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13 febbraio 2019

 

La struttura originaria di E. Severino

 

In queste ultime cose che dice Severino c’è una sorta di confutazione di ciò che noi andiamo dicendo, adesso vi dico perché. Abbiamo sempre sostenuto che il linguaggio è autocontraddittorio, perché dicendo una cosa ne dico un’altra, cioè, per dire una parola, un significato, per dire che cos’è un significato dovrò dire altri significati rispetto a quello. Cosa direbbe Severino a questo riguardo? Ci direbbe che affermare la contraddittorietà del linguaggio è contraddittorio. Perché? Lui dice che ciò che costituisce il significato, un significato qualunque, è determinato dalle sue costanti e che se non si pongono anche le costanti non si pone neanche quel significato. È come dire che, affermando qualcosa, affermo necessariamente in questo qualcosa anche il suo significato, cioè le sue costanti, i suoi momenti semantici. Ora, è chiaro che anche noi poniamo queste costanti, anche se le chiamiamo in termini diversi, però il passo che fa lui è differente da quello che facciamo noi. Noi diciamo che c’è una relazione tra il significato e le sue costanti (adesso usiamo i suoi termini). Lui dice, invece, che c’è una identità, cioè queste costanti “sono” il significato, perché senza porre queste costanti non posso porre il significato. Il che significa che queste costanti, che costituiscono il significato, non sono altro dal significato, sono il significato stesso. Non sono separate queste due cose, sono lo stesso. È quella cosa che lui formula scrivendo (A=B)=(B=). Quindi, noi diciamo che il linguaggio è autocontraddittorio, ma per Severino non lo è. Per lui non c’è la contraddizione perché ciò a cui la parola rinvia è la stessa parola, è la parola stessa, perché se non avesse le costanti, di cui è fatta, non ci sarebbe neanche questa parola. Questo comporta che, usando le sue parole, progettare, cioè supporre, che il linguaggio sia autocontraddittorio è contraddittorio, nel senso che ciò che una parola è, quindi il suo rinvio ad altro, in questo rinviare ad altro di fatto rinvia a qualcosa che è identico alla parola stessa, e quindi non c’è nessuna contraddizione, il linguaggio non è contraddittorio, quantomeno non per i motivi che abbiamo indicati noi. Quindi, seguendo Severino, è falso, è nullo affermare che il linguaggio è autocontraddittorio. È un’obiezione che ho tratto leggendo Severino e della quale non è così semplice sbarazzarsi. Non che sia necessario sbarazzarsene, non è neanche necessario non sbarazzarsene, ma è comunque qualcosa che dà da pensare. Il fatto di avere posto, come direbbe lui, un progetto, che è quello della contraddittorietà del linguaggio, è contraddittorio. Intanto, diciamo l’aspetto positivo di tutto ciò. In effetti, rileva che la parola, cioè un significato, è tale solo se c’è qualche altra cosa che dice che cos’è, cioè che lo fa esistere in quanto significato, quelle che lui chiama le costanti, momenti semantici. Quindi, c’è la parola, il dire qualcosa, questo qualcosa è qualche cosa in virtù del fatto che rinvia a qualche altra cosa. senza questo rinvio non ci sarebbe neanche questo primo gesto. Questo lo diceva anche Hegel, anche Peirce: senza il rinvio alla Secondità non c’è neanche la Primità, non c’è neanche il primo gesto, perché questo primo gesto è quello che è per via del fatto che rinvia a quell’altro che gli dà il significato che ha. Sarebbe l’inizio, il cominciamento, la parola iniziale, che si dice, si pronuncia, ma che è come se fosse nulla in attesa del significato che la fa esistere per quello che è. I punti deboli dell’argomentazione di Severino riguardano almeno due aspetti. Uno è l’aspetto semantico, perché finché si parla di sintassi va tutto bene, la sintassi non è che l’applicazione di regole, ma quando si parla di semantica le cose si fanno più complesse. L’altro punto, l’altra questione è quella dell’immediato, di ciò che non è mediato. L’immediato, cioè l’apparire di qualche cosa, il concreto. Lui stesso giunge a dire che c’è un problema con l’immediato e il mediato, perché sembra che l’immediato, di fatto, sia mediato, anche se poi risolve a modo suo la questione. Ma la questione non è così semplice. Consideriamo la prima questione. Muoviamo, quindi, da una riflessione intorno alla semantica, dal significato delle cose, cosa le cose vogliono dire. Per Severino sappiamo che il