, che non si vede mai. Obliquo alle tre “zone” centrali si dirama quello che viene chiamato Zodiaco, tangente a tutte e tre. Il meridiano, invece, le attraversa tutte in linea retta, dall’artico all’antartico. C’era già l’idea – lo vedremo più avanti – che la terra fosse rotonda. A pag. 171. Eudemo narra, nella Storia dell’astronomia, che Enopide fu il primo a scoprire l’obliquità dello Zodiaco il ciclo del grande anno; Talete, invece, scoprì l’eclissi di sole e trovò che il periodo dei solstizi di esso non è sempre uguale. Talete sosteneva che gli astri hanno natura terrestre, ma infuocata. – Talete sosteneva che il sole è simile alla terra. – Talete disse per primo che l’eclissi di sole accade quando la luna, che ha natura terrestre, passa a perpendicolo sotto di lui. E stando sotto il disco del sole, vi si rispecchia per riflessione. Erano i primi tentativi di dare delle spiegazioni, perché noi umani siamo gli unici che cercano una spiegazione delle cose. Naturalmente, sappiamo benissimo perché cerchiamo spiegazioni: non per il puro piacere di contemplare o di sapere. Nietzsche è stato molto chiaro su questo: non esiste nessuna volontà di sapere, di conoscere il bene, il bello, il vero, ecc., sono tutte storie, l’unica volontà è la volontà di potenza, non ce ne sono altre, e gli umani vivono di questa. La volontà di potenza è la vita. A pag. 173. Che il cerchio sia effettivamente diviso dal diametro in due parti uguali, dicono che l’abbia dimostrato per primo il famoso Talete. – Bisogna essere riconoscenti al vecchio Talete sia per molte altre scoperte, sia per il teorema seguente. Infatti, dicono proprio che egli abbia riconosciuto e definito per primo, come una novità, che in ogni triangolo isoscele gli angoli di base sono uguali, e abbia perciò chiamato all’antica “simili” gli angoli uguali. Questo teorema dimostra, dunque, che gli angoli al vertice formati da due rette che si intersecano sono uguali: è stato scoperto per primo da Talete, come sostiene Eudemo. – Eudemo, dunque, nella Storia della geometria, attribuisce a Talete questo Teorema (quello dell’uguaglianza di due triangoli aventi un lato e due angoli adiacenti). Sostiene, infatti, che il modo in cui dicono ch’egli dimostrava la distanza delle navi nel mare, rende indispensabile l’uso di questo teorema. Certo, in molti casi è intervenuto proprio questo: la necessità di conoscere la distanza delle navi tra loro. Talete di Mileto scoprì come trovare la misura dell’altezza delle piramidi, misurandone l’ombra nel momento in cui essa risulta esser pari a quella del corpo che la proietta. – Posto un bastone sul limite dell’ombra che la piramide proietta, generatisi due triangoli grazie al punto di contatto del raggio luminoso, hai mostrato (la parola è rivolta a Talete) che la piramide, rispetto al bastone, aveva lo stesso rapporto dell’ombra di quella rispetto all’ombra di questo. Lo studio dei rapporti, quindi, delle uguaglianze, delle disuguaglianze, prevede naturalmente una sorta di calcolabilità, anche se ancora molto provvisoria.

Intervento: L’analogia.

Esattamente. L’analogia è ciò che mette vicine due cose e dice che sono simili; quindi, le qualità dell’uno possiamo attribuirle all’altro.

Intervento: Verrebbe quasi da pensare che il numero sia una sorta di formalizzazione dell’analogia.

In che modo?

Intervento: Il numero serve per esprimere delle quantità. Queste quantità le possiamo caratterizzare anche come dei predicati, che vogliamo attribuire a enti diversi, non necessariamente uguali. Quindi, formalizziamo questi rapporti di quantità, attribuendoli a tutti indistintamente per analogia.

È una tesi interessante. Un’analogia di rapporti. In effetti, il numero è sempre stati considerato –lo vedremo con i pitagorici – come qualcosa di divino, dato dagli dei. Dato dagli dei per fare che cosa? Per misurare, quindi, per dominare, per fare quel lavoro che nella mitologia faceva Eros, unificare i molti in modo da poterlo gestire, perché fino a che sono molti sono l’apèiron, l’indeterminato, l’infinito, non posso fare nulla. Quindi, occorre un qualche cosa che mi consenta di fissare questi rapporti. Questa linea è i 4/5 di quell’altra: è il primo modo di stabilire la controllabilità dell’ente. In effetti, perché si pensava che questi numeri avessero qualcosa di divino? Perché sono quelle cose che consentono al massimo grado la controllabilità dell’ente, non c’è qualcosa di più esatto. E, infatti, arriveremo successivamente con Platone all’idea di esattezza rispetto alla verità, ma questa idea di esattezza viene dal numero. Il numero, come dicevi tu giustamente, appare come una raffigurazione dell’analogia.

