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13-4-2016

 

Pag. 73: Noi ci troviamo all’interno della dimenticanza dell’essere e ci siamo dentro in modo tale che siamo “voluti” dalla volontà di potenza in quanto essa è la realtà del reale, sia che noi lo sappiamo o no, sia che noi lo troviamo orribile o meno. In quanto esistiamo storicamente noi siamo proprio coloro che sono voluti all’interno della volontà di potenza (quando Heidegger usa il termine “storicamente” non si riferisce alla storiografia ma a tutto ciò che, dalla storia dei presocratici fino a oggi interviene in ciò che stiamo dicendo qui e adesso) La volontà di potenza non è un pensiero esagerato di Nietzsche che proprio per questo è diventato pazzo, non è l’invenzione di un uomo eternamente scontento di sé e al tempo stesso presuntuoso, la volontà di potenza è l’essere dell’ente (cioè sta dicendo che è il significato) che dispiega la sua essenza storicamente (nell’accezione che indicavo prima) e proprio per questo venne trovata da un pensatore, vale a dire poter essere conosciuta solo da un uomo che ha infinitamente sofferto ed essere trovata proprio in quanto è un pensiero sofferto. La volontà di potenza non è una invenzione di Nietzsche né tantomeno è una trovata dei tedeschi bensì è l’essere dell’ente sulla base del quale negli ultimi secoli le nazioni europee insieme a quelle americane sono diventate essenti, hanno oggettivato l’essente (cioè tutte le nazioni che si basano sulla tecnica, sta dicendo, sono invece quelle che portano avanti maggiormente la volontà di potenza) nella misura in cui pensiamo a questo fatto e ne siamo a conoscenza abbiamo già perso le opportunità e il tempo per ripercorrere dal punto di vista storiografico (ché distingue sempre tra storico e storiografico) la storia dello spirito è inserire nell’elenco dei concetti di vita precedentemente numerati anche quello di Nietzsche, comportandoci così con un’osservazione ipocrita contro questa filosofia anti cristiana come se appartenessimo ai giusti o come se fossimo proprio il Salvatore, no, non facciamo qui storiografia con annesse applicazioni pratiche fatte di morale e con allusioni a situazioni presenti bensì ci interroghiamo e interrogandoci sappiamo anche che questo interrogare può essere solo un sapere assai provvisorio ma che questo sapere interrogante deve esserci. Se mai i tedeschi e solo essi possono salvare l’occidente conservandolo nella sua storia (tutto quanto dice non fa che riprendere parole greche e mostrare come questo pensiero inaugurale e iniziale sia quello autentico, quello che poi è stato dimenticato dalla metafisica. La sua idea era che i tedeschi proprio perché lontani dalla tecnica, a suo parere, poi non era affatto così, fossero gli unici a potere riprendere questo pensiero iniziale) Pag. 75: Che cosa dice Eraclito della φύσις? (ricordate quant’è importante la questione della φύσις che è una delle determinazioni dell’essere) dopo aver pensato a fondo il primo detto nel suo insieme ascoltiamo ora un altro detto, introducendo questo nuovo detto dimentichiamo però come abbiamo già fatto in precedenza la numerazione corrente dei frammenti e accostiamo ora al frammento 16 che per noi è il primo eccetera (c’è la numerazione ufficiale che è quella di Diels Kranz in cui tutti i frammenti vengono numerati 1,2,3,4,5 …. A Heidegger questa numerazione non piaceva e allora ha preferito modificarla a suo piacimento). Esso (il detto del frammento) suona così: φύσις κρπτεσθαι φλει. (viene tradotto: la natura ama nascondersi, mentre Heidegger propone la traduzione: il sorgere dona il favore al nascondersi. La φύσις lui la pone come il sorgere, cioè ciò che non cessa mai di sorgere). Ora restiamo meravigliati sentir parlare così della φύσις che viene tradotta sempre con natura, la φύσις l’eterno sorgere proprio in quanto non tramonta mai è evidentemente identica al non entrare mai nel nascondimento, l’eterno sorgere è però ciò che è posto semplicemente all’interno del sorgere e si trova costantemente solo in esso, l’eterno sorgere allontana