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13 gennaio 2021

 

L’attualismo di G. Gentile

 

Prima di iniziare volevo parlarvi di una questione della quale dobbiamo sempre tenere conto, e cioè che tutto ciò che costruiamo, che diciamo, ecc., è costituito da sillogismi formali. I sillogismi formali non dimostrano assolutamente niente, dimostrano soltanto se stessi. In queste pagine Gentile lo precisa: il sillogismo, così come è generalmente inteso, e cioè il sillogismo formale, è qualcosa di circolare, di chiuso in sé, dimostra soltanto se stesso, al di fuori di sé non può fare niente. Quindi, ecco la domanda, che deve accompagnarci sempre: che cosa stiamo facendo esattamente facendo tutte queste considerazioni? Questo è ciò che dovrebbe consentire di tenere sempre conto del concreto. Il sillogismo è ovviamente un astratto, ma questo sillogismo non è altro che un momento del concreto, e cioè dell’atto pensante in cui io mi sto trovando. Questa considerazione che facevo è quella che dovrebbe condurre e mantenere sempre la possibilità di tenere conto di ciò che si sta facendo e, quindi, di trovarsi nel concreto. Cosa significa trovarsi nel concreto? Gentile ce lo ha illustrato in vario modo: tenere conto che l’unica verità di cui si può parlare, l’unica cosa vera, è che stiamo parlando e, naturalmente, pensando. Questa è l’unica verità della quale possiamo avere certezza, tutto il resto sono astrazioni, cioè costruzioni sillogistiche che non significano niente se non, appunto, se stesse. Detto questo, siamo alla Parte terza, Capitolo IV, paragrafo 13. Immaterialità del mondo. Gentile comincia ad affrontare la questione dell’immaterialità, della materia come una sorta di illusione, così com’è pensata generalmente. Come la pensa Gentile può essere una questione praticabile. Qui è la critica profonda d’ogni materialismo: critica che direi non teoretica, ma pratica. Poiché pensare il mondo come materiale, nella sua opposizione estrema allo spirito che lo pensa, ma pensarlo davvero, energicamente, rigorosamente e consapevolmente, è già vederselo svanire innanzi come mondo materiale per risolversi senza residuo non in un mondo pensato, bensì nello stesso atto o processo di pensare. Se uno volesse andare a vedere esattamente che cos’è la materia, a un certo punto che cosa trova? Lui che sta pensando quello che pensa: lì arriva. E lì è arrivato Gentile. L’esperienza immanente della nostra vita quotidiana ci attesta pure a gran voce la verità dell’assoluto formalismo. Per cui non è da dire che il mondo da noi conosciuto e per noi reale presupponga l’atto del pensare come condizione del proprio essere; ma addirittura che tutto il suo essere reale sia in quell’atto del pensare. … Il mondo materiale, dunque, esiste, sì, ma in quanto pensandosi viene smaterializzato, e risoluto tutto nella vita dello spirito. È un po’ quello che si poneva prima: quando penso alla materia e voglio arrivare al fondo della materia, che cosa trovo? Ci dice Gentile: trovo me che sto pensando quelle cose. Capitolo V, Il dialettismo, Paragrafo 1. Legge fondamentale del logo concreto. Non solo l’essere (logo astratto) è pensiero; ma è pensiero che è materia di pensiero (pensiero pensato) in quanto è forma: pensiero trascendentale, o pensiero pensante: atto, logo concreto. L’essere è pensiero; e perciò pensabile; ma è pensabile in quanto Io. Non l’io empiricamente conosciuto, ma quell’Io, per cui si può conoscere qualunque oggetto, compreso l’io come uno degli oggetti, di cui consta l’esperienza. Il pensiero logico, in quanto logo astratto, è, come sappiamo, fondamentalmente: A = A. Orbene, questo pensiero, così pensabile come materia del pensare, dal punto di vista trascendentale, che guarda all’interno processo generativo d’ogni materia del pensare, è Io = Io; o meglio Io = non-Io. Questo è importante, perché, in effetti, A=A rimane un’astrazione. Lui ci sta dicendo che A=A è l’astratto, Io=non-Io è il concreto. L’Io qui va pensato come il parlante. Ci sta dicendo che A=A non vale niente se non c’è qualcuno che