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12 ottobre 2022

 

La filosofia dell’espressione di G. Colli.

 

La lettura di questo testo di Colli ci offre alcuni spunti, ma non quelli che pensate voi. Colli è stato noto per avere tradotto, insieme con Montinari, l’opera di Nietzsche. Ha voluto scrivere questo testo, che si chiama Filosofia dell’espressione. L’interesse che ha questa lettura consiste nel fatto che, leggendo, si assiste a un tentativo di cogliere delle questioni muovendo dalla supposizione che queste questioni siano fuori del linguaggio. Colli parte dall’assunto che qualunque cosa è una rappresentazione. In effetti, non ha torto, ma la rappresentazione, la definisce a pag. 6 come un “far riapparire di fronte”, una sorta di “rievocazione”, e giunge a considerare che la rappresentazione, in effetti, è una relazione. Sembra preciso e, in effetti, lo dice qua, a pag. 9: Dal punto di vista categoriale si può assegnare un’essenza alla rappresentazione, che sarà la relazione. Quindi, la rappresentazione è una relazione. Attribuisce a questa relazione una particolarità, e cioè in questa relazione c’è un aspetto che lui chiama “espressione” e che non è niente altro che il rinvio: l’espressione è il rinvio da una cosa a un’altra. Ora, ciò che lui considera è che la rappresentazione è qualche cosa di cui non si ha percezione immediata; infatti, non si ha percezione della rappresentazione, si ha invece percezione dell’espressione, cioè del rinvio. Per usare i termini di Severino, la relazione sarebbe il concreto e l’espressione l’astratto. E fin qui non c’è nulla di che. Considera anche che la realtà, così come se ne parla comunemente, è illusoria, perché ogni cosa è una rappresentazione, e questa rappresentazione è sempre una rappresentazione di un’altra rappresentazione. Ma qui incominciano i problemi. Perché la rappresentazione, dice Colli, o, più propriamente, l’espressione, che non è altro che la connessione che c’è nella relazione – la relazione è una connessione – e, infatti, a un certo punto si confondono le due cose, la relazione e l’espressione. A pag. 12. Tale realtà la chiamiamo illusoria, perché siamo avvezzi a intendere per realtà vera qualcosa per sé, indipendente da noi e quindi anche dalla nostra conoscenza. Ma ciò che ha diritto di chiamarsi realtà è appunto solo questa realtà illusoria. Poi, fa un accenno a un mondo nascosto. Da dove gli arriva questa idea del mondo nascosto? Da dove arriva la relazione? Lui la pone come un dato di fatto, quasi come un’ipostasi, ma non sa dire esattamente in che cosa questa relazione consista, perché, secondo lui, la relazione o l’espressione – abbiamo visto che si può sostituire l’una con l’altra – è un qualcosa che rimane nascosto. A pag. 13. Ogni volta che si analizza una rappresentazione si ritrova un oggetto, sia pure nell’ambito di una relazione, cioè secondo una prospettiva, come una proiezione determinata. Ma vano è cercare il punto da sui si apre questa visuale: nel momento in cui lo si scopre esso diventa oggetto, assorbendo in sé il vecchio oggetto, e ancora una volta sfugge l’origine della prospettiva. Che cos’è questa cosa che sfugge sempre, che costituisce il punto da cui si avvia la relazione, che è, addirittura, la condizione della relazione? A pag. 21. La rappresentazione è un dato, l’espressione è un’ipotesi… Cioè, la rappresentazione è un dato di fatto, c’è. A pag. 20. Ciò che rimanda a qualcos’altro, senza