significato originario è la incontraddittorietà, che riguarda sia la F-immediatezza che la L-immediatezza, cioè l’immediato dell’apparire del fenomeno e l’immediato dell’apparire di questo fenomeno in quanto incontraddittorio, cioè quel fenomeno che mi appare non è il fenomeno che non mi appare. Ora, però, possiamo anche considerare il fatto che questa posizione intorno alla semantica, alla quale peraltro lui tenta di ricondurre qualunque posizione, è un po’ più complicata. Quando pongo un significato, dice lui, nel porre quel significato pongo tutte le sue costanti. Ne siamo proprio sicuri? Non nel senso che non ne pongo abbastanza, o magari ne dimentico qualcuna, ma sono davvero costanti di quella cosa, sono davvero quelle cose senza le quali ciò che dico non è. Come dire che di un significato io devo conoscere già, per poterlo porre, tutte le costanti che lo rendono tale. Tutte queste costanti devono già essere implicite in quel significato che io sto utilizzando. Quindi, questo significato è naturalmente tutte le sue costanti, ma la soluzione che Severino prospetta non va così da sé. Lui compie questo gioco di prestigio, per cui tutte queste costanti sono il significato e, quindi, c’è identità, sono lo stesso. È una questione che, quando inizia ad affrontare, affronta molto rapidamente. Erano le prime pagine, quelle in cui per la prima volta poneva quella famosa formulazione, (A=B)=(B=A), per mostrare l’identità. Sì, certo, ma la formula è soltanto un modo per raffigurare un qualche cosa, ma un qualche cosa che deve avere un fondamento argomentativo solido. Il suo discorso è questo: sono lo stesso perché, se non lo fossero, allora non potrei porre neanche il primo elemento. Dicendo che A=B, se pongo solo questo c’era il problema, se ricordate, del soggetto e del predicato, per cui a A=B aggiungeva =(B=A), dove il contenuto della prima parentesi congiunto con la seconda parentesi sarebbero l’identico. Però, di fatto, non c’è un’argomentazione che sostenga una cosa del genere. Dice soltanto che sono l’identico, e poi ci fa la sua figura. Va bene, ma la figura, la formuletta non ci dice niente. Torno a dire: la sua unica argomentazione è che se A e B non fossero l’identico allora nella formula A=B non potrei porre nemmeno la A. Il che potrebbe anche essere ma appare più come escamotage che una vera e propria argomentazione, e cioè io dico che sono identici, perché sennò non potrei porre nemmeno la A. Ma questa non è propriamente un’argomentazione. Perché non potrei porre la A? Mi direbbe che è la B che dice che cos’è la A e, quindi, se non fossero la stessa cosa non ci sarebbe nemmeno la A, ma è sempre la B che dice che cosa è la A, cioè un’altra cosa rispetto ad A. Ma a questo punto ci troviamo di fronte a un problema, cioè sono la stessa cosa ma anche non sono la stessa cosa. Sono la stessa cosa nel senso che io dico che la A senza la B non è la A, perché B è ciò che la A è, ma al tempo stesso ho bisogno di un’altra cosa per dire che cosa è la A, perché se fossero davvero la stessa cosa non ci sarebbe bisogno della B. Quindi, è vero che sono la stessa cosa ma anche non sono la stessa cosa. Se fossero davvero la stessa cosa, non ci sarebbe linguaggio, perché non ci sarebbe la possibilità di spostarsi da una cosa a un’altra, non ci sarebbe quella cosa che Hegel chiama dialettica. quindi, lui non ha torto ma non ha neanche ragione, perché è vero che sono identici ma anche non lo sono, perché se lo fossero non ci sarebbe la possibilità di spostarsi da uno all’altro, non ci sarebbe più spostamento, sarebbero la stessa cosa. Anche se faccio A=A, comunque la seconda A è un’altra cosa rispetto alla prima. Ciò che mi stavo chiedendo è se il funzionamento del linguaggio non consista in questo spostamento necessario che procede dal fatto che, sì, la A è la stessa cosa, è identica a B, ma anche no. È come se per il funzionamento del linguaggio fossero necessarie entrambe queste posizioni, e cioè che ci sia l’identità ma anche l’alterità. Se non ci fosse questa alterità sarebbe tutto bloccato, non ci sarebbe dialettica, non ci sarebbe niente. A questo punto non ci sarebbe neppure la A, perché, e Severino ce lo mostra, senza la B, che ci dice che cosa è la A, non c’è neanche la A, non c’è niente. Lui stesso aveva nelle mani la soluzione, ma non è che l’abbia mancata, è che lui ovviamente doveva seguire un percorso che doveva portarlo doveva voleva lui.