costantemente da se stesso il tramontare (se è continuo sorgere deve necessariamente allontanare da sé continuamente il tramontare) e quindi poco incline a entrare nel nascondimento (mentre il detto di Eraclito sembra dire il contrario: che la natura ama nascondersi, cioè il sorgere ama nascondersi o come traduce Heidegger “il sorgere dona il favore al nascondersi”, questo sembrerebbe in contraddizione con ciò che Heidegger ha sempre sostenuto e cioè che la φύσις, non la natura, ma il sorgere che non cessa mai di sorgere non può amare il nascondersi, se non cessa mai di sorgere, adesso vediamo come risolve il problema) Ora però questo è proprio il nascondersi ed entrare nel nascondimento, ora però Eraclito dice “Il sorgere dona il favore al nascondersi” Il sorgere con la sua propria essenza appartiene al nascondersi (direbbe Eraclito) come si accorda questa formazione con l’essenza della φύσις? Qui Eraclito contraddice se stesso. (perché nel passo precedente in effetti sosteneva il contrario) L’intelletto comune prova una profonda soddisfazione ogni volta che scopre che un pensatore si contraddice (giusto per restare nel tema della volontà di potenza). Ad esempio quando qualcuno ha appena finito di leggere le prime pagine della Critica della Ragion pura di Kant, ammesso che il termine “leggere” abbia qui un senso, ed ecco che immediatamente scopre che Kant effettivamente si contraddice. Con questa constatazione si è sicuri di essere necessariamente superiori al pensatore, lo si trova illogico. In generale si trovano molte cose e semplicemente si trova sempre qualcosa, accanto alle cose di cui ci si occupa c’è anche qualcos’altro di cui occuparsi perché si trova e si presenta in questo modo o in quell’altro. Ma prima di essere soddisfatti di trovare che Eraclito parlando della φύσις si vada a impelagare in una contraddizione vogliamo innanzi tutto esaminare questo detto. Se però la φύσις con la sua propria essenza appartiene al nascondersi allora anche il sorgere nella sua essenza sarà un nascondersi, vale a dire il sorgere sarebbe un tramontare? Ma anche per un pensatore serio queste affermazioni equivarrebbero alla pura contraddizione e non avrebbe nulla da vedere con una qualche forma di sofisticheria, di sottigliezza o di camuffamento, dire che il sorgere è tramontare sarebbe come dire che il giorno è la notte e viceversa, suonerebbe come la frase che afferma “il chiaro è l’oscuro”, ma in verità già precedentemente quando si trattava di chiarire il soprannome di Eraclito Σκοτεινός “l’Oscuro” abbiamo accennato al fatto che nei detti di questo pensatore incontriamo frasi strane, abbiamo anche sentito che oggi si tenta ugualmente di interpretare dialetticamente il pensiero di Eraclito seguendo il modello del pensiero hegeliano, alla luce della dialettica che pensa l’unità di ciò che si contraddice superando così la contraddizione in quanto contraddizione, non risulta affatto strano neanche il detto di Eraclito φύσις κρπτεσθαι φλει che però Hegel in verità non conosceva ancora. Pag. 77 Ossia ciò che nel sorgere si dispiega in modo essenziale ama il tramontare ed è il tramontare, significa obiettivamente cadere in una eclatante contraddizione, naturalmente dobbiamo chiederci subito: chi siamo noi che veniamo apostrofati a viva voce da questa locuzione contraddittoria? Noi, si tratta di noi uomini, disponiamo di una dotta conoscenza della filosofia hegeliana e delle arti della dialettica, noi siamo uomini che pensano normalmente ritengono che il bianco sia bianco e il nero sia nero, che pensano che il sorgere sia il sorgere, che il tramontare sia il tramontare, e che quindi non fanno confusione, noi siamo uomini che dopo aver sentito dire che qui è necessario pensare in modo dialettico non si vantano di distogliere subito lo sguardo dalle eclatanti contraddizioni e finiscono col ripetere che in essa vi è allo stesso tempo sia il sorgere che il tramontare, pensare in modo normale significa pensare in modo conforme alla norma che sovraintende ad ogni pensiero, questa norma è la regola è il