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13-2-2013

 

Il pubblico ama spesso partire da Freud, visto che Freud ha inventata la psicanalisi, e in questo caso muoveremo dalla “talking cure”. Si tratterà di valutare il termine “cura”, ma in ogni caso si tratta di un percorso che muove dalle parole, e attraverso, lungo le parole ,giunge ad altre parole, ad aggiungere altre parole al racconto, al discorso e quindi, come diceva già Freud, si tratta di un percorso fatto di parole. Occorre intendere allora come funzionano queste parole, e ancora perché le parole possono produrre quegli effetti tali da modificare un modo di pensare, da modificare uno stato d’animo, modificare una superstizione, una credenza eccetera. Quindi questi due aspetti: come funzionano le parole e come fanno le parole a produrre gli effetti che producono. Sono due facce della stessa questione, se si intende come funzionano le parole, come funziona il linguaggio, allora si intende anche perché producono degli effetti. La cosa forse più interessante in tutto questo è che in una analisi non ci sono altri strumenti, altri mezzi, altre cose se non le parole. Poi c’è sempre quello che dice: “sì, ma l’analista deve cogliere anche l’atteggiamento eccetera”, che è un discorso difficile da farsi, in quanto ciò che l’analista coglie è da vedere se ha qualcosa a che fare con ciò che riguarda l’analizzante o sono soltanto fantasie sue, che si scatenano in quel momento in base a questioni che lo riguardano, c’è questa possibilità, diciamo che non è impossibile che accada, anche se non dovrebbe accadere. In ogni caso si tratta sempre di un’interpretazione di un qualche cosa. Si è detto varie volte che l’analista non interpreta, cioè non traduce ciò che ascolta in un’altra cosa che a lui aggrada o garba di più, o che ritiene essere più autentica, più vera, diciamo che non dovrebbe avvenire. Già ai tempi di Verdiglione la questione dell’interpretazione fu abbandonata proprio per questo motivo: l’interpretazione presuppone sempre che ci sia un quid che si suppone essere quello, e a partire da quello lo si trasforma in un’altra cosa, lo si traduce in un altro discorso che dovrebbe essere più autentico, più vero, più consono eccetera, per cui si è abbandonata l’interpretazione a vantaggio unicamente dell’ascolto, altro termine complesso. Potremmo dire che ascoltare un discorso è cogliere lungo questo discorso che cosa questiona, vale a dire cosa interroga e cosa continua a interrogare all’interno del discorso che il discorso invece vorrebbe chiudere. Questa era la tecnica di Verdiglione per altro, e la formazione del cifrematico. Cogliere lungo il discorso che cosa questiona e, anziché chiuderlo come tende a fare il discorso della persona, a rilanciarlo. Quindi aprire anziché chiudere, l’analista dovrebbe formarsi a compiere questa operazione, naturalmente per fare questo deve avere condotto lui stesso un’analisi per accorgersi di come, e con quanta facilità il proprio discorso in prima istanza tenda a chiudere tutte le questioni, “è così e se è così allora io faccio cosà”, solo che non è “così”, non è così perché la conclusione cui giunge, e qui già si inserisce qualcosa della struttura del linguaggio, la conclusione di qualche cosa non descrive uno stato di fatto, questa conclusione è soltanto una proposizione che chiude una sequenza che muove però da una certa premessa e questa premessa occorre incominciare ad accorgersi che è discutibile, mentre spesso per la persona non lo è. Quindi ascoltare non è nient’altro che rilanciare, riaprire quelle questioni che il discorso tende incessantemente a chiudere; perché il discorso tende a chiudere la questione? Per potere affermare che quindi è così come dico io…

Intervento: se io ritengo che la premessa da cui parto deve essere necessariamente vera…

Se la conclusione non la contraddice è vera. Ma lei dice in un’analisi o in un discorso paranoico? Intervento: il discorso paranoico va sempre a confermare la premessa…