Intervento: Questo aspetto ha delle implicazioni enormi.

Questa questione era già in nuce in ciò che stiamo dicendo, ma non è mai stata affrontata in modo così diretto. Severino ci sta costringendo a farlo perché sennò eravamo presi in una contradizione senza via d’uscita. Il discorso di Severino è blindato, non dà margini di errore, per cui o si pone la questione direttamente su un aspetto e si mostra che questo aspetto è necessariamente anche qualcosa di differente da ciò che lui pensa che sia, o si accoglie in toto il suo discorso e, allora, non c’è niente da fare. È effettivamente blindato, come dicevo prima, non lascia possibilità di errore. Però, in questo caso dobbiamo dire che se le cose fossero così come dice lui, e cioè che l’identico è l’identico, che le costanti del significato sono l’identico rispetto al significato, se fosse davvero così non ci sarebbe movimento. È anche così, ma non soltanto. È necessario questo movimento dalla A alla B, e perché ci sia movimento occorre che B non sia A, occorre che ci sia questo spostamento perché il linguaggio funzioni, e il linguaggio è questo: è sia l’identità che l’alterità, simultaneamente.

Intervento: C’è un movimento in avanti, che il passaggio dalla A alla B, ma poi un tornare indietro, nel senso che proprio perché sono passato alla B a quel punto la A è quella che è.

Ciò che lei ha descritto è la dialettica di Hegel, e cioè questo movimento di andata e ritorno che non è altro che la relazione tra i due, la sintesi. La relazione è questo movimento, ed è questa relazione che a questo punto fa esistere tanto la A quanto la B. La cosa importante in tutto ciò è intendere che non è tanto che Severino elimini il movimento quanto il fatto che lui elimina il divenire, cioè le cose non possono venire dal nulla e tornare nel nulla. Il che potrebbe anche essere ma in questo modo non stiamo dicendo che le cose vengono dal nulla e tornano nel nulla; stiamo dicendo che una cosa, perché sia quella che è deve avere un movimento che la sposta su un’altra cosa, stiamo dicendo che non può rimanere lì ferma nell’identico. Se rimanesse ferma nell’identico non ci sarebbe linguaggio, non ci sarebbe possibilità di procedere oltre; non ci sarebbe neanche la sintesi a questo punto, se tutto è identico. Se il significato è tutte le sue costanti, e cioè sono lo stesso, il che è in parte vero, ma se fosse solo quello allora rimarrebbe tutto bloccato in una sorta di identità. Rimanendo così bloccato non ci sarebbe la possibilità di questo spostamento dalla A alla B, che è quello che consente al linguaggio di funzionare. L’alterità è una cosa complessa perché anche nelle pagine che leggeremo, in effetti, il tentativo di Severino è di togliere l’alterità, cioè di porla e di toglierla, per potere fissare l’identità. Che è poi quella operazione che faceva rispetto all’essere: pongo l’essere e il non essere, ma il non essere lo tolgo perché solo a questa condizione ho l’essere. Certo, occorre ancora rifletterci, però questo incomincia a porre una direzione rispetto al fatto che l’identità e l’alterità sono due facce della stessa cosa. Che è in parte quello che dice Severino, non sto dicendo che Severino è in errore, ma sto dicendo che non è soltanto così, non c’è soltanto questa identità tra il significato e le sue costanti. È necessario che il significato sia posto come alterità rispetto alle sue costanti, e cioè che non siano la stessa cosa: sono la stessa cosa ma anche no. Se non sono la stessa cosa, ecco che allora il significato necessita di altro, e non soltanto di se stesso, per stabilirsi, perché se dico che le costanti sono il significato, ponendo le costanti pongo lo stesso significato in quanto tale. È come se dovessi dire che queste costanti sono altro dal significato, sono anche, altro dal significato. In effetti, non è diverso da ciò che diceva de Saussure: il significante è quello che è in quanto è altro da sé, in quanto è in una relazione differenziale con tutti gli altri significanti. Non è che Severino non ammetta questo, il discorso è più sottile. Lo accoglie, certo, ma tutti questi altri significanti, per Severino, sono posti e poi tolti, e