principio che vale per ogni pensiero e secondo le parole di Kant per tutte le conoscenze in generale, questo principio è il principium contradictionis che Kant formula nel seguente modo “A nessuna cosa conviene un predicato che la contraddica”. Applicando questa definizione al caso attuale diremo “Al sorgere non conviene il predicato tramontare” perché lo contraddice, φύσις-sorgere κρπτεσθαι -nascondersi-tramontare sono termini che si contraddicono e se mai fosse possibile metterli in rapporto tra loro questo rapporto non sarebbe rappresentato dal φλει, dall’amore bensì dall’odio. Dopo Platone vale a dire dopo la metafisica ha avuto inizio, è cominciata anche quella caratterizzazione dell’essenza del pensiero che si chiama logica, ma non solo il termine logica, πιστήμη λογικ bensì anche la disciplina che porta questo nome è nata all’interno della scuola di Platone e proprio per questo è stata fatta progredire dal grande scolaro di Platone Aristotele, la logica è una derivazione della metafisica per non dire un suo aborto (sono parole forti) nel caso che la metafisica stessa fosse una sventura del pensiero essenziale (pensiero essenziale per lui è sempre quello iniziale, quello inaugurale) la “logica” sarebbe allora un aborto di un aborto. In questa origine potrebbero forse nascondersi le singolari conseguenze e conclusioni alle quali ha condotto la “logica” (la mette sempre tra virgolette per indicare che è un termine su cui occorre ancora riflettere) e alle quali essa stessa è pervenuta, ma con quale diritto parliamo in modo così disprezzante della “logica”? infatti anche se parlando di aborto e di sventura intendiamo l’inconsistenza della logica in un senso essenzialmente storico e non nel senso di una valutazione storiografica apparentemente dispregiativa (dice “l’inconsistenza della logica in senso essenzialmente storico e non storiografico” vuole dire che la logica è inconsistente non perché la storia della logica cioè i passi che la logica ha fatto da Platone fino a oggi rivelano di essere inconsistenti, non è questo, perché sono consistenti, sono coerenti, ma è storicamente che la logica è inconsistente “storicamente” nel senso che non tiene conto da dove arriva, da quale pensiero iniziale arriva e dalle distorsioni che ha dovuto mettere in atto per diventare quella che è) Di fronte a questa asserita inconsistenza della logica non si può di certo ignorare che noi da per tutto siamo legati al principio logico, anche i pensatori Eraclito e Platone, Aristotele e Leibniz, Kant, Hegel, Schelling e Nietzsche non possono sottrarsi al carattere vincolante del principio logico (ricordate Severino? Per lui il principio di non contraddizione è il principio fondante senza il quale non è possibile parlare) inoltre da per tutto anche oggi se si vuole convincere qualcuno di qualcosa si è soliti addurre come estrema motivazione la seguente affermazione “questo e quello è del tutto logico” e così si elimina ogni obiezione. Che cosa si intende qui con il modo di dire diventato sempre più diffuso “questo è logico?” “logico” può significare qui “consequenzialmente esatto” ossia conforme ai presupposti, “logico” può anche significare “adeguato” vale a dire “conforme” quindi ancora conseguente e conforme ai principi, se anche noi ci richiamiamo al tanto famoso principio logico (principio di non contraddizione) ricorriamo ad un vincolo che consiste nel seguire una particolare coerenza ma la coerenza può essere data da molte cose e può presentarsi in molteplici modi, più precisamente la semplice coerenza del principio logico non contiene alcun nesso vincolante per cui in ogni caso manca ad esso la peculiarità e lo spessore del vero (il fatto che qualcosa si attenga al principio logico non significa che sia vero) ciò che è logico non ha bisogno di essere vero. /…/Seguendo quell’idolo che qui si chiama “principio logico” l’asserzione “il chiaro è l’oscuro” significa più o meno “A è il contrario di A”, questo è evidentemente illogico e ugualmente illogica è la frase “il sorgere è il tramontare” (quella di Eraclito) se