Entro certi limiti sì, perché per il discorso paranoico alcuni concetti, alcuni pilastri sono indiscutibili. Cerca il consenso altrui ma non è tanto per confermare quello che dice, ma per persuadere l’altro che le cose stanno così, perché stanno proprio così come dice lui, per cui non è tanto una richiesta di conferma ma un modo per far sì che anche l’altro, che fondamentalmente è stupido, possa anche lui sapere come stanno le cose. Per questo mette in atto tutte le sue operazioni, cioè esternare continuamente le cose in cui crede in modo che tutti sappiano finalmente come stanno le cose. Ma dicevo che la questione si chiude nel momento in cui la persona giunge alla conclusione, per cui afferma qualche cosa, cioè che le cose stanno così, e questa conclusione cui giunge è quella che per altro dà un senso o conferma tutta la catena che ha condotto a quella conclusione, e questo comporta ancora che se le cose stanno così allora non è lui nell’errore ma sono piuttosto gli eventi, le cose che sono accadute che hanno condotto inesorabilmente a questo. Se il fanciullino mi abbandona, dice la fanciulla, è ovvio che sono triste, più ovvio di così! Mentre non è ovvio per niente, anche se non è facilissimo accorgersene, però non è ovvio che accada una cosa del genere, perché accada occorrono tutta una serie di cose che è notevolissima.

Che cosa accade quando si chiude una questione? Quando si dice “quindi è così”? Accade che da quel momento in poi la conclusione, che di fatto non descrive niente, è soltanto una superstizione, una credenza, inizi a funzionare come punto di partenza per costruire altre cose. È per questo che gli umani sono pieni di superstizioni, fantasie, paure, angosce, acciacchi di ogni sorta, tipo, foggia, perché di volta in volta creano altre superstizioni a partire dalle superstizioni precedenti, che sono passate all’interno del discorso come vere. Per esempio per costruire una paura, un’angoscia, una fobia, è necessario che qualche cosa sia stato posto, inteso o colto dalla persona come reale, come vero, perché se no non si costruisce niente. La considerazione più semplice e più banale è che gli umani sono parlanti, e che se non lo fossero non sarebbe mai potuta esistere la psicanalisi ovviamente, e neanche le nevrosi, le paure, le angosce, le fobie, se non fossero parlanti tutto questo non sarebbe mai esistito. Perché? Perché sono le loro parole che le hanno costruite, e come le hanno costruite queste ansie, angosce, paura eccetera? Nel modo che descrivevo prima, e cioè di volta in volta il discorso giunge a una conclusione, stabilisce che una certa cosa è così, e una volta stabilito che è così su questa cosa costruisce altre cose, senza rendersi conto che le premesse che sta utilizzando non sono né reali, né necessarie, sono soltanto una produzione di ciò che lui ha costruito, che lui dice e, cosa fondamentale, non hanno nessun riferimento al di fuori delle sue parole. Qui occorrerebbe inserire altri elementi: tutte le considerazioni che la persona fa e che la inducono a pensare di stare male muovono da premesse, cioè da altre considerazioni, ma queste considerazioni rinviano ad altre considerazioni, che rinviano ad altre considerazioni, all’infinito? Sì, non c’è un punto in cui queste considerazioni possano agganciarsi a qualche cosa che è fuori da queste considerazioni, fuori dal gioco, fuori dalla sua teoria, non essendoci nulla al di fuori di questa teoria per il semplice fatto che queste cose che ha costruite, le ha costruite per una serie di rinvii, ciascuna cosa esiste perché è utilizzabile dal discorso, cioè perché rinvia a qualche altra cosa, per esempio al suo significato, se non rinviasse al suo significato non significherebbe niente. Tutte queste operazioni che il linguaggio fa costituiscono quel bagaglio di informazioni che per la persona costituiscono la sua vita, la sua esistenza, le cose in cui crede più o meno fortemente, comprese le paure, le angosce, le ansie eccetera, che vengono letteralmente costruite dal suo discorso, sono una sequenza di considerazioni che si aggiungono mano a mano, si implementano, diventano sempre più elaborate, più ricche, però sempre fondate su un qualche cosa che di per sé non ha nessuna ragione di essere. Una proposizione che non ha un riscontro in qualche cosa, ha un riscontro in altre proposizioni, che hanno riscontro in altre proposizioni e così via all’infinito. Per questo è fondamentale per l’analista ascoltare il discorso, intendere che cosa all’interno del discorso si chiude e cioè non consente più al discorso di proseguire. E interviene proprio lì, per fare in modo che il discorso continui, per fare in modo che la persona continui a parlare. Questo può avvenire aggiungendo sempre elementi, si impedisce che la cosa si fermi per cui non è mai chiusa, è sempre rinviata ad altro, però non si sa bene come funzioni di fatto questa cosa, oppure ci si rende conto che è il funzionamento stesso del linguaggio che permette, rinviando da una cosa a un’altra, di modificare non soltanto la conclusione ma anche la premessa perché consente di verificare che ciò che si dice non ha, né ha mai avuto un referente fuori da sé, fuori dalla sua struttura, dalla sua architettura, dicevamo la volta scorsa, dalla sua teoria…