lo dice, che lo pensa; è soltanto se lo penso che allora A=A, o qualunque altra cosa. Dire che A=A ha come condizione che ci sia Io=Io, e cioè che il parlante sia effettivamente parlante, e non può non essere parlante se afferma se stesso o qualunque cosa, ecco questo è il concreto. Adesso vedremo perché questo Io=Io è così importante. Il pensiero pertanto, che come logo astratto si ripiega su se medesimo e afferma la propria identità, è quel pensiero che nel logo concreto si aliena da sé e si pone per tal modo innanzi a sé come quell’identità che è logo astratto;… Cioè: l’Io, il parlante, si pone fronte a sé, ciò che ha fronte a sé è l’astratto, perché è ciò che sta pensando, sarebbe quindi il pensato. …poiché l’altro, in cui l’identico originario si aliena opponendo sé a sé, è appunto il logo astratto: non A, ma A = A. Cioè: questo Io si pone come se si guardasse allo specchio e vedesse il suo pensiero, si vede come pensiero pensato, cioè come A=A. Ovviamente, tutto questo ha come condizione che ci sia l’Io, ma l’Io perché sia Io deve essere uguale al non-Io, cioè deve avere un’opposizione. Tempo fa ne parlavamo in un altro modo dicendo del linguaggio, della sua prerogativa, cioè della distanza che il linguaggio instaura nel momento in cui esiste; per cui c’è una distanza tra me e qualche cos’altro, in questo caso tra e me e me. È questa distanza quella cosa che fa sì che le cose possano esistere. Se io, per così dire, mi alieno, se posso vedermi pensante – io penso, mi accorgo che sto pensando – questa è una cosa che soltanto il linguaggio può fare, senza il linguaggio questa operazione è impossibile. Paragrafo 2. Donde l’alterazione del pensiero? Questo alienarsi, o alterarsi che si voglia dire, dell’identico, questo è il concetto assolutamente escluso dalla logica dell’astratto. In questa operazione siamo nel concreto. Siamo nell’astratto se io considero me che penso come astrazione, ma dimentico il me che sta pensando. Il cui logo nella sua circolarità è come inchiodato al proprio essere mediante un processo riflessivo che è ritorno eterno al suo principio; quindi impossibilità di progresso. Questo nel logo astratto. Ora, donde questo identico, che pure in se medesimo è differenziato, perché logicamente mediato pel principio d’identità? Come si perviene a questa mediazione, che si presenta immediatamente quale processo esaurito? Come entra il pensiero del pensante nel circolo chiuso del pensiero che gli spetta di pensare? Il pensiero non è pensiero pensato se non è pensiero pensante. E il circolo come processo esaurito è conclusione di un movimento, che ha il suo punto di partenza e il suo punto di arrivo, differenti ancorché identici. È per questo che poi parlerà di spirale anziché di circolo. Il pensiero pensante o Io non entra nel circolo, perché non lo presuppone: esso lo costituisce, lo crea, creando se stesso. Questo è ciò che differenzia Gentile da Hegel. Hegel aveva posto le basi per tutto questo, ma non era mai arrivato a porlo in modo esplicito, e cioè questo movimento che crea se stesso; che sarebbe poi il concetto di autoctisi in Gentile. Paragrafo 3. La necessità dell’alterazione nel pensiero pensante. la legge fondamentale del concreto ha, come abbiamo accennato, due forme necessarie, e solo nella loro unità è possibile intenderne il valore. Finché, in verità, s’intenda il soggetto o pensiero pensante come Io = Io non pare che la sua legge sia diversa da quella del pensiero pensato: A = A. È un’identità che pongo. Ma la differenza si manifesta quando per intendere questa equazione Io = Io, senza della quale non si può parlare di pensiero pensante, si scopre l’altra equazione: Io = non-Io. Paragrafo 4. Io = Io Che l’Io sia uguale a se stesso, infatti, non è da intendere al modo stesso di A = A. Questa è identità obbiettiva la quale riproduce nella relazione dei termini la immediatezza propria dell’astratto essere, che nella relazione si trova dualizzato e unificato. L’identità dell’Io con se stesso è identità soggettiva: che cioè non è posta immediata, rispetto a