solo a questo punto il significante è quello che è. Qui tutto si gioca sui termini, quindi, in definitiva, sulla semantica. Qui arriviamo alla seconda questione, che è quella semantica, che è complicata perché la semantica non è così facile da maneggiare. Nel senso che quando Severino parla di identità immagina che l’identità sia quello che lui vuole che questo termine sia. Solo a questa condizione tutto funziona, e cioè che quando parla di costanti, quelle costanti abbiano il significato che intende lui, sennò crolla tutto. Lui mostra una semantica inattaccabile, nel senso che una cosa è quella che è se non è il suo contrario; che cosa significa questa cosa? Quello che è, cioè significa il non essere quella cosa che non è. Però, dicendo tutto questo abbiamo utilizzato una serie di termini. Abbiamo la certezza che questi termini significhino esattamente ciò che noi vogliamo che siano? Sì, certo, se lo stabiliamo, lo decidiamo, va bene. Ma a questo punto arriva quella ondata inarrestabile che è il linguaggio, e cioè il fatto che determinare un certo termine in un certo modo è arbitrario, non è necessario. Non è necessario, per esempio, che l’identità sia ciò che Severino dice che sia, perché identità è una parola ed essendo una parola quello che è, in quanto relata con altre parole, questa parola è debitrice di altre parole; queste altre parole intervengono, Severino direbbe come costanti, quelle costanti senza le quali la parola che ho detto non è quella che è. Ma un momento, perché quando parliamo di semantica o di linguaggio, le cose sono più complicate. Come posso essere sicuro che un certo termine abbia quel significato che sto utilizzando? Se ne propongo uno diverso, non sta più in piedi nulla. Quindi, quel termine deve avere quel significato, ma non perché ce l’ha di per sé.

Intervento: È il toglimento ad essere arbitrario?

È la questione dell’arbitrarietà del segno. È il segno ad essere arbitrario, ma non è arbitrario che ci sia il segno; questo non è arbitrario. Io non posso isolare il significante da tutto ciò che il significante non è, questo non è arbitrario. Ma che cosa tolgo, questo sì. Quindi, o i termini che usa Severino sono enti di natura, enti metafisici, che sono quello che sono per sé, cioè per se stessi essenti, oppure, se sono parole, allora la questione si altera, perché nessuno al mondo ci garantisce che può farlo, che quella parola significhi soltanto quello. A questo punto, è chiaro che l’obiezione che veniva fatta da Severino al nostro discorso – tramite me, Severino non ha mai detto una cosa del genere – si dissolve. Potremmo dire che Severino ha, sì, ragione se e soltanto se i termini che utilizza significano esattamente quello che lui vuole che significhino. A questo punto, è chiaro che tutto il discoro di Severino prende un’altra piega. Non che sia meno rigoroso, ovviamente, però è un altro modo per accorgerci dei problemi che sorgono nel momento in cui non ci si fa carico che il linguaggio è un problema, problema come cosa da pensare continuamente, non un impiccio. Diventa un impiccio nel momento in cui si vuole stabilire l’identità con assoluta certezza; allora, sì, diventa un impiccio, perché crea dei problemi. È, invece, un problema nell’accezione heideggeriana del termine, e cioè come ciò che è da pensare, ciò che è ancora da pensare. Questa è la più grossa obiezione che possa farsi a Severino: tutto questo discorso che fa, di 550 pagine, sta in piedi perfettamente a condizione che i termini che lui utilizza abbiano quel significato che lui vuole che abbiano, non che hanno, ma che lui vuole che abbiano, che è molto diverso. Potremmo aggiungere: come qualunque discorso. A pag. 417. a) Si può osservare, a questo punto, che dicendo dell’essere oltrepassante… L’essere oltrepassante è tutto ciò che dobbiamo porre e togliere perché l’essere sia quello che è, per ottenere l’identità. …(indichiamo, per comodità, il significato “essere oltrepassante l’essere presente” col simbolo Q) è presente la forma, ma non il contenuto, questo contenuto è d’altronde presente… Era questo il suo problema, quello del semantema infinito, e cioè il fatto che il semantema