Intervento: la teoria di Verdiglione…

Per Verdiglione non si torna mai alla premessa che muove il tutto, neanche la conclusione, non si mette neanche in discussione, semplicemente la si sposta, la differenza fra la tecnica di Verdiglione e quella che in qualche modo è deducibile dal discorso che stiamo facendo è che nel primo caso si tratta di uno spostamento. Se sposto sempre la cosa, quella non è mai la stessa e quindi se non è la stessa non può creare dei problemi, almeno in teoria, poi se sia proprio così questo è un altro discorso, però non c’è nessun accenno al modo in cui funziona e perché può funzionare una cosa del genere. È vero che con lo spostamento ci sono degli effetti qualche volta, però non si intende perché, e quindi questi effetti possono ripresentarsi, mentre se si intende la struttura e perché avviene che uno spostamento possa, proprio per la struttura del linguaggio, produrre degli effetti, allora il discorso è differente. È differente cessare di credere in qualche cosa oppure non avere più bisogno di credere in nulla, è diverso perché si è inteso come funziona il credere in qualche cosa, da dove viene questa necessità, che è la necessità di avere ragione, di avere potere. La “tecnica” di Verdiglione in alcuni casi funziona. Anche questo non è semplice ovviamente, perché il discorso tende sempre a chiudersi cioè a dire che le cose stanno così come dico io, ed ecco la questione del potere a questo punto. La questione del potere è strettamente connessa con il funzionamento del linguaggio, questione che nessuno ha mai affrontato prima di noi e che è l’unica che consenta di intendere perché un discorso si chiuda a un certo punto, perché chiudendosi dice come stanno le cose, quindi le cose stanno come dico io, che è una forma di esercizio di potere, ed è questo il motivo per cui il discorso tende a chiudersi, se no non avrebbe questo interesse a chiudersi asserendo, affermando che è così; è possibile chiudere una proposizione senza pensare che le cose necessariamente debbano stare così, anche perché non può comunque non concludere continuamente: ogni volta che si afferma qualcosa, si asserisce qualcosa, si conclude, ma la conclusione è soltanto un momento del gioco, cioè chiude una sequenza per potere proseguire in un’altra direzione, ma senza che questa cosa che ha raggiunto rappresenti chissà che, non definisce nulla che sia fuori da quel gioco. Dicevo che la questione del potere è quella che consente di intendere anche perché un discorso tenda a chiudersi, se non si intende la questione del potere, non si elabora, non si articola, non la si svolge e cioè non si giunge a intenderne la struttura all’interno del funzionamento del linguaggio. C’è una teoria  che considera che parlando ciò che si dice rinvii sempre a qualche cos’altro, perché sorge per esempio una nevrosi? Perché è come se la persona, il suo discorso arrivasse a un punto in cui un certo elemento non rinvia più ad altri perché è quello che è, è identico a sé, e allora se arrivato a questo punto si impedisce a questo discorso di chiudersi, cioè di stabilire come stanno le cose ma lo spostiamo su un’altra cosa. A questo punto, se si sposta e se non è più così, non si riesce più a produrre la nevrosi che è soltanto un effetto del fatto di avere considerato che le cose stanno così, e che se è così allora devo comportarmi cosà. Però questo modo non tiene conto di come funziona di fatto una cosa del genere e perché funziona, semplicemente trasferisce una cosa sull’altra, che per definizione è differente da sé, quindi non può essere neanche quest’altra che si è spostata prima, neanche lei può essere fissata perché si sposterà a sua volta su un’altra ancora. Procedendo lungo questa via si dovrebbe considerare e constatare che le parole funzionano in questo modo, e cioè rinviano l’una all’altra e non c’è nessuna possibilità che una parola sia identica a