ciò che è logico fosse anche vero ed illogico fosse il falso, l’intelletto normale sarebbe costretto a giudicare che il detto di Eraclito sulla φύσις è falso /…/ Se però l’intelletto si arresta può forse mettersi in moto l’altro pensiero essenziale in modo che qui l’intelletto non si immischi più con la sua saccenteria avida di rivendicazioni e di primati (e cioè la volontà di potenza sempre) /…/ Detto altrimenti per noi è assai meglio non essere a conoscenza del fascino della dialettica e, nel ripensare il detto di Eraclito, procedere invece in modo che il nostro intelletto si arresti realmente (perché se ci si basa, si è affascinati dalla dialettica ci si arresta immediatamente e si afferma, come diceva prima, che il detto di Eraclito è falso, perché si afferma una cosa e il suo contrario) Φύσις κρπτεσθαι φλει, cioè “il sorgere dona il favore al nascondersi” (pag. 88) allora il favore del sorgere appartiene al nascondersi (che poi è questo il problema) κρπτεσθαι “nascondersi” in rapporto all’aprirsi del sorgere è un chiudere, allora tentiamo di pensare il κρπτεσθαι innanzi tutto secondo questo significato anzi prevalente “l’aprirsi del sorgere concede al chiudersi di dispiegare la propria essenza poiché il nascondersi stesso, a partire dalla propria essenza, concede al sorgere di essere proprio quello che è” (lui dice “l’aprirsi del sorgere”, che sorge incessantemente concede “al chiudersi di dispiegare la propria essenza” perché se qualcosa sorge vuol dire che prima era velato, adesso usiamo questi termini, “poiché il nascondersi stesso, a partire dalla propria essenza, concede al sorgere di essere quello che è”, dice è il “nascondersi” che proprio per la sua essenza, per la sua proprietà che è quella di essere nascosto concede al sorgere di essere quello che è, cioè occorre che qualcosa sia nascosto perché possa sorgere (è la differenza) in un certo senso però dicendo questo si tratta, lui insiste sul concedere che l’aprirsi, c’è il sorgere che concede al chiudersi di esistere. Sta dicendo che le due cose si comportano reciprocamente cioè non c’è lo schiudersi senza il sorgere, cioè qualche cosa sorge ma questo sorgere è sempre debitore comunque di un nascondimento cioè il sorgere non è per sempre, sorgere e tramontare sono il divenire, il divenire dell’essere (sarebbe l’insolito che si scambia) più o meno, sì l’insolito che irrompe nell’essere, che irrompe nel δαίμων, che irrompe nell’ente) L’apertura del sorgere (qui sta cercando di risolvere il problema del Φύσις κρπτεσθαι φλει, questa contraddizione) permette al chiudersi di concedere l’essenza al sorgere stesso in modo che anche il chiudersi possa ricevere il favore della propria essenza, quel favore stesso che gli è concesso dal sorgere. (dice “l’apertura del sorgere cioè il disvelarsi permette allo schiudersi di concedere l’essenza al sorgere stesso” soltanto perché c’è il velamento può esserci lo svelamento tant’è che λήθεια viene da λήϑη c’è un’alfa privativa, sembra che l’elemento cardine sia il nascondimento, che poi diventa disvelamento, ma c’è il velamento “originariamente” poi c’è disvelamento, “originariamente” tra virgolette non è che sia un’origine dal quale viene ma per dire che entrambe le cose si sostengono reciprocamente. Dice, “in modo che anche il chiudersi possa ricevere il favore della propria essenza, quel favore stesso che gli è concesso dal sorgere” cioè il chiudersi non ci sarebbe senza il sorgere, trae la sua esistenza dal sorgere e il sorgere trae la esistenza dal nascondersi. Ricordate De Saussure? Il significante trae la sua esistenza, la sua possibilità di esistenza dal significato e il significato trae la sua possibilità di esistenza dal significante) Ciò che in questo modo si dispiega in quanto è la semplicità del favore del sorgere che si nasconde (il sorgere può nascondersi, ecco perché non è una contraddizione, perché se il sorgere, se la natura amasse nascondersi allora la natura che è il sorgere andrebbe in contraddizione con il tramontare, o sorge o tramonta, non può amare il sorgere e