Intervento: Spiega anche il motivo per cui le persone, i parlanti, non riescono ad avvedersi del fatto che alla base c’è l’analogia, proprio perché parlano, usano i numeri.

L’analogia è nascosta dall’apparenza dell’esattezza dei numeri. Verrebbe quasi da pensare, tirandolo un po’ per i capelli, che i numeri costituiscano una sorta di “rimedio” all’analogia, alla sua incontrollabilità, mentre il numero è controllabile. È una questione interessante, che getta una sorta di Lichtung sulla questione dei numeri. I pitagorici avevano, sì, pensato al numero ontologicamente, come l’immagine, l’εἶδος, e quella è Uno, però questa immagine la distinguo perché si distingue dagli altri, che sono il due, e tutte queste cose costituiscono il tre, perché c’è una relazione tra i due, tra l’immagine e ciò che l’immagine non è. Tutto questo insieme, poi, fa quattro. Facevano poi la somma (1+2+3+4) che fa dieci, ma questo non è poi così determinante. Ma è l’idea che l’Uno nasca dall’immagine, ché io vedo che è quella perché Eros l’ha riunita dai molti, dal Caos, dall’apèiron, che permane, non scompare. E, quindi, Eros, che costituisce l’unità, consente di conoscere la cosa, cioè, la determina. Per determinarla deve separare appunto, come dicevano i Pitagorici, l’εἶδος, l’immagine da ciò che l’immagine non è.

Intervento: Avevo letto che per la nascita della civiltà, come la intendiamo noi, è stato fondamentale conoscere il corso delle stagioni, quindi, i rudimenti di astronomia… Adesso riesco a collegare le cose: servono i numeri.