un possibile oggetto, ma si genera, si pone. Cioè: genera se stesso nell’atto in cui si pone, ponendosi si genera, ponendosi, cioè, parlando. Questo è propriamente il concetto di autoctisi, cioè, io che dico “io sono io” pongo due Io, ma questo “io sono io” è qualcosa che si genera, che si produce mentre lo dico, mentre lo penso, non c’è prima. Occorre che io lo pensi, che lo dica, perché ci sia, solo allora c’è. Vale a dire, il secondo Io, che si oppone al primo Io, e che ho generato ponendo questo primo Io. Ma, ponendo questo primo Io, è chiaro che non è che posso porlo da solo, perché per poterlo porre occorre che ci sia il secondo Io, che fa sì che il primo esista. Questo era già in Hegel, ciò che aggiunge Gentile è la simultaneità di queste operazioni, simultaneità che a questo punto vale a dire l’atto. Sicché la persona, in quanto tale, e non in quanto ha un nome e certe altre generalità indifferenti, si può dire che non sia mai; ma sia per essere. Perché in questo movimento l’Io è qualcosa che è sempre per essere Io, cioè per trovare il suo significato, il secondo Io. Il problema è che trovando questo secondo Io il primo si modifica, per cui ciò che vengo a trovare, ciò con cui ho a che fare, è un Io che è diventato altro. Rimbaud diceva “Io è un altro”; lui ci è arrivato attraverso la sua poesia, Gentile lo pone invece in termini molto precisi. Rientri ognuno nella propria coscienza, e vi cerchi se stesso, quell’Io che egli è, non certo nell’aspetto esteriore che può in ogni parte mutare, mentre egli resta sempre lui. Cerchi se stesso senza illudersi di potersi riconoscere nel proprio passato, che non è se non quello che egli è stato, e non quello che è: un eroe, magari, per avere compiuto gesta sublimi di sacrificio per un alto ideale, di cui per altro egli non sappia più sentire il valore e a cui perciò non si sentirebbe più, all’occorrenza, di nulla sacrificare. Dove troverà egli se stesso? Se per un momento senta venir meno, per stanchezza e disperazione, il proposito e la fede dell’avvenire, egli non troverà altro che il nulla, quel vuoto, in cui gli crollerà dentro il mondo, cioè tutta la personalità con cui egli lega a sé e mantiene per sé l’universo. Non già che l’uomo nella sua soggettività sia nel futuro piuttosto che nel passato. Nel futuro che non è egli non può essere. Ma appunto questo è il suo essere: il suo non essere quel che sarà: l’attualità di questo non essere. L’attualità, cioè l’essere in atto di questo non essere, perché io sono ciò che sto per essere. Qui ci sarebbe anche la questione di Heidegger del progetto-gettato: ciascuno è un progetto, e in quanto progetto è continuamente gettato. Lui è questo essere gettato continuamente, per cui, come dice Gentile, non è mai ma è un avere da essere. L’Io è questo essere che non è; ma è non essendo: questa realtà che annulla se stessa al paragone di una realtà che non è, e si pensa: una realtà che nel proprio idealizzamento nega se stessa. L’uomo che non neghi se stesso, che sia pienamente soddisfatto di sé, che perciò non lavori, non pensi, non voglia, e nulla faccia assolutamente, cessa di essere uomo: vegeta; anzi, in verità, impietra; anzi, dilegua nel nulla. E tanto più l’uomo è un uomo quanto meno si contenta, e più pensa, e vuole, e lavora: artefice instancabile di se medesimo. Questo è un altro modo di affrontare la volontà di potenza. Come dire che se si arresta la volontà di potenza è il nulla, la persona si annulla, perché è, soltanto in quanto è volontà di potenza, direbbe Nietzsche. Io dunque, è vero, sono Io: ma sono quell’Io che non sono e mi fo. Se dico pertanto Io = Io, questa formula più che un’eguaglianza, esprime una differenza; poiché (se all’equazione vuol darsi un senso) il secondo termine è proprio quello che il primo termine non è. La formula predetta non vuol dire infatti: «Io è Io», ma «Io sono Io», giacché soltanto in prima persona l’Io può affermarsi, e se non è esso da sé ad affermarsi nella sua singolare identità, che è differenza, nessuno e niente, né in terra né in cielo, può