sé, cioè possa costituire quell’elemento finale che è necessario per esempio perché si produca una nevrosi, e questa parola non può mai essere identica a sé perché c’è la rimozione che la rende differente. Per questo è stato necessario rivisitare tutta la questione della rimozione di Freud: non è più qualche cosa che viene rimosso perché da fastidio ma la rimozione è strutturale alla parola, la rimozione è originaria, è originaria proprio perché non può darsi una parola senza rimozione perché se no sarebbe identica a sé, un significante non funzionerebbe più come nome, quindi se ciascun atto di parola è differente da sé, ciascun atto di parola rinvia a un altro che è differente da sé, rilascia un resto, la lettera, se volete proprio la definizione esatta, questa lettera si aggancia ad altre cose, è di nuovo un significante che funziona come nome e rinvia ancora e così via all’infinito. Questa modalità, questa tecnica impedisce quindi che un elemento si fissi, se praticata naturalmente, perché se invece non è praticata allora il significante non funziona più come nome ma diventa, come dice Verdiglione, il “nome del nome”, e cioè un nome senza rimozione e quindi è l’idea, la fantasia che una cosa sia quella che è, che sarebbe la causa delle nevrosi. Ma qual è la differenza fra tutto ciò e ciò che abbiamo elaborato in questi ultimi vent’anni? La cosa principale è avere inteso che il linguaggio, il modo in cui funziona, che deve concludere con un’affermazione vera per potere proseguire. Il fatto di concludere con un’affermazione vera all’interno di questo gioco può essere inteso come vero in assoluto, fuori dal gioco, in questo caso diventa una verità assoluta, e a questo punto deve essere mantenuta come tale. È questo che produce le nevrosi per esempio, il potere affermare che le cose stanno come dico io e non altrimenti, lì si torna alla questione del potere, perché dovrebbe fare questo? Per avere il potere. Anche ciò che stiamo dicendo non è nient’altro che un gioco, una cosa che nessuno ha mai intesa prima e cioè che qualunque teoria, qualunque discorso, qualunque elaborazione è un gioco, sì possiamo stabilire che un elemento è l’ultimo, che è quello che è, ma lo stabiliamo in un gioco, non perché sia così, perché non può essere così, perché non può esistere se non all’interno di una combinatoria linguistica, perché se fosse fuori di una combinatoria linguistica non avrebbe un significato, cioè non avrebbe un rinvio, non avendo un significato non sarebbe niente. È soltanto perché gli umani sono parlanti che possono produrre paure, fobie, angosce, e questo conduce alla questione della realtà. La psicanalisi, almeno quella più recente, è avvertita del fatto che il testo, quindi il racconto della persona in quanto tale, così come il sogno non esiste, esiste in quanto interpretazione, ma di per sé non esiste, che è una critica abbastanza legittima alla metafisica. Certo, non esiste fuori dalla parola, non esiste di per sé, in un iperuranio, però anche l’ermeneutica incappa in alcuni problemi: non c’è il testo ma solo interpretazione, ma interpretazione di che? Dovrà pure interpretare qualcosa, e qui intervengono gli analitici che dicono che c’è qualcosa da interpretare e in effetti c’è, c’è ma non come presumeva la metafisica, cioè un qualche cosa che c’è fuori, fuori dall’atto di parola, c’è in quanto è all’interno di una combinatoria linguistica, connesso con altri elementi all’interno di una rete vastissima di connessioni. Questa posizione è stata molto seguita fino agli anni 70/80, forse il più noto fra i teorici dell’ermeneutica è stato Derrida per il quale di fatto non c’è più il testo c’è soltanto l’interpretazione di chi lo legge, il quale leggendolo va a modificare il testo, che a quel punto non è più quello di prima, è un altro testo. Da qui il circolo ermeneutico, il testo si produce letteralmente in questo gioco ermeneutico.