essere un accidente o un termine relativo, è tradizione che alluda a questo come alla sua sostanza. Se una cosa rinvia a un’altra, quell’altra dovrebbe essere la sua sostanza. La significazione, la manifestazione traggono il loro nome da qualcosa che sta sotto. Ma questo star sotto, se viene introdotto nel contesto discorsivo, non sta più sotto. Ciò che sta veramente sotto non si può dire sostanza, poiché a esso non spetta nessun nome, poiché appunto è nascosto e può soltanto venir espresso. “Sostanza” è invece anch’esso un termine discorsivo: in quanto una rappresentazione si dice espressione di qualcosa, in tanto essa può considerarsi come sostanza. Colli si trova costretto a immaginare che la condizione della relazione sia, come lui lo definisce, l’immediato. A pag. 21. La rappresentazione è un dato, l’espressione è un’ipotesi, un’interpretazione che viene giustificata dal meccanismo primigenio della memoria; il prodotto di questa viene condizionato dalla persistenza, dalla comunanza con un’immediatezza extrarappresentativa di qualcosa che “era” prima ed è ancora dopo, sia pure in un’altra forma. Tale è la testimonianza della memoria, che quindi deduce, giustifica l’assumere l’espressione come principio interpretativo universale. Qui, dunque, si introduce qualcosa che ha a che fare con l’extrarappresentazione, qualcosa che è fuori dalla rappresentazione. Ripetiamolo: per espressione si intende qui una rappresentazione, cui venga sottratta la natura prospettica di un oggetto secondo un soggetto, e che sia quindi considerata come qualcosa di semplice… /…/ Si è detto prima che l’espressione accenna a un ignoto, ma questo ignoto a sua volta può svelarsi come espressione di un ignoto ulteriore. Che cosa sarebbe qui l’ignoto? È l’immediato. Questo concetto di immediato in Colli costituisce il punto di partenza, perché è da questo ignoto che si avvia la prima espressione, e quindi si avvia la rappresentazione, cioè, parte tutto il meccanismo, ma è da questo ignoto, da questa cosa nascosta, immediata. Ciò di cui non si accorge è che se si muove da qualche cosa che si suppone immediato, allora questa cosa da cui si muove non c’è, perché se non è mediata da qualche cosa, se non è in connessione con qualche cos’altro, è nulla. Non intende la questione del linguaggio, e cioè il fatto che la relazione è in atto continuamente, in ciascun atto c’è relazione, non è che sorge da qualche cosa di ignoto, cioè di immediato. L’immediato sarebbe qui qualche cosa che è addirittura pre-linguistico, e infatti lo dirà a un certo punto. Non coglie neanche la questione posta da Hegel. L’immediato potrebbe accostarsi all’in sé, solo che per Hegel questo immediato, questo in sé, è tale per via del ritorno del per sé sull’in sé; quindi, l’in-sé non è immediato, non sarebbe niente se fosse immediato, cioè non mediato, ma l’in- sé è sempre mediato dal per sé, che torna sull’in-sé. Quindi, si trova nella condizione di dovere ipostatizzare questo immediato come ciò da cui muove la rappresentazione. Perché, come dice lui, parte da lì la rappresentazione? Per il tentativo di dare un significato all’immediato, cioè, io colgo l’immediato, questo immediato è l’ignoto, e cerco di dare un significato all’ignoto. Solo che dare un significato all’ignoto significa cominciare ad avviare una serie di rappresentazioni, perché non posso cogliere questo ignoto, è nascosto.

Intervento: Ha a che fare con la cosa in sé?