affermarlo. Solo io posso affermare “io sono io”, nessun altro può farlo al mio posto. Il suo essere non è pensabile come indipendente dall’affermazione che se ne faccia, come ogni altro essere che si afferma da un soggetto diverso dall’essere stesso: e però la sua affermazione non può essere se non autoaffermazione. Ed ecco che l’essere del mio Io non è se non l’atto con cui io affermo me stesso,… Cioè: io sono quell’atto in cui mi affermo: ecco che cosa sono; in definitiva, un atto di parola. …non dicendo o pensando, ma facendo e realizzando il mio essere: «Io = Io» significa: «Io mi fo Io». Nel momento in cui mi penso mi sto facendo. L’Io perciò è veramente autoctisi. Paragrafo 5. Io = non-Io. Si passa da non-A ad A. Quell’identità di A e non-A che la logica dell’astratto respingeva come la contraddizione, è invece la legge immanente del logo concreto. Qui è Hegel, naturalmente, cioè la contraddizione viene integrata, non viene espunta. La contraddizione anzi che la morte del pensiero, quale appariva nella logica dell’astratto, qui si palesa la vita del pensare. Se io non fossi a un tratto, come sono, A e non-A, io non sarei io; né potrei perciò mai pensare A = A. E io non soltanto sono A come identico a non-A ma so di essere; poiché qui, come s’è detto, essere è affermare;… Io sono la mia affermazione, sono l’atto dell’affermare. …e io non sarei nulla se non intervenisse l’azione del mio pensiero a negare il mio essere naturale, per realizzarmi nella mia idealità. Il mio pensiero che nega il mio essere naturale, lo fa essere quel pensiero, che di fatto è. Che anzi il vero pensare come si vedrà ancor meglio avanti, non è quello che riguarda il pensato come tale, supposto nel suo essere come idealmente anteriore al pensiero che lo pensa, anzi questo, in cui l’essere coincide con l’atto stesso del pensare. E coincide assolutamente. L’esse non è soltanto concipi, ma lo stesso concipere. Non è l’avere percepito, ma è l’atto del percepire. E qui sta tutta la grandezza di Gentile, e cioè l’avere inteso che io sono nell’atto in cui mi dico o dico semplicemente; io sono questo atto, più che essere nell’atto, e non posso essere nient’altro che questo. Questo è il concreto. È per questo che vi dicevo all’inizio che questa serie infinita di sillogismi formali di per sé, in effetti, non porta a niente, perché non significano niente se non se stessi. L’unica cosa che significa nel sillogismo sono io che penso il sillogismo: questa è l’unica realtà di cui ci sta parlando Gentile. Questo niente che è l’essere (essere naturale, puro essere), il pensiero pensante lo nega con un giudizio che è un’azione: con quella sua attività essenzialmente teoretica che è eo ipso essenzialmente pratica. Qui c’è anche l’aspetto pragmatico del pensiero di Gentile, perché l’unica cosa che c’è effettivamente è l’atto: è dall’atto che io posso muovere qualunque cosa, perché sono in atto, cioè, perché c’è l’atto di parola. Lo nega immedesimandolo col secondo termine, che è l’Io come concetto: l’Io ideale, consapevole di sé, reale come coscienza o pensiero: trasformandolo da essere che è niente (non-essere) in essere che è tutto (tutto il pensabile, il pensiero nella sua infinità). Il secondo termine, per sé preso, astratto dalla sintesi Io = Io, ha natura di logo astratto. Ma il suo essere è lì, nella sintesi, in questo suo sorgere dal niente, in questo miracolo dell’autocreazione a cui ognuno di noi assiste eternamente dentro di sé: in questa unità di non-essere ed essere, che, assurda in ogni pensiero che si pensi come pensiero pensato, definito, sistemato, e insomma determinato a norma della logica dell’astratto, è la stessa legge intrinseca del pensiero che si pensi come pensiero pensante e creatore del concetto e di ogni sistema del pensiero. Vedete come a questo punto si delinea bene la differenza che pone Gentile tra pensiero pensante e pensiero pensato. È il pensiero pensante che genera ogni cosa, ma per generare ha bisogno del pensiero pensato, perché se genera qualche cosa lo pensa, lo determina, e determinandolo