tramontare, non è più sorgere ma è tramontare, ma se lui dice che “il favore del sorgere che si nasconde” allora è il sorgere che è come se offrisse al nascondimento la possibilità di cessare di rimanere nel nascondimento) Ora tutto questo può essere nominato con la sola parola φύσις (quindi nella φύσις c’è sia il sorgere, sia il nascondimento, perché il sorgere è ciò che consente l’esistenza del nascondimento e il nascondimento è ciò che dona la possibilità al nascondimento di darsi, di esistere, così come il nascondimento offre la possibilità a qualcosa di sorgere, dice infatti “in modo che anche il chiudersi possa ricevere il favore della propria essenza quel favore stesso che gli è concesso dal sorgere” è il sorgere quindi che concede alle cose di uscire dal velato e di entrare nello svelato) Ciò che in questo modo si dispiega in quanto è la semplicità del favore del sorgere che si nasconde può essere nominata con la parola φύσις. Siamo soliti ascoltare e leggere questa singola parola pensando che a una parola corrisponda sempre un oggetto, quando diciamo “casa” intendiamo l’oggetto corrispondente, diciamo “montagna” eccetera, diciamo “φύσις” e crediamo innanzi tutto, anche in questo caso, dopo i chiarimenti che abbiamo fornito dovremmo essere in grado di rappresentarci qualcosa di corrispondente, vogliamo fare valere il ricorso alla rappresentazione perché ci aiuta a orientarci tra le cose, tra gli oggetti e nelle situazioni, ma immediatamente ciò che il termine “φύσις” indica esigiamo nuovamente che vi sia la possibilità di comporre in modo comprensibile quanto è stato detto sotto i diversi aspetti della φύσις, in modo che anche in questo caso uno possa orientarsi (cioè sappia che cos’è? Il τ στ) se le cose vanno diversamente le troviamo complicate (cioè se non sappiamo come stanno le cose ce ne abbiamo a male, a male perché viene depotenziata la nostra volontà di potenza, poi è di questo che si tratta, non c’è altro) ma per l’intelletto umano “naturalmente” sano ciò che è complicato è al tempo stesso irritante per cui verso di esso si deve mostrare avversione. L’interpretazione appena esposta di Eraclito Φύσις κρπτεσθαι φλει è chiaramente ed evidentemente complicata, esiste tuttavia una via semplice per arrivare a cogliere il suo contenuto senza abbassare il detto a mero luogo comune, “sorgere e tramontare” il loro rapporto si può facilmente semplificare in una immagine che forse stava davanti agli occhi dello stesso Eraclito, esiste un sorgere nella forma dell’alba e dell’aurora ma dall’alba scaturisce il chiaro giorno il cui sorgere trova il suo compimento, adesso segue dunque la sera con un crepuscolo di segno opposto ecco l’alba simile per così dire a una barriera che lentamente si apre, subito dopo ecco il giorno che dovrebbe essere una seconda barriera infatti l’alba e il giorno sono senz’altro diversi, anche la seconda barriera è ora caduta ecco la terza barriera che lentamente si chiude è la sera. Se privilegiamo il secondo movimento il giorno, l’aprirsi e il chiudersi diventano elementi inevitabili se invece seguiamo il terzo movimento la sera nel suo rapportarsi agli altri allora risulta che esso sta veramente in rapporto con l’aperto, col giorno, infatti con la sera il giorno risulta concluso (due aspetti, due facce: significato e significante, le due facce del segno) Il tramontare quindi la sera non sta dunque, così almeno sembra, in contrapposizione col sorgere bensì col giorno allo stesso modo in cui il morire non sta in contrapposizione col nascere bensì con la vita, noi infatti diciamo “vivere e morire” non “nascere e morire” (anche se si può dire non è proibito, questo è il modo che ha lui per cercare di rendere visibile attraverso un’immagine questo problema della φύσις κρπτεσθαι φλει (a pag. 91 pone un’equivalenza tra είζον, ciò che non cessa di vivere, e la φύσις, il non tramontare mai, l’eterno sorgere) Sono puro sorgere nel senso che il nascondersi e il chiudersi, sotto un certo aspetto, rimangono esclusi da esso, ma che cosa accadrebbe se questo puro sorgere fosse