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12 settembre 2018

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Siamo a pag. 107, Capitolo Primo, L’esposizione della struttura originaria, parte I, La struttura originaria (Definizione formale). La struttura originaria è l’essenza del fondamento. In questo senso, la struttura anapodittica del sapere – άρχή τς γνώσεως -… Apodissi è l’argomentazione dimostrativa. L’anapodissi è ciò che è immediatamente evidente; invece, l’apodissi, non essendo immediatamente evidente, deve essere dimostrata. Alla struttura originaria compete … quanto Aristotele rilevava a proposito del principio di non contraddizione. Il principio di non contraddizione è la struttura originaria. …che la sua stessa negazione, per tenersi ferma come tale, lo deve presupporre. Se voglio negare il principio di non contraddizione ho bisogno del principio di non contraddizione. Sì che ad un tempo lo nega e lo afferma: lo nega in actu signatu… In actu signatu, cioè nel dire. …e lo afferma in actu exercitu… Cioè, di fatto. …e quindi, proprio perché insieme lo afferma e lo nega, non riesce a negarlo. L’esplicitazione della qual cosa esige però l’esposizione della struttura originaria (mostrare cioè che la negazione della struttura originaria è possibile solo presupponendo questa struttura stessa – o che la condizione della negazione è quello stesso che viene negato -: mostrare questo importa innanzitutto che la struttura originaria sia disvelata, esposta); e quindi esige un notevole sviluppo discorsivo. A pag. 108. a) Se nella storia della filosofia gli elementi della struttura del fondamento non si realizzano come delle costanti, essi si presentano però con indici di variazione notevolmente bassi. Si ponga mente, ad esempio, alle permanenze, quanto mai rilevanti nella filosofia moderna, dell’aristotelico binomio principio di non contraddizione-conoscenza immediata (esperienza, έπαγωγή)… Questo è il binomio: principio di non contraddizione e conoscenza immediata. Il principio di non contraddizione, come ha detto all’inizio, è un principio anapodittico, non richiede di essere dimostrato, quella che Heidegger chiamava la semplice presenza, l’immediatamente presente. A pag. 109. Il sapere metafisico non è, rispetto al fondamento, un’ulteriorità da conseguire, ma appartiene all’essenza stessa del fondamento… Ecco, questo ci interessa. Dice che il sapere metafisico non è qualcosa che si aggiunge a un sapere esistente ma appartiene all’essenza stessa del fondamento. …ossia non dà tregua, o non consente che ci si possa ritrarre su di un piano d’appoggio, dal quale poi si abbia a partire per il viaggio metafisico. O qualcosa come “punto di partenza” sussiste certamente, ma come momento astratto della struttura originaria; sì che il viaggio è originariamente compiuto. Sta dicendo che la metafisica non è qualche cosa che si aggiunge al pensiero, alla conoscenza, ecc., ma riguarda la struttura stessa della conoscenza, la possibilità stessa della conoscenza. A pag. 111. Siamo sempre alla questione del fondamento, che lui analizza molto a lungo anche perché ritiene, e non a torto, che il principio di non contraddizione sia il fondamento stesso del pensiero. In sede di accostamento o di elaborazione provvisoria del tema, si può dunque dire che la posizione del fondamento implica essenzialmente il toglimento della negazione del fondamento… Se io voglio parlare del fondamento è necessario che tolga la negazione del fondamento. …o che questo si realizza come apertura originaria della verità solo in quanto è in grado di togliere la sua negazione… Quindi possiamo dire che il fondamento mostra la sua apertura originaria solo se siamo in grado di togliere la sua negazione. Sì che il fondamento è posto solo in quanto la sua negazione è posta (come tolta). Se si ribattesse che, pur ammettendo che il fondamento è ciò che deve essere in grado di togliere assolutamente la propria negazione, d’altra parte è possibile porre (=avere innanzi come manifesto) il fondamento senza che sia necessario porre la negazione di esso… Pongo il fondamento senza porre anche la sua negazione. Sarebbe l’immediatamente evidente. …a chi sostenesse ciò sarebbe da osservare che il contenuto posto è il fondamento appunto in quanto mostra (= è posta) la sua capacità di togliere assolutamente la sua negazione; o che si può affermare che quel contenuto è il fondamento solo in quanto quella capacità è posta: che se invece tale capacità non è posta – e ciò deve accadere nel caso in cui il fondamento sia posto senza che sia posta la sua negazione – allora non solo quel contenuto non si mostra come