In un certo senso, sì, anche se per altri versi è differente. Ma è comunque qualcosa che è pensato e detto anche da lui come extra-linguistico, cioè il linguaggio viene dopo. È qui che la questione diventa insostenibile: ci sarebbe questo immediato che, essendo la condizione della relazione, diventa la condizione del linguaggio, cioè ci sarebbe qualcosa che è condizione del linguaggio, quindi, qualcosa fuori dal linguaggio. Il problema, naturalmente, è che se pongo questo qualcosa fuori dal linguaggio, da lì non può fare assolutamente niente, perché è irrelato o immediato, che è la stessa cosa; quindi, non possiamo porlo in nessun modo come l’avvio di qualche cosa, visto che non esiste se è effettivamente l’immediato. Però, non avendo la possibilità di intendere la relazione in modo molto semplice, cioè come la relazione tra il dire e il detto, allora deve trovare un’origine della relazione; ma la relazione non ha un’origine, è già in atto ciascuna volta, non origina da qualcosa che non è relazione. Come pensa Colli, se originasse da qualcosa che non è relazione, questo qualche cosa sarebbe fuori dalla relazione, cioè fuori dal linguaggio. A pag. 24. Parla di una serie di espressioni. Tale serie determinata esprime nella sua totalità l’immediatezza da cui essa prende origine… Qui lo dice chiaramente, cioè, prende origine dall’immediato. Ma non può prendere origine dall’immediato, in nessun modo. Posta così sarebbe la causa della relazione, cioè, ci sarebbe una causa del linguaggio e, quindi, non è linguaggio; e se non è linguaggio non ne so niente, è nulla o, come direbbe Parmenide, non-essere, non è semplicemente, è il nihil absolutum. Ma perché Colli tira fuori questa storia? Perché non ha inteso la questione del linguaggio e, quindi, immagina anche lui, come tutti quanti, che ci sia qualcosa fuori dal linguaggio che in qualche modo o ne sia la condizione o lo garantisca a seconda dei casi, a seconda delle fantasie, però, c’è sempre qualche cosa che è fuori del linguaggio: l’indicibile, l’irrappresentabile. Adesso, a pag. 26, c’è un quasi richiamo a Hegel. Il nesso delle espressioni, e parallelamente delle rappresentazioni, è continuo, omogeneo, senza salti qualitativi: la sola scossa è data da un invertirsi della direzione da un riflusso. È come se l’espressione nel tendere che è proprio della sua natura,… È chiaro che deve ricorrere a un certo punto alla natura. …dopo di essersi allontanata dall’immediatezza cercasse retrocedendo di recuperarla. C’è l’immediatezza, l’ignoto, l’irrappresentabile, l’espressione cerca di avere il dominio su questa cosa ignota, e che cosa fa? C’è questo riflusso, l’espressione, una volta detta, dice lui che è come se cercasse di ritornare sull’immediato per controllarlo, per gestirlo, per conoscerlo. A pag. 29. Esprimere in generale vuol dire anzi proprio questo: manifestare che cos’era l’immediatezza attraverso una serie di rappresentazioni che si sgranano per un inarrestabile capriccio, un arbitrio che impone, un gioco che violenta. Esprimere in generale vuol dire anzi proprio questo: manifestare che cos’era l’immediatezza… Però, non lo sapremo mai che cos’era l’immediatezza, perché appunto è l’ignoto, il nascosto. La questione è che nel linguaggio non c’è niente di nascosto, qualunque cosa si dice. Ci verrebbe da richiamare quell’annotazione che fece Heidegger parlando con Fink, della cattiva traduzione fatta da Diels al famoso frammento 3 di Eraclito: ἒν πάντα εἰναι. Diels lo traduce “tutto è uno”. No, dice Heidegger, πάντα non è “tutto”, πάντα è plurale, quindi, “tutte le cose sono uno”. Sono tutte le cose, il problema sta in ciascuna cosa, non lo posso isolare né separare; mentre se dico che “tutto è uno” identifico il tutto, lo metto lì e siamo a posto. A pag. 31 si cimenta sulla questione del ricordo. Nella rappresentazione concreta e organica si verifica un accumulo di ricordi, di serie mnemoniche, la cui continuazione espressiva nel senso di un incremento in estensione viene preclusa dalla convergenza:… Qui è costretto a parlare di convergenza