infinito è quella cosa che contiene il tutto, ma non presente; il tutto, il concreto, ma non tutto presente, non è tutto qui. Sì che daccapo si dovrà concludere che, ad un tempo, tale contenuto è presente e non è presente. È il discorso che si faceva prima rispetto al significante: questo contenuto, cioè tutto ciò che il significante non è, è presente ma anche non è presente; se tutto fosse presente non potremmo parlare perché la parola significherebbe simultaneamente tutte le parole esistenti. Anche in questo caso l’aporia sorge per l’intervento dell’intelletto astratto. Quando si dice che Q è presente quanto alla forma, ma non quanto al contenuto, si pone una relazione tra Q, posto come significato formale, e Q, posto come significato concreto. Tale relazione è appunto ciò che consente di tener fermo il significato concreto, il contenuto, come non presente:… Io astraggo il contenuto formale, la forma, ma non il contenuto concreto, ma non tutti i momenti semantici, come direbbe lui. Tengo solo la forma, e la forma di per sé non dice molto. Però, sono in una relazione questa forma e questo contenuto. Infatti, se ci si pensa bene, questa è la questione che poneva già Aristotele: posso astrarre la forma dal contenuto? Idealmente sì, concretamente no. Una forma che non ha nessun contenuto o un contenuto che non ha nessuna forma… Se quella relazione non è mantenuta, accade che, facendosi a considerare il significato “contenuto concreto di Q”, se ne debba riconoscere la presenza. Se non ci si rende conto che non c’è forma senza contenuto, allora è possibile un contenuto concreto di Q senza la sua forma. Ma sappiamo che non si dà. Dove è chiaro che questo riconoscimento avviene – e deve avvenire – solo in quanto non si tien conto che tale riconoscimento è già operato dalla posizione della presenza di Q come significato formale. Infatti, in quanto il significato “contenuto concreto di Q” è presente, è presente come significato formale, e cioè come quello stesso significato formale dal quale si prescinde allorché si considera astrattamente Q posto come significato concreto. Sta dicendo che porre astrattamente la divisione tra Q come forma e Q inteso come contenuto non si può fare. Sì che, posta la presenza del significato “contenuto concreto di Q” si dovrà daccapo, in forza del significato stesso di Q, distinguere Q posto come significato formale, da Q posto come significato concreto. È la stessa cosa che diceva prima, cioè non posso porre l’uno senza l’altro; se pongo uno mi ritrovo a considerare che questa astrazione elimina l’altro, ma l’altro mi è necessario perché ci sia il primo. Se Q ha un significato, vuole dire che ha una forma e un contenuto; è questa la questione. Se io tolgo uno dei due, tolgo il significato di Q, allora tolgo Q. Obiettare che lo stesso contenuto di Q è presente, non significa dunque altro che ripetere la distinzione tra Q come significato formale e Q come significato concreto. La contraddizione dell’obiezione consiste nel ritenere che la ripetizione sia introduzione di un nuovo elemento: la presenza del contenuto di Q. Questa relazione non è avulsa dal significato di Q, che è fatto della forma di questa proposizione e dal contenuto di questa proposizione. Il significato di Q non è un’altra cosa rispetto a quei due, sono la stessa cosa. Se quindi l’aporia vuol concludere dicendo che il contenuto di Q è, ad un tempo, presente e non presente, significa che Q, posto come significato concreto, è e non è considerato in relazione a Q posto come significato formale:… Quindi, ci sta dicendo, che il significato di Q è presente e non presente al tempo stesso. È presente, per esempio, come significato formale ma non come significato concreto, quindi, non è presente. In altri termini – e indicando con fQ e con cQ, rispettivamente, Q come significato formale e Q come significato concreto –: affermare che la differenza tra intero e F-immediatezza è L-immediata… Cioè, affermare che l’apparire di Q come fenomeno è incontraddittorio. …significa affermare che è L-immediato che cQ non è presente… È un altro modo per dire che se io pongo il significato di Q soltanto in un modo, anziché