costruisce un pensiero pensato. Il pensiero pensante non è che l’atto del pensare, l’atto del dire. La formula, dunque, «Io = Io» equivale all’equazione dinamica tra l’essere che non è pensiero e il pensiero che non è essere: equazione dinamica in cui consiste l’atto autocreatore del pensare. Noi sappiamo che Io=Io comporta che Io=non-Io, perché il secondo Io non è il primo, sennò sarebbe bastato il primo. L’io cioè si genera alienandosi dal proprio essere naturale, che è il suo niente:… L’Io, il primo Io, come essere naturale, come essere parmenideo, è niente, perché non è pensabile e in quanto tale è niente. …e generandosi, pone quel diverso, quell’oggetto, che egli pensa: materia identica alla sua forma originaria nel suo manifestarsi. manifestarsi. Il non-Io, ciò che l’Io, sempre che pensi, trova innanzi a se stesso, non è altro che il pensiero in cui esso si realizza: cioè appunto la realtà che egli crea pensando. Da lì la creazione di quella cosa che chiamiamo realtà. Non è altro che il non-Io, ciò che si contrappone necessariamente all’Io, perché se non si contrapponesse non ci sarebbe nemmeno l’Io. Questa creazione del non-Io da parte dell’Io, potremmo dire tout court, la creazione della realtà. Paragrafo 6. Divenire. Il divenire non è intelligibile come legge della realtà se non quando la realtà si sia immedesimata col pensiero. E non col pensiero come logo astratto, che si misurerà sempre col principio d’identità, ma col pensiero pensante, concreto e produttivo del logo astratto; ossia col pensiero che non fu mai sospettato da tutta la vecchia filosofia, la quale perciò s’attenne alla logica dello astratto. Non ha torto; in effetti, tutta la filosofia, potremmo dire tutto il pensiero, ha da sempre espunto il logo concreto. In qualche modo Hegel lo pone, ma non nell’atto, non arriva a porlo in atto, non arriva a dire che ciascuna cosa è sempre naturalmente quell’atto nel quale quella cosa si pensa, si dice, si fa. Paragrafo 7. Svolgimento. Il concetto di divenire, appunto perché proprio del logo concreto e non dell’astratto, ripugna al concetto che Hegel ne deduceva del divenuto o esistente. Adesso lui calca un po’ la critica a Hegel perché chiaramente deve appoggiare la sua posizione. Esiste, c’è il mondo, e tutto ciò che noi vi distinguiamo dentro; ma ciò che si pensi come pensiero pensante, vita dello spirito, religione, arte, scienza, moralità, filosofia, tutto diviene. Anche ciò che astrattamente si colloca nel passato come «fatto spirituale», o processo esaurito e quindi concettualmente determinabile secondo la legge del logo astratto, in concreto non si pensa se non come attuale divenire del soggetto che lo pensi. Il concreto è sempre solo questo: accorgermi che sono Io che sto pensando questa cosa, qualunque cosa sia. Che è un altro modo per dire ciò che diceva già in passato, e cioè che qualunque cosa pensi, comunque sto pensando il pensiero: è questo che sto facendo. E però o è provvisoria o per ogni verso fallace l’opposizione che ogni soggetto fa a sé di altri soggetti come tali. Niente di spirituale esiste, come esiste, e giustamente si pensa che esista, il corpo, la natura, e ogni determinazione dell’oggetto in cui si termina l’attività pensante del soggetto. Non c’è verso: il fatto storico (letterario, politico, morale, scientifico, scientifico, ecc.) è per noi un fatto storico in quanto, come si vedrà a suo luogo, non è fatto già compiuto, ma fatto che si rievoca e fa attualmente, risorto com’è, o più esattamente, sorto ora ex novo nella nostra presente vita spirituale, con quei caratteri determinati che esso ha attualmente. Per questo diceva prima che io non posso sapermi, perché nel momento in cui mi penso già sono un’altra cosa. Tutto che ha valore spirituale, non può conoscersi nella sua realtà se non in questa nostra vita, dove è quello che s’accende e si mantiene in virtù del nostro attuale pensare. E nulla è mai fatto, nulla già pronto, come tavola imbandita a cui uno si possa senz’altro sedere. Né al soggetto stesso, nella sua interna individualità, è