per cercare di spiegare, per esempio, l’esistenza di qualche cosa, perché queste espressioni a un certo punto, se sono espressioni che rinviano l’una all’altra, non spiegano niente. E, allora, a un certo punto è costretto a dire che queste espressioni convergono verso un termine, usando questo modo di dire, queste cose che convergono, divergono, come se fosse costretto alla banalità. In effetti, questo scritto è uno scritto teorico, non è teoretico: Colli vorrebbe dirci come stanno le cose, ma non si domanda niente, non c’è nessun domandare, non c’è niente che ci interroghi, vuole dire come stanno le cose. E lo dice anche in modo farraginoso, inutilmente complicato. A pag. 32. Nella sfera dell’espressione tocca così al linguaggio un posto collaterale: il carattere di insufficienza, di manchevolezza che appartiene all’essenza dell’espressione, non appagandosi nel suscitare sempre nuove apparenze, fa intervenire in occasione di particolari anelli della catena espressiva, come un doppione sussidiario, appunto la parola. È dall’insufficienza dell’espressione, determinata dal fatto che l’espressione non riesce a cogliere, a controllare, a dominare l’immediato, che sorge la parola. Quindi, secondo Colli, la parola è qualche cosa che viene quasi a supplire una mancanza, una deficienza, una incapacità, una impossibilità. Ciò che si contrappone esaustivamente all’espressione è soltanto l’immediatezza… Cioè, l’espressione ha come suo opposto l’immediatezza, perché l’espressione viene dall’immediatezza, l’espressione è il tentativo di dire questo ignoto, questo sconosciuto. D’altra parte, se è immediato, siamo assolutamente certi che è sconosciuto. …ma il significato meno di ogni altra cosa sarà immediatezza. Ne consegue che il significato rientra nel campo dell’espressione, e di regola esso sarà proprio l’espressione che viene espressa dall’ “espressione”. L’espressione dice il significato, non può dire l’immediato. Si inventa questa cosa dell’immediatezza, con la quale cosa si trova poi nella mala parata, perché in effetti non dice mai perché c’è questa immediatezza, da dove arriva, chi ce l’ha messa. C’è l’immediatezza, perché? Questo ignoto, perché è ignoto? Perché l’espressione non può coglierlo. L’immediatezza che cosa ci dice? Perché è lì? Che posto ha, che cosa dice, che cosa fa? Una immediatezza che accade così, come la relazione è un dato. Un dato? La relazione non è un dato, la relazione non è altro che il λέγειν τί di Platone, cioè, il dire qualcosa. È per questo che dicevo che è un testo teorico e non teoretico, perché lui dice come stanno le cose. Secondo lui, c’è l’immediatezza: da dove arrivi, perché ci sia, non si sa, non si sa neppure perché sia ignota. A pag. 35. La conoscenza è soltanto memoria, mai vera immediatezza. Le sensazioni, addirittura le impressioni sensoriali, e in genere tutto quello che i filosofi hanno chiamato conoscenza immediata, non sono altro che ricordi. E il tessuto intero della coscienza – ossia il conoscere effettivo di un soggetto umano – quello che sentiamo, rappresentiamo, vogliamo, operiamo, la nostra anima o una stella, è una semplice concatenazione di ricordi che si collegano a costruire il mondo della rappresentazione. Lui dice che il mondo è una rappresentazione. Lo aveva già detto Schopenhauer, tra l’altro, e lo stesso Nietzsche, quando dice che non ci sono fatti ma solo interpretazioni. A pag. 36. Un uomo ricorda, al di fuori della sfera sensoriale, un momento di immediatezza, e accenna a questa esperienza interiore: “ho sentito un ostacolo”. La designazione è qui simbolica, poiché “ostacolo” implica determinazioni spaziali e temporali che ineriscono alla rappresentazione, mentre il contenuto dell’esperienza è extrarappresentativo. Il contenuto dell’esperienza è fuori dalla rappresentazione, quindi, fuori dalla relazione, quindi, fuori dal linguaggio; come dire: io ho esperienza fuori dal linguaggio. E, allora, verrebbe da chiedere: con che cosa io esperisco alcunché? Quell’uomo tuttavia sa di aver vissuto in un certo modo, anche se, quando viveva