privato di ogni rapporto col chiudersi? E cioè se dovessimo effettivamente attenerci alla contraddizione? In questo caso il sorgere non avrebbe niente da cui sorgere e non vi sarebbe niente che potesse dischiudersi nel sorgere stesso (qui c’è un problema, una questione comunque interessante: trasponiamo la cosa ponendola come il divenire nella argomentazione di Severino, allora avremmo una argomentazione esattamente opposta a quella di Severino e cioè per Heidegger le cose vengono nell’essere perché prima erano nulla in un certo senso, sorgono perché prima erano velate anche se non è propriamente il nulla il velato, però è qualche cosa che comunque non c’è, per cui Severino potrebbe essere autorizzato a pensare che in effetti sta dicendo che le cose vengono dal nulla e tornano nel nulla, e questo è il divenire, l’παμφοτερζειν, quindi per Severino questa non è la condizione, che le cose vengano dal nulla per potere essere, anzi, è quella cosa che lui chiama follia, perché equivarrebbe a dire che le cose simultaneamente sono e non sono. Però qui in Heidegger la cosa non è proprio così distinta nettamente, è molto più sfumata perché lui non parla di “nulla” ma le cose si mantengono. Quando il sole tramonta non è che non c’è più, c’è, ma è velato, quindi si potrebbe connettere tutto questo con quell’altra teorizzazione di Severino relativa agli “eterni”, dove ciascun elemento, ciascun ente non solo l’essere ma ciascun ente è eterno, però può apparire ma può anche non apparire, questo non toglie nulla al fatto che rimanda eterno: il fatto che non appaia in questo momento non significa affatto che non sia un eterno. Vedete che non è sempre facile individuare una direzione precisa, le cose spesso sfumano dall’una all’altra, comunque dice:) Anche se noi potessimo lasciare semplicemente per se stesso il sorgere appena avvenuto esso dovrebbe almeno sottrarsi a ciò che concede il venir fuori vale a dire dovrebbe sottrarsi al chiudersi e allontanarsi da esso ma più sorge e più si allontana dal nascondimento, per dissolversi nel nulla nell’istante del distacco (il sorgere del sole potremmo figurarcelo come il venire dal nulla, cioè sorge e ritorna nel nulla, nella notte, come immagine potrebbe anche essere) Il sorgere non dispiega la sua essenza per quello che essa propriamente è, se esso prima non rimane costantemente trattenuto e nascosto nel chiudersi, per questo motivo, vale a dire a causa della sua essenza e solo per questo, il sorgere fa un favore al nascondersi (è qui che risolve il problema in questa frase che vi rileggo “il sorgere non dispiega la sua essenza per quello che essa propriamente è”, quindi non è quello che realmente è il sorgere, se prima non rimane costantemente trattenuto e nascosto nel chiudersi, quindi non può dispiegarsi il sorgere che prima è trattenuto nel tramonto, nel velato se, dice Heidegger, il velato non concedesse al sorgere di essere, per questo motivo vale a dire “a causa della sua essenza e solo per questa il sorgere dona il favore al nascondersi” sono entrambi i casi, e cioè il sorgere dona il favore al nascondersi e il nascondersi dona il favore al sorgere) Che cosa sarebbe se la fonte che zampilla alla superficie della terra rimanesse senza il favore dell’acqua che scorre nel sottosuolo? Essa non sarebbe più la fonte, il riferimento alla fonte sembra essere soltanto un’immagine (come quella di prima) del sole, essa ci serve ad accogliere meglio come l’essenza del sorgere che viene fuori e che riposa nel nascondersi non sia riducibile ad un’immagine (sta dicendo sì, proviamo a fare delle immagini ma valgono quello che valgono) ogni essenza è in verità priva di immagine. A torto sentiamo questo fatto come una mancanza, dimentichiamo in questo caso che il non essere riducibile a un’immagine e invisibilità costituiscono il fondamento e il presupposto necessario di tutto ciò che ha forma di immagine (cioè l’immagine, ciò che sorge viene da che cosa? dal velato, da qualcosa che è nascosto, cioè ciò che non è immagine) Che cosa infatti riuscirebbe a dipingere un pittore