dato condurre mai a compimento l’opera propria, sì che, attinta la mèta, egli possa dire davvero come il giusto e timorato Simeone: Nunc dimitte servum tuum, Domine (Adesso puoi lasciare andare il tuo servo). L’opera stessa ritenuta, comunque, perfetta, non resta lì, dotata di vita propria, indipendente dal pensiero. Si perpetua nella storia, mantenuta, sorretta, creata e ricreata in perpetuo dal lavoro incessante e infaticabile dello spirito. Niente c’è nel mondo dello spirito, che è quello del logo concreto: tutto diviene. E in questa immanenza del dialettismo, proprio del pensare attuale, è il segreto dello svolgimento del logo, sempre chiuso e rigidamente costituito come logo astratto, ed eternamente aperto, irrequieto e in via sempre di costituirsi come logo concreto. È chiaro che c’è un rinvio incessante tra logo concreto e logo astratto: il logo astratto non può stare senza il logo concreto, e viceversa. Giacché il non-Io è bensì logo astratto, essere identico a se stesso, concetto definito, sistema organico; ma il non-Io partecipa alla sintesi dell’Io = Io, da cui trae origine, e nella cui vita quindi concorre. Come dire che al tempo stesso è identico e differente, e deve essere queste due cose simultaneamente. Il concetto infatti dentro al processo dell’Io è bensì negazione del movimento di questo processo, e s’irrigidisce nella definizione dell’essenza. L’Io diviene in quanto si pone come non-Io; e il non-Io, in cui esso si pone per valere come non-Io, dev’essere un concetto. Ma quando s’è posto come non-Io, l’Io non s’è posto. Io pongo l’Io come non-Io, certo, e non posso non porlo che come concetto; ma, una volta che l’ho posto come concetto, questo non-Io non è l’Io, è un’altra cosa. Non è divenuto. Non esiste. Se esistesse, e fosse veramente posto in quel non-Io, egli non sarebbe più Io: si sarebbe fissato, e nella monomania sarebbe decaduto infatti al di sotto della libera attività spirituale. L’Io non esaurisce in effetti il suo processo, e pensa pensando all’infinito se stesso, e all’infinito perciò costruendo innanzi a sé il proprio oggetto. È l’autoctisi, di cui parla sempre. Paragrafo 8. Unità e molteplicità. Soltanto nell’unità ed eternità del pensiero pensante è dato intendere lo svolgimento non come catena di anelli che solo meccanicamente si possano saldare insieme, ma come l’autogenesi del pensiero, solo reale pensabile, nel suo immanente divenire. Questi anelli non sono lì beati, saldati insieme; no, ciascun anello produce il successivo, lo crea. Capitolo VI, L’autosintesi, Paragrafo 1. Proprietà del dialettismo La legge fondamentale del logo concreto, a differenza di quella del logo astratto, non è una norma idealmente distinta dal pensiero che governa, ma lo stesso atto del pensiero concreto nella sua trascendentale idealità. Dovrebbe essere chiaro a questo punto: la legge fondamentale del pensiero pensante è che questo pensiero pensante è l’atto che ponendosi si autogenera. Si autogenera in quanto genera il non-Io, che a sua volta genera l’Io. Così funziona secondo Gentile. Il pensiero del logo astratto, in fondo, è tutto così: si giustifica circolarmente, in conformità della natura propria della sua legge: ma questa giustificazione importa che esso sia innanzi al pensiero che lo pensa come un tutto predeterminato,… È il modo in cui ci si pone di fronte al sillogismo, ben fatto, ben compiuto, ecc. …analogamente a qualunque fatto dell’esperienza,… Come se diventasse un fatto. Esattamente come è accaduto ad Anselmo d’Aosta. Ricordate la prova dell’esistenza di Dio? Anselmo d’Aosta dimostra l’esistenza di Dio, ma non si accorge che questa dimostrazione, cioè questa sequenza di sillogismi è una sequenza di sillogismi, che non possono dimostrare nient’altro che se stessi. Invece, la correttezza della dimostrazione fa sì che il pensiero la pensi come un fatto, un fatto di natura. Non è soltanto che il sillogismo abbia concluso in modo vero, ma se ha concluso in modo vero, allora Dio esiste davvero. …che, come tale, non ha mai un perché con cui astringa