questo, egli non sapeva di viverlo. Sa di avere vissuto, ma nel momento non sapeva di viverlo. Ma cosa vuole dire che non sapeva di viverlo? Non vuole dire niente, perché non se l’è chiesto; se lo avesse chiesto lo avrebbe saputo. Colli ha la necessità di affermare l’esistenza di qualche cosa di ignoto, che deve esistere perché tutto il suo discorso è retto da questo immediato, che è la base dell’espressione, la quale espressione, come abbiamo visto, non è altro che il tentativo di fermare, di controllare l’ignoto, e che è un tentativo fallito, naturalmente: questo ignoto rimane sempre ignoto. Se c’è un sapere, c’è chi sa e c’è che cosa costui sa: ma proprio questo nell’origine dei ricordi primitivi non si può stabilire. I ricordi primitivi sarebbero quei ricordi connessi con l’immediato. Ma se mi ricordo dell’immediato, non è più immediato, è mediato dal ricordo. Allora, se soltanto di quel che sappiamo noi possiamo dire che è qualcosa, si dovrà concludere che quel vivere in un certo modo in sé non è nulla ed esiste solo nel ricordo successivo? La conclusione è corretta,… Conferma che esiste solo nel ricordo successivo. Sì, anche, certo. …rimane tuttavia inesplorato qualcosa che pure fa parte della vita, ma non è rintracciabile nel tessuto rappresentativo e ne mette a repentaglio la continuità, ovunque lo si voglia oggettivare e fissare in conoscenza. /…/ il ricordo avverte che vi fu alcunché di diverso dall’attuale rappresentazione:… Come fa ad avvertirlo? Con che cosa? Come lo so? Come lo so che ciò che mi ricordo è in difetto rispetto a ciò che è stato? Qui si entra in una sorta di circolo vizioso, perché io di ciò che è stato ho soltanto il ricordo attuale; dire che questo ricordo attuale non è quello che accadde allora o non rappresenta quello che accadde allora, non significa niente, perché come posso affermarlo con certezza? Non posso affermare con certezza neanche il contrario. Però, se pensiamo teoreticamente, questa affermazione non significa nulla. Non posso stabilire che il mio ricordo è in difetto rispetto a ciò che è accaduto; posso pensarlo, certo, ma non ne avrò mai la certezza, né in un senso né nell’altro, né che sia la stessa cosa né che non lo sia. …proprio in questo consiste l’essenza della memoria. Cioè, nell’accorgersi di questa differenza. Essa è la conservazione attenuata di qualcosa. Come attenuata? È dall’uso di questi termini, da questa approssimazione, che si evince immediatamente che non si tratta di un testo teoretico ma di un testo teorico, dove dice come stanno le cose e, naturalmente, per dire come stanno le cose, ogni tanto deve filar via veloce, perché non si pone domande, non si pone questioni intorno a ciò che sta affermando. A pag. 38. La celebrata esperienza dell’attimo è per contro già essa stessa un ricordo, un’espressione dell’immediatezza,… Come lo sa? Lo deve dedurre a partire dalla presupposizione che l’immediatezza non sia conoscibile, che sia una sorta di buco nero; solo così può affermare con assoluta certezza che il ricordo non può coincidere con l’immediatezza, sennò non lo sa. È possibile che non coincida, certo, ma lui lo sta affermando con assoluta certezza. Qui Colli si sbizzarrisce, perché dice a pag. 39: A designare l’immediatezza, con un’intenzione soltanto allusiva, può servire il termine “contatto”. /…/ Contatto sarà qualcosa dove soggetto e oggetto non si distinguono… Perché lui pone la relazione principalmente come relazione tra soggetto e oggetto, presupponendo che esistano entrambi. Dice che il soggetto è scivoloso, viscido, non si può afferrare bene, mentre l’oggetto si afferma con sicurezza. Come l’oggetto si afferma con sicurezza? Perché? Se anche l’oggetto, come dice lui, non è altro che il nesso tra rappresentazioni, non lo posso mai afferrare con sicurezza. Contatto sarà qualcosa dove soggetto e oggetto non si distinguono, e più precisamente, ciò di cui un’espressione primitiva è espressione: in esso non vi è soggetto che determini né oggetto che sia determinato. Non c’è un soggetto che determina, quindi, questo contatto