Sì, serve un ordine, un ordinamento. Una civiltà nasce con l’ordine. Il κόσμος è qualcosa di ordinato, quindi, numerabile. Se non metto ordine, non posso parlare, non posso prevedere, calcolare, non posso fare niente. D’altra parte quando si parla si ordinano le parole. Uno degli aspetti della retorica è proprio la τάξις, la dispositio, il modo in cui si dispongono, cioè, l’ordine che si dà alle parole, perché si deve dare un ordine se si vuole che il discorso sia comprensibile. Poi, la retorica ci mette del suo rendendolo gradevole, piacevole, suadente, quello che si vuole, ma senza quest’ordine non c’è nessun discorso possibile. Questo ordine in fondo è un calcolo. Siamo ad Anassimandro. A pag. 179. Anassimandro, figlio di Prassiade, fu di Mileto. Costui affermava che l’infinito è principio ed elemento delle cose… Infatti, qui usa la parola apèiron. …senza definirlo aria, acqua, o qualcos’altro. E diceva che mutano le parti, ma che il tutto è immutabile. Già qui c’è un’intuizione. Mutano le parti: mutano le parole, ma il linguaggio è sempre lui che sta funzionando. Nel mezzo, inoltre, si trova la terra, che occupa la posizione di centro e ha la forma di sfera; la luna, poi, brilla di luce non sua ed è illuminata dal sole, ma anche il sole non è minore della terra e consiste di fuoco purissimo. Non è neanche del tutto sbagliato, tutto sommato. Il sole non è che una bomba atomica che non cessa di esplodere. Tra cento anni diremo qualche cosa di più, chi lo sa? Inoltre, scoprì per primo lo gnomone (attrezzo per misurare l’altezza del sole) e lo collocò a Sparta presso le meridiane, stando a quel che afferma Favorino nella Storia varia, per la segnalazione dei solstizi ed equinozi; e costruì strumenti per indicare l’ora. Disegnò per primo il perimetro della terra e del mare; e costruì anche un globo. Quindi, non era sconosciuto il fatto che la terra fosse un globo. A pag. 183. Teofrasto poneva Anassimandro accanto a Anassimene, e così interpreta le cose dette da Anassagora, in modo che egli possa dire che il sostrato è una unica natura. Nella Storia naturale scrive: “Assumendo le cose in questo modo, sembrerebbe che egli ponga i principi materiali infiniti come si è detto, e invece una sola causa del movimento e della generazione. Ma se si suppone che la mescolanza di tutte le cose sia una materia unica indefinita per forma e per grandezza, che è ciò che egli sembra aver voluto dire, da ciò consegue che egli diceva che i principi sono due: la natura dell’infinito e l’intelligenza, e quindi risulta senz’altro che egli pone gli elementi corporei all’incirca come Anassimandro”. La natura e l’infinito sono figure che vedremo continuamente, questa dicotomia compare continuamente. In fondo, è sempre la stessa: il Caos e l’Uno, che poi è l’uno e i molti, che è rimasta dai tempi tale e quale, da lì non ci si è mai mossi. Perché in un certo qual modo abbiamo risolto la questione? Perché l’Uno è il mio dire, ciò che dico, che è quello; ma per potere sapere che cos’è devo determinarlo, cioè, devo conoscere i molti, che lo determinano. Ecco, l’uno e i molti: non c’è l’uno senza gli altri, in nessun modo. A pag. 183. Anassimandro, oltre a ciò, parla del tempo, come determinazione della nascita e della sostanza e della dissoluzione. Egli sostiene che l’infinito è principio e elemento delle cose che sono, adoperando per primo il nome di “principio”. Infatti, usa la parola ἀρχή. Sembra essere il primo a usare questa parola, che esisteva già in greco, però è stato il primo ad usarla in questo senso, come principio delle cose. Nessuno ha inventato delle parole, ma le ha collocate all’interno di un sistema, chiamiamolo filosofico, sistema di pensiero. Questo è interessante. La terra, inoltre, sta sospesa, non è sorretta da niente, ma resta ferma per l’eguale distanza da ogni estremo. La sua forma, poi, è ricurva, rotonda, simile al tamburo di una colonna… Lui la vedeva così. Non riuscivano ad alzarsi a sufficienza per vedere come funziona il tutto. A pag. 187. Anassimandro, figlio di Prassiade, milesio, sostiene che origine delle cose che sono è l’infinito, che da esso provengono tutte le cos, e che in esso tutte si distruggono. Per questo, si formano infiniti mondi, che, poi, si dissolvono in quello da cui derivano. Dice anche perché esso è illimitato; affinché non cessi la generazione che ne deriva. Sbaglia, inoltre perché non dice che cos’è l’infinito, se aria, acqua o terra o un qualche altro elemento. A pag. 189. È convinzione di Anassimandro che gli dei abbiano una nascita, che nascano e muoiano a lunghi intervalli, e che essi siano mondi senza numero. Questo è per lui il modo di indicare l’indeterminato, l’infinito. Senza numero è l’infinito, quindi, non è ordine per noi, ma è indeterminato e indeterminabile. Senza il numero non c’è ordine. A pag. 191. Quelli, dunque, che ritengono i mondi numericamente infiniti, come i discepoli di Anassimandro, di Leucippo e di Democrito, e, più tardi, di Epicuro, ritennero che essi si generassero e perissero nell’infinito, alcuni sempre nascendo e altri sempre distruggendosi, e sostennero che il movimento è eterno: senza movimento, infatti, non c’è né generazione né corruzione. Qui Severino avrebbe avuto modo di riflettere un momento. Senza movimento non si genera niente, non c’è nulla. Neanche l’eterno, perché anche l’eterno, di cui parla Severino, deve essere determinato, sennò non so di che cosa sto parlando, e se lo determino allora è all’interno di un movimento, e questa determinazione sorge, quindi non è più eterno. A pag. 193. Anassimandro dice che il vento è uno spostamento d’aria, che si determina quando le parti più leggere e più umide di essa sono mosse o fatte evaporare dal sole. A pag. 197. Anassimandro… ha detto… che il principio degli esseri è l’infinito… di dove infatti gli esseri hanno origine, lì hanno anche la dissoluzione secondo necessità: essi pagano infatti a vicenda la pena e il riscatto dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo. C’è sempre presente l’idea della giustizia e dell’ingiustizia, Δίκη e Nέμεσις, per cui anche l’idea di Platone dei molti come il male viene da lì, da questi antichissimi, perché i molti sono ciò che non è stato determinato dall’Uno, dal Bene, quindi, sono il male. E, quindi, questo male deve riscattarsi. Come? Diventando Uno. Il riscatto in fondo non è nient’altro che l’operazione che fa Eros, ex pluribus unum. Siamo ad Anassimene. A pag. 201. Anassimene, figlio di Euristrato, di Mileto, su discepolo di Anassimandro; alcuni dicono, inoltre, che fosse discepolo di Parmenide. Anassimene sosteneva che ogni cosa era aria, che dall’aria sorge tutto. Ma questo non ci interessa per il nostro lavoro. Mercoledì prossimo incominceremo Pitagora. Lì troveremo delle cose interessanti rispetto al numero. Pitagora e, poi, naturalmente i pitagorici. I primi e forse gli unici al mondo che hanno tentato un’ontologia del numero, cioè, rispondere alla domanda: che cos’è.