la mente all’assenso; ma s’impone con la forza appunto del fatto, che è quello che è. Cioè, il sillogismo come un fatto, come se rappresentasse un fatto, perché è compiuto, perché è chiuso in se stesso. Perché due e due fan quattro? Perché fan quattro. Le verità di ragione, concepita la ragione in funzione del logo astratto, sono verità di fatto. Le cose che io concludo con i miei sillogismi diventano fatti, cose. Cioè, non sono propriamente verità. Sono fatti del pensiero spogliati del valore, che può loro conferire soltanto quel rapporto alla norma, da cui nella loro astrattezza sembrano capaci di prescindere, e che invece, dato il nesso da noi studiato tra logo astratto e concreto, è ad essi immanente. Questa verità, che il sillogismo va cercando, sì, è immanente, ma nel fatto che sto pensando il sillogismo, non nella conclusione del sillogismo, nel teorema. Ma l’immanenza della legge al pensiero astratto non è giustificabile nel platonismo e nella logica aristotelica che ne deriva, poiché in quella intuizione del mondo è sfuggita affatto la presenza del logo concreto in ogni pensiero. La filosofia non è mai riuscita a pensare il logo concreto, ha sempre e soltanto pensato il logo astratto. Ed è invece conseguenza necessaria della dipendenza del logo astratto dal concreto e della proprietà della legge fondamentale di questo: che non è più norma opposta al fatto per la semplice ragione che qui non è più da parlare di fatto bensì dell’atto del pensiero. È qui lo spostamento fondamentale che fa Gentile: spostamento dal fatto all’atto, dall’idea che il fatto sia costituito dal sillogismo, come fatto compiuto, all’atto. Il sillogismo è un atto di pensiero, nient’altro che questo. Qui non è più il concetto (giudizio o sillogismo) prodotto del pensiero, o verità in cui il pensiero si affisi; ma è lo stesso pensiero artefice in atto del suo concetto. E qui la legge del pensiero è lo stesso atto del pensiero: Io = non-Io. Paragrafo 2. L’atto norma sui. Primieramente giova avvertire che l’atto non è fatto:… Possiamo qui intendere “fatto” in tutti e due i sensi, cioè sia come il participio passato di fare, sia come sostantivo: non è fatto, nel senso di compiuto, ma al tempo stesso non è nemmeno la cosa in quanto fatto. …uno di quei fatti, di cui lo spirito sente il bisogno di indagare il significato. Tutti i fatti presuppongono questo atto, che è l’Io, senza il quale non si costituiscono come oggetti del pensiero e d’indagine. Se l’atto stesso costitutivo dell’Io viene abbassato a fatto, ciò è possibile pel noto sdoppiamento di Io trascendentale e Io empirico il primo dei quali, producendo il secondo, questo, opposto quindi a sé come il prodotto si oppone al suo principio, considera come fatto: ma come fatto che ha la sua condizione efficiente in esso, che rimane, e rimarrà sempre, atto. La distinzione che è stata fatta tra Io trascendentale e Io empirico ha mantenute separate le due cose. L’Io empirico e l’Io trascendentale a questo punto sono lo stesso, non c’è possibilità di distinguerli perché sono entrambi nell’atto. Ma l’atto, nella sua assoluta unità, non si può trascendere. Io posso passare da un pensiero all’altro; non posso uscire da me. E da me stesso posso pur pensare di uscire come che sia se per questo me intendo un contenuto del mio pensiero od oggetto dell’esperienza:… Dove mi pongo come oggetto astratto. …laddove l’ipotesi diviene assurda se per me penso alla condizione veramente ultima e incondizionata d’ogni mio pensiero ed esperienza. Se mi penso astrattamente come una cosa allora posso immaginare di potere uscire, ma immaginando questo mi trovo già a pensare, sono di nuovo nel pensiero, sono di nuovo quel me che pensa e dal quale volevo uscire. Come dire: per pensare di potere uscire dall’Io devo necessariamente porre l’Io. Né c’è uomo infatti che pensi, il quale non pensi con tutta l’anima: tutto nel suo pensiero. Age quod agis (Fai quello che fai al meglio, agisci ciò che fai o, più propriamente ancora, sii ciò che fai)Sicché il singolo pensiero del logo astratto nella