è contatto per chi? Non c’è un soggetto che determina né un oggetto che siano determinati, quindi, questo contatto è inconsistente. Ma la cosa si fa ancora più complicata. …la mancanza di rigore nell’uso di “contatto”: fuori della rappresentazione i termini “soggetto” e “oggetto” non hanno senso, mentre in contatto dovrebbero essere proprio il soggetto e l’oggetto, che continuerebbero così a esistere fuori della rappresentazione. Continuano a esistere sempre. A pag. 42. Ma come può insinuarsi il ricordo nella rete della rappresentazione? Se noi ricordiamo l’immediatezza… Se ricordo l’immediatezza: già questa è una contraddizione in termini così come lui pone l’immediato, cioè come non mediato da nulla, quindi, è irrelato. Ma il ricordo è relazione, quindi, o c’è l’immediato, e allora non c’è nessun ricordo, oppure c’è il ricordo, che è mediato. Se noi ricordiamo l’immediatezza, ciò è possibile, in termini di una deduzione, perché tra quella immediatezza e il nostro ricordo c’è qualcosa di comune. E se la conservazione non presupponesse un possesso, cioè se il nostro ricordo non partecipasse in qualche modo di quell’immediatezza, esso non potrebbe neppure sussistere, né esprimerla attraverso la rappresentazione. Certo questo elemento comune non si può spiegare mediante il soggetto e l’oggetto, che nell’immediatezza sono assenti. Ora, al di là di tutte le questioni che possono dirsi rispetto al soggetto, dice che nell’immediatezza il soggetto è assente; quindi, questa immediatezza è per nessuno, non c’è nessuno che la consideri tale, in teoria nemmeno lui. Nell’irrappresentabile la sfera dell’espressione trova un limite, che essa non può ridurre a sé, ma che deve interpretare, appunto perché essa stessa lo testimonia. A pag. 46. La sensazione risulta ben lontana dal contatto metafisico:… Questa unione di soggetto e oggetto, dove però non c’è nessuno dei due. …essa è il punto terminale di serie convergenti di espressioni che partono da una molteplicità di contatti (designazione impropria, perché interpolata sulla base della verifica, attraverso le espressioni intermedie, delle “molte” vie che dai contatti convergono verso a sensazione). Questa idea che le sensazioni convergano è un’idea abbastanza singolare. Le sensazioni non convergono, la sensazione è una proposizione. La sensazione è così un’espressione primaria terminale,… C’è questa serie di sensazioni che convergono e l’ultima sensazione, quella terminale, sarebbe appunto la sensazione. …risulti simultaneamente soggetto di tutti gli oggetti terminali di quella serie. A pag. 47. …alla natura dell’espressione inerisce un elemento di manchevolezza, di insufficienza, che si ripercuote nella spinta all’oggettivazione, ossia nel carattere, opposto al precedente, dell’estensione. E cioè, è proprio questa manchevolezza che spinge a volere determinare l’oggetto. A pag. 48. L’espressione guadagna in estensione (aggiunge elementi) ciò che le manca in adeguatezza. Non può cogliere l’immediato e, allora, al suo posto costruisce una serie di oggetti. E la categoria della totalità fornisce un aspetto equilibratore, dove il difetto dell’espressione sembra trovare un compenso. Questa insufficienza peraltro, mentre è insita nell’espressione, accenna “anche” a un’insufficienza nel profondo. L’espressione è manchevole per natura… Come per natura? …ma appunto perché la sua natura è di esprimere, essa esprime anche qualcosa che è in sé insufficiente. Nell’abisso dell’immediatezza c’è una resistenza, un ostacolo, una contrazione (parlando simbolicamente), e l’espressione porta con sé tutto questo. /…/ …l’espressione ribadisce questa insufficienza proprio mentre il suo significato, nel manifestare quella resistenza, sarebbe di sfuggirle, di superarla. Essa perde l’immediatezza, ma inventa, integra ciò che manca al contatto: la totalità. Cioè, la rappresentazione farebbe tutte queste operazioni per via del fatto che il suo punto di origine, cioè l’immediato, non è coglibile, è irrappresentabile. Ma, come abbiamo visto, questa è una contraddizione in termini.