che non vede oltre e al di là di ciò che possono offrire colori e linee? Tutto il visibile senza l’invisibile che deve darlo a vedere sarebbe una mera fantasia visiva. L’invito sempre più pressante in direzione della chiarezza perde i tratti comici e assume subito quelli tragici, vale a dire assume i tratti di volontà che, nella misura in cui vuole se stessa, vuole anche contro se stessa, per cui si contraddice anche se proprio per questo sembra logica (il pensare logico vuole la chiarezza, vuole la logicità, che tutto sia presente, ma perché tutto sia presente, secondo Heidegger, dovrebbe presentificare anche ciò che è la condizione di ciò che adesso è presente, e questo dice è una contraddizione perché se ciò che è presente ha come condizione qualche altra cosa allora ciò che è presente non è tutto, perché rimane comunque ciò che costituisce la condizione di ciò che appare, nel caso di Heidegger il velato, il velato sarebbe ciò che è la “condizione” tra virgolette “condizione” del sorgere, per cui se io vedo solo il sorgere e voglio che il sorgere rappresenti il tutto mi trovo nella condizione di credere di avere di fronte il tutto senza tenere conto di ciò che ha fatto sorgere ciò che è sorto. È l’idea che avendo di fronte un oggetto qualunque io possa coglierne l’essenza soltanto attraverso la vista, come voleva Husserl originariamente, poi anche lui si è ricreduto, non funziona così, quello che io vedo, l’ente, deve la sua enticità a qualche cosa a cui l’ente rinvia, per questo insistito qualche volta sulla struttura metafisica del linguaggio, questa è la posizione metafisica: il significante per essere significante ha bisogno del significato, cioè di un’altra cosa che non è un significante, perché il significante non è un significato e il significato per essere significato necessita del significante che non è un significato. Quindi l’idea di avere la percezione immediata trascendentale di qualche cosa, questa sì è la follia, perché non tiene conto della struttura necessariamente metafisica del linguaggio per cui ciascuna cosa è quella che è in un differire verso altro, sempre e necessariamente.

Intervento: non mi è chiara la questione della struttura metafisica del significante e del significato…

Come è fatta la metafisica? La metafisica di Platone, quella tradizionale, quella classica, quella che da sempre ha indicato che cosa si dice quando si parla di metafisica. Una penna, cioè l’ente, perché la penna è una penna? Perché è quello che è anziché essere qualunque altra cosa? Cosa fa sì che la penna sia una penna? Per Platone è l’idea di penna, soltanto se io ho l’idea di penna allora può darsi questa penna particolare e sensibile, sensibile perché la vedo, la tocco, ma senza questa idea di penna io non potrei dire che questa è una penna, che questa particolare penna è una penna, ma l’idea di penna dove sta? Nell’iperuranio ovviamente, allora l’ente è quello che è grazie a un rinvio a ciò che questa cosa non è, ma potremmo fare la stessa cosa rispetto a un significante, un significante è un significante per via del significato, che cos’è che dà al significante la sua enticità, la sua significanza per essere un significante? Il fatto che significhi qualcosa, cioè che ci sia un significato, tuttavia il significante non è il significato e questo comporta che un significante per essere quello che è, cioè un significante, occorre che non sia quello che è o non sia soltanto quello che è, perché se fosse soltanto quello che è, se fosse soltanto significante senza significato, cesserebbe di essere un significante. È questo che intendo con struttura metafisica del linguaggio. Il linguaggio funziona per rinvii. Il segno è l’unità di significazione, poniamola così, fatta di significante e significato, Peirce arriva a dire che nel linguaggio ci sono soltanto segni, le parole non sono altro che segni anche se poi lui distingue tra icone, indici e simboli, ma adesso questo non ci interessa, ma si tratta solo di segni, segni che rinviano ad altri segni per cui non c’è nulla che non possa essere un