sua connessione intrinseca col logo concreto non è più un pensiero particolare, e però trascendibile, ma il pensiero, l’atto del pensiero assoluto ed infinito: tutto il pensiero pensabile, e quindi l’unico pensiero possibile. Come dire che l’atto di parola non è a questo punto pensabile come un atto a fianco di tutti gli altri atti di parola, ma l’atto di parola è il tutto, è il concreto, è ciò in cui accade il linguaggio, è l’accadere del linguaggio: l’atto di parola è l’incessante apparire del linguaggio. Ma sappiamo che perché ci sia atto di parola occorre che il linguaggio sia tutto, non può essercene solo una parte. Non quello che si sta pensando, e che potrebbe non pensarsi; ma quello che si pensa e non si può non pensare. Il pensiero che è vero non perché conforme a una legge, ma perché è la stessa verità, la stessa legge del vero. Il fatto che sto pensando non posso negarlo in nessun modo. Provate a pensare di negare che state pensando. Come lo fate? Pensando. Quindi, state affermando ciò che è stato negato. Ma potrebbe dire qualcuno: non era stato detto che il principio di non contraddizione non ci interessava più? Quindi, potrebbe valere anche questo: penso contraddicendomi. È esattamente quello che accade. Ma questo lo diceva già Hegel: pensando io sto già pensando il non-Io; è pensando il non-Io che posso pensare l’Io. Vedete, quindi, la contraddizione. Per questo Gentile diceva nelle pagine precedenti: la contraddizione è la vita del linguaggio, questa distanza che instaura per cui Io=non-Io. Questo non-Io che si oppone all’Io, che lo contraddice, è la condizione dell’Io, il quale ha bisogno del non-Io per essere. Paragrafo 3. Sintesi e autosintesi. Il solo pensiero che sia vero assolutamente è quello che non risponde a una norma di verità, ma è la norma della verità. È in fondo il problema del sillogismo, il quale si adegua a una legge, a delle regole, ma queste da dove arrivano, chi le dimostrerà? Come diceva Wittgenstein: chi dimostrerà la dimostrazione? A partire da che cosa? Da un’altra dimostrazione? Non è vero il pensiero che sia conforme ad A = A, ma quello che è Io = non-Io. A=A è soltanto il prodotto di un sillogismo, è un’identità, un pensiero astratto che necessita di un Io che lo pensi, di un atto che lo produca, e l’atto che lo produce è appunto Io=non-Io. Io=non-Io è l’atto. Ogni pensiero che abbia il suggello logico di A = A, può averlo solo in quanto, nella vita di cui egli vive pur come A = A, esso è Io = non-Io. … Ma tra la sintesi dei termini di un concetto (A = A) e la sintesi dei termini in cui si spiega e si concentra l’atto del logo concreto (Io = non-Io) c’è una radicale differenza, poiché l’una è essenzialmente il pensiero come fatto, l’altra il pensiero come atto. Questa è la differenza fondamentale tra il pensiero pensato e il pensiero pensante: il pensiero pensato, o astratto, si pone come il fatto. Infatti, dicevamo che il sillogismo, una volta che ha raggiunto la sua conclusione, diventa il fatto – è così! – chiuso in sé, circolarmente. Paragrafo 4. Il dialettismo dell’auto sintesi. …la sintesi di essere e non-essere, nella logica hegeliana, è sintesi a priori, ma non è autosintesi: perché così l’essere, come il non-essere e lo stesso divenire sono concetti, non intelligibili perciò se non per la logica dell’astratto, dove c’è bensì la sintesi: anzi, lo abbiamo veduto, tutto è sintesi; ma è sintesi contemplata, statica, esistente, al cui nascere non si assiste perché non vi si partecipa. Questa è l’unica critica che effettivamente Gentile può muovere a Hegel, che non arriva a porre la sintesi come l’atto, ma, come dice Gentile, la pone come qualcosa di contemplabile. Per Gentile l’atto non è mai contemplabile, perché anche il contemplare è già un altro atto, per cui quell’atto non lo contemplo più. È l’atto il Primo. E questo atto è Io, autocoscienza. Ma Io, che ha questa coscienza di sé, in quanto distingue sé da sé: analizzando e sintetizzando in uno il proprio essere, che è il suo proprio essere e l’opposto di questo suo proprio essere.