Intervento: È l’insufficienza della parola a cogliere la cosa in sé…

Sì. È un po’ quello che diceva Lacan a proposito del manque a être. È l’idea di porre la mancanza da qualche parte, di localizzarla e, quindi, di poterla gestire, controllare: la metto lì, la tengo separata. Eraclito, molto prima di lui, avrebbe detto che, quella che lui chiamerebbe la mancanza, è presente in ciascun atto, è in tutte le cose, e non può togliersi. In fondo, porla come l’ignoto è come darle una sorta di statuto e quasi localizzarla: la mancanza sta lì, buona, tranquilla, non possiamo toglierla perché è sconosciuta, è l’ignoto, è l’abisso. Ma si tratta di ben altro abisso rispetto a quello che dicevamo, quello che si spalanca tra il dire e il detto, in ciascun atto di parola. Qui, invece, questa mancanza è localizzata, ipostatizzata, messa lì in modo da tenerla a bada. A pag. 50. Le passioni più ardenti dell’uomo sono pure astrazioni. Perché a noi queste cose astratte sembrano vive? Perché a noi queste cose astratte sembrano vive? Sembrano le sole cose vive? Perché essere ricordano, esprimono direttamente ciò che sta sul fondo della vita, ma in sé è fuori del nostro ricordo e della nostra coscienza, non era né sarà, non è un oggetto. Ciò che sta sul fondo della vita è naturalmente l’immediato, e non è un oggetto, cioè non è qualcosa, quindi, è niente. …l’immediato non è rappresentabile… /…/ Ma per chi è nell’immediato – e tutte le cose lo sono – non occorre dimostrare. Qui diceva che l’immediato non è rappresentabile e che la dimostrazione appartiene alla rappresentazione, quindi, non è dimostrabile. Dice chi è nell’immediato: per lui l’immediato è la prima sensazione, ciò che Hegel chiamava l’intelletto, la prima percezione. Solo che Hegel la poneva in relazione con gli altri momenti, altrimenti non esiste. Invece, Colli no, lo pone come irrelato, cioè, fuori dal linguaggio. A pag. 51. Il mondo dell’apparenza viene scoperto allora come la ripercussione di un’inadeguatezza nel profondo, di uno sforzo ostacolato. La rappresentazione ha come genere la relazione: ma la relazione suprema ha come fulcro, come nascimento, qualcosa che trascende la rappresentazione. Come fulcro, il suo centro è qualcosa che è fuori della rappresentazione, fuori della relazione. A pag. 57. Il mondo come espressione coincide con il mondo come rappresentazione, o più precisamente: ogni rappresentazione è sostanzialmente un’espressione e ogni espressione si accidentalizza in una rappresentazione. Significa che a ogni espressione capita, accade di essere una rappresentazione. A pag. 60. Analizzata nel suo contenuto elementare, una rappresentazione astratta può configurarsi come una fermezza, un arresto, oppure come una tensione, un intreccio. Ogni tanto ha come un bagliore, si accorge che c’è qualcosa che funziona come un arresto, come una fermata, ma non intende nulla perché immagina che tutto ciò avvenga in virtù di qualche cosa che è fuori dal linguaggio. Non è che qualcosa si arresta, ma è il linguaggio che afferma qualcosa, e affermando qualcosa c’è l’affermare e il ciò che quella affermazione afferma: questa è la relazione. La relazione non è tra soggetto e oggetto; soggetto e oggetto sono due costruzioni. Poi, qui non definisce nemmeno il soggetto e, tutto sommato, neanche l’oggetto, che lui descrive come il nesso tra rappresentazioni, ma è una descrizione abbastanza povera rispetto, per esempio, a quella di Hjelmslev, che poneva l’oggetto come l’intersezione di un fascio di relazioni, che è molto più precisa. A pag. 64. La somiglianza è un’indicazione unificante nell’intreccio, ambiguo tra gioco e violenza, che avvolge gli attimi. Il rappresentarsi di questa fluida rete nell’oggetto oblitera la somiglianza primitiva:… È una rete fluida di connessioni, sempre in movimento. …sorge un’unità, che viene interpolata retrospettivamente a rassodare l’evanescenza di ogni ricordo degli attimi. Lo consolida, lo fissa, praticamente. Sono complicazioni inutili, non servono a niente tutte queste storie. A pag. 70. Quando un animale scansa nella sua corsa un albero, girandovi attorno, oppure fugge dinanzi a un altro animale o lo insegue, quando un infante tende opportunamente la mano per afferrare qualcosa, nella