in entrambi i modi, non pongo Q, semplicemente. A pag. 419. Il discorso aporetico si produce perché, ad un tempo, assume e non assume cQ come momento astratto della concretezza semantica costituita da quella implicazione: cQ è assunto come momento astratto, appunto perché è tenuto fermo come non presente… Cosa che non posso fare, non posso tenerlo fermo come non presente; se non lo tengo presente non c’è neanche Q. Se io astraggo un momento concreto dal momento formale, non ho né l’uno né l’altro. …ciò può avvenire solo in quanto, come si è detto, cQ non sia più tenuto fermo nella sua relazione a fQ, e cioè sia astrattamente separato dall’implicazione concreta. Lui direbbe: distinti ma non separati. A pag. 420, paragrafo 5, Materia e forma dell’intero semantico. L’intero semantico è la totalità dei significati. L’intero semantico è sintesi della forma e della materia assoluta del significato. Ma si avverta che la materia assoluta non può valere come un che di distinto dalla forma: in tal caso il semantema “intero semantico” … non sarebbe incluso nella materia assoluta, sì che questa non sarebbe tale. Qui occorre fermarsi un attimo. Dice la materia assoluta non può valere come un che di distinto dalla forma. Se noi separassimo, dice, la materia dalla forma, in tal caso l’intero semantico, questa proposizione, questo semantema, non sarebbe incluso nella materia assoluta. Se l’insieme σ1, σ2, σ3 … σn indica tutti i significati, e pertanto è l’assoluta materia semantica… L’assoluta materia semantica è la totalità assoluta dei significati. …intendendo la materia come distinta dalla forma la proposizione: “σ1, σ2, σ3 … σn è l’intero semantico” sarebbe autocontraddittoria: appunto perché il predicato – che è la forma dell’intero, o l’intero come significato formale -, come distinto dal soggetto, non potrebbe essere né incluso né identico al soggetto; sì che il soggetto non potrebbe essere l’intero semantico… L’insieme di tutti i significati del mondo è l’assoluta materia semantica. Se noi distinguiamo la materia dalla forma – tutto questo sempre per dire che non possiamo distinguere la materia dalla forma – se distinguiamo l’assoluto semantico dalla sua forma – la forma è questa proposizione: “σ1, σ2, σ3 … σn è l’intero semantico” – questa formula, σ1, σ2, σ3 … σn, sarebbe autocontraddittoria, perché il predicato, che è la forma dell’intero come significato formale, come distinto dal soggetto non potrebbe essere né incluso né identico al soggetto, perché uno sarebbe il soggetto e l’altro sarebbe il predicato. La forma della proposizione sarebbe il predicato, se tengo fuori questa formula dal concreto, allora questa formula concreta non è più vera, perché io ho tenuto fuori l’altra formula. Non è molto lontano da quello che fa Gödel quando dice: io trascrivo in un certo codice tutte le formule matematiche; però, trascrivo anche quella formula che dice che questa formula non è contenuta all’interno delle formule matematiche. Se, come ha fatto Gödel, dimostro che questa formula, che dice di non essere contenuta all’interno delle formule matematiche, è formulata matematicamente, allora la matematica non può includere questa cosa, perché è autocontraddittoria. Tutto il corpus mathematicus include la formula che dice che questa formula non è una formula matematica e, quindi, l’intero matematico non è intero, perché manca questa formula. Quella proposizione, dunque, non è autocontraddittoria solo in quanto il soggetto è la materia assoluta come sintesi della materia e della forma, e il predicato è la forma, come sintesi a sua volta della forma e della materia; sì che la materia e la forma sono il medesimo, e sono distinti solo come momenti astratti di questa medesimezza, e in quanto così astratti non sono, nessuno dei due, l’intero. Se io lo divido, tutto questo non è più l’intero, che invece si voleva che fosse. Perché? Perché uno è l’astratto e l’altro il concreto, e questi due non li posso eliminare, apparentemente, per cui questo intero risulta fatto di due cose, e nessuna delle due formulazioni è l’intero, perché quella formale non è quella concreta, e quella concreta non è quella formale.