segno, è segno in quanto rinvia a un altro segno, il quale segno sarà un segno in quanto rinvia a un altro segno all’infinito. Una qualunque cosa è quella che è se, come diceva Derrida, presa in un differire che è sia l’essere differente da sé sia lo spostarsi, in una duplice accezione di “differire”, cioè in quanto non identico a sé ma anche come spostarsi su altro, che poi lo spostarsi su altro comporta il non essere differente da sé. Il differire da sé comporta un problema appunto problema sul quale abbiamo riflettuto quando parlavamo di Severino, basterebbe la domanda “come faccio a sapere che differisce da sé?”, in base a quale criterio? E non servono a niente tutte le prove fisiche del fatto che per esempio io pronuncio un significante, questo significante se lo pronuncio un’altra volta le macchine possono rilevare delle varianti, per cui non posso mai dimostrare che è identico. Ma non posso neanche dimostrare che è differente perché queste macchine diranno delle cose che comunque sarò io a interpretare, sempre e comunque, e posso metterci in mezzo tutte le macchine che voglio alla fine troverò sempre me che do un significato a tutte queste cose, quindi come so che differisce da sé? Come faccio a saperlo? È una deduzione, come dire che non posso provare una cosa del genere in nessun modo, né che è identico, né che è differente. Non c’è una prova, la prova è al di là di tutto ciò, la prova, cioè il concetto di prova dà già per acquisito che qualche cosa sia quello che è necessariamente e non differente da sé, quindi siamo già a un passo al di là. Qui stiamo ancora al di qua e ci chiediamo “come faccio a sapere che una certa cosa è quella che è? Che l’ente è quello che è?” e allora tutta la filosofia, Heidegger in particolare, dovrebbe dirci che l’ente è quello che è per via del suo significato, ma torniamo al punto di partenza, e cioè all’impossibilità di stabilire che un significato dà al significante la sua enticità, la sua essenza, il suo essere significante. A questo punto è quello che è ma non posso dimostrare che è quello che è, per dimostrare che il significante è quello che è devo fare un passo in più, cioè è quello che è, di nuovo, se è differente da sé, se è altro da sé. Non c’è nessuna uscita da una cosa del genere in nessun modo, ci hanno provato in tutte le maniere sia con la filosofia, sia con la linguistica, sia con la semiotica, sia con la filosofia del linguaggio, sia con la logica stessa. Nessuna uscita, salvo incominciare a pensare che il dire che un significante è identico a sé non è una virtù del fatto che il significato del significante dia al significante la sua enticità, perché di fatto non lo fa, ma io gliela attribuisco, io decido che il significante a questo punto è identico a sé e lo uso come tale. Però occorrerebbe rifletterci in ben altri termini, è possibile cancellare il segno? Se il significato comunque non potrà mai dare al significante la sua enticità, cioè garantire che il significante è quello che è, che ce ne facciamo? Dopo tutto potremmo anche considerare, ma prendete la cosa per quello che vale in questo momento, sono solo ipotesi, considerare che il significante è quello che è in base a una decisione. A questo significante stabilisco questo rinvio, per quale motivo il significante stabilisca quel rinvio, su questo Freud ci ha lavorato parecchio, ma è comunque all’interno di un sistema. Mi rendo conto che è molto complicata la questione, ne parleremo più avanti ma tanto per accennarla. Tenendo conto naturalmente che a un certo punto si inserisce questo elemento: dopo avere, tra virgolette “formalizzato” questa struttura linguistica, ci avviciniamo alla distinzione che fa Benveniste e cioè la distinzione tra la semiotica e la semantica che è un altro modo di intendere significante e significato, la semiotica si occupa del segno cioè dell’aspetto formale, il segno funziona così eccetera, l’aspetto semantico è ciò che attribuisce invece un senso alle cose. Ma il significato alle cose chi lo fornisce? E qui cosa direbbe Nietzsche? La volontà di potenza.