conoscenza di questi individui si manifestano già le rappresentazioni, espresse dalla causalità e dall’unità, prima che il linguaggio le costituisca come categorie. La rappresentazione in quanto nesso, che si esprime verbalmente nella categoria, è infatti già presente talora in un momento prelinguistico, come nel costituirsi dell’oggetto integrato. Quindi, c’è qualche cosa di prelinguistico: è questo che lui chiama l’immediato, è il prelinguistico, che poi lui attribuisce all’animale. Ma sono fantasie sue, dell’animale non sappiamo niente, non sappiamo perché un animale scansa un albero. Però, ciò che interessava a lui è dire che la rappresentazione, in quanto nesso, in quanto relazione – che si esprime verbalmente nella categoria, cioè nel predicato “questo è quello” – è già presente in un momento prelinguistico, cioè è un dato di fatto, qualcosa su cui il linguaggio non può nulla. A pag. 72. Qui parla dell’essere esistenziale o copulativo, di cui parlavamo qualche tempo fa. In altre parole, la distinzione tra essere esistenziale ed essere copulativo è vuota di significato: per un verso l’oggetto integrato fa già parte dell’astrazione… L’oggetto integrato sarebbe quell’oggetto che raccoglie molti nessi di altre rappresentazioni. /…/ e quindi il suo esistere è appunto il suo essere (né altrove sarà mai qualcosa di diverso), e per l’altro la funzione “copulativa” dell’essere non ha alcuna base se non un fraintendimento di parole aristoteliche. Nell’oggetto composto… L’oggetto composto sarebbe “A è B”, mentre l’oggetto singolo sarebbe “A è”. …l’“è” non congiunge ciò che è staccato, non ha alcun senso dinamico, non è unificante, ma esprime un’unione già conseguita, che ha le radici nell’immediato. Ogni volta che deve trovare una ragione fondante lui si rivolge all’immediato, e risolve, come un deus ex machina, ogni problema. A pag. 74. Dopo Aristotele non ci si è preoccupati a sufficienza in filosofia di indagare che cosa vogliamo esprimere quando diciamo “essere”:.. Ci andrei più cauto a dire una cosa del genere. …piuttosto si è partiti dalla parola “essere” e le si sono dati di volta in volta i più svariati contenuti e significati. In tal modo il linguaggio diventò creatore di filosofia, mentre la sua natura è soltanto quella di un tramite propulsivo che deve conservare, purificare, ordinare e annodare, ma non sarà mai un arché. La fantasia prelinguistica è la matrice della filosofia. Il linguaggio non sarà mai un principio, ma è qualcosa che viene dopo. L’arché, per lui, è l’immediato, il linguaggio segue, e trova nell’immediato la sua condizione. A pag. 76. Questo punto di vista tuttavia dimentica uno dei due caratteri essenziali dell’espressione: l’aspetto dell’insufficienza, dello scadimento. Se l’espressione è inadeguata rispetto all’immediatezza, quasi una sua degradazione, non c’è da stupirsi che la rappresentazione di un oggetto semplice o composto non riconosca in esso l’espressione di una lontana immediatezza. Questa mancanza di riconoscimento si esprime appunto nel non essere. Lo intende con non essere, e cioè il ricordo della mancanza o la constatazione di una inadeguatezza, di una insufficienza. A pag. 88. Ogni tanto si accorge di qualcosa. Il nucleo di una simultaneità spoglia di ogni differenziazione, ma pur sempre interna a un oggetto, formante un contenuto: la rappresentazione di questo appoggio è la continuità. Con ciò si dice però soltanto che tale nucleo consiste nell’inafferrabilità stessa del contenuto in ogni suo punto; in sé il contenuto non è nulla se non quest’unica e costante determinazione negativa entro un oggetto. In altre parole, se vogliamo afferrare una parte di questo oggetto, vedremo che essa è fatta di altre parti, e ciascuna di queste di altre ancora. La continuità significa dunque divisibilità, che si dice appunto “all’infinito”. Sempre con il preciso intento di tenere separato l’immediato dalla rappresentazione. Lui lo dice: l’immediato è l’irrappresentabile, quindi, è separato dalla rappresentazione. Ma, al tempo stesso, dice che la rappresentazione non fa altro che rappresentare, attraverso l’espressione, l’irrappresentabile, cioè l’immediato. Il che è una contraddizione in termini: o è immediato o è rappresentabile.