fondamento, ma non lo è nemmeno. Esso è invece soltanto un momento astratto del fondamento, l’intero o il concreto del fondamento essendo appunto la relazione posizionale tra questo momento e la sua negazione. Vuole dire che per porre il fondamento devo porre la sua negazione e poi toglierla. Se io penso al fondamento senza pensare alla sua negazione, che poi deve essere tolta, questo modo di porre il fondamento non pone in effetti il fondamento come tale. Dice Severino che per essere fondamento deve avere la sua negazione ma come tolta, solo a questo punto è fondamento, cioè cancello la possibilità che questo fondamento sia negato. Soltanto così si pone il fondamento, cioè è immediatamente evidente, si mostra, si pone. Se non c’è la sua negazione, in quanto tolta, perde il suo principio di fondamento. A pag. 114. Punto 5. Formulazione del giudizio originario. Chiamiamo “giudizio originario” l’affermazione in cui si realizza la struttura originaria. Il giudizio originario può essere così formulato: “Il pensiero è l’immediato”. Il pensiero è l’immediato: questo arriva da Gentile. O meglio, in relazione alle precisazioni che a suo tempo dovranno essere apportate: “Tutto ciò che, nel modo che gli conviene, è immediatamente noto, è l’immediato”. Tutto ciò che è immediatamente noto. Uno potrebbe pensare che è un’affermazione complessa: che cos’è che è immediatamente noto? In che modo è noto? Siamo sicuri che sia noto? Sono tutti problemi che per il momento a lui non interessano. Ciò che è immediatamente noto, ciò che so immediatamente: come lo so, per il momento non interessa, però, lo so. Ad esempio, io vedo questo e so che è un posacenere, mi è immediatamente noto. Quindi, questo pensiero è l’immediato, non ho bisogno di riflettere. Come poi sono venuto a sapere che questo è un posacenere è un altro discorso. Ciò che a noi interessa per il momento è porre questo: il pensiero è l’immediato. Col termine “pensiero” si intende qui – in sede di caratterizzazione preliminare – l’attualità o la presenza immediata dell’essere, assunta in relazione alle strutture semantiche che sono immediatamente implicate dalla posizione dell’attualità o presenza immediata dell’essere. Sta intendendo qui l’essere in modo heideggeriano come ciò che si manifesta, come ciò che appare, l’apparire. E, quindi, dice che il pensiero non è altro che la presenza immediata dell’essere, vale a dire, la presenza immediata di qualcosa che è. Io so che questo è un posacenere. Questo sapere che è posacenere è il pensiero immediato. Certo, è immediato in un certo senso ma in un altro no, perché è comunque sempre mediato dal linguaggio, non ho l’accesso diretto alla cosa. (Ci si accontenti, in sede di determinazione provvisoria, di una definizione del tutto generica di queste strutture; e si avverta che all’indeterminatezza della genericità appartiene la stessa designazione di queste strutture come una pluralità). Se a questa attualità… Del pensiero come l’attuale, del pensiero dell’immediato. …si riserva il nome di “esperienza” (“orizzonte ontico” nella terminologia dello Heidegger), il termine “pensiero” resta definito come implicazione immediata tra l’esperienza e quelle strutture (o tra l’orizzonte ontico e l’“orizzonte ontologico” – intendendo, con questa espressione, il piano delle manifestazioni di tali strutture). L’esperienza è l’orizzonte ontico, cioè ciò che mi consente di cogliere l’ente, ma ciò che mi consente di cogliere l’ente è l’essere; quindi, occorre che ci sia l’essere perché ci sia l’ente, e questo è Heidegger. Quindi, l’esperienza sarebbe il cogliere l’ente ma anche ciò che dà all’ente la sua enticità. Senza questi due aspetti, dice Severino, non c’è esperienza. Andiamo avanti. Qui fa una distinzione tra il concreto e l’astratto, che avevamo già vista nell’Introduzione. Il concreto non è niente altro che la struttura originaria; l’astratto è la struttura originaria che interviene rispetto a qualche cosa. A pag. 120. Punto 13, Corollario: ordine logico e ordine discorsivo. Nell’esposizione analitica del giudizio originario, dove ‘esposizione della struttura del soggetto è anticipata sull’esposizione della struttura del predicato, e l’esposizione dei due termini è anticipata sull’esposizione della loro relazione, tale anticipazione non esprime dunque un’antecedenza logica. Qui sta riprendendo una cosa già vista prima. Nella sua formula A è B, A è il soggetto e B il predicato, sono due cose diverse. Come risolveva il problema, perché a questo punto c’è una contraddizione, cioè A non è A. Scrive (A è B) = (B è A). In questo modo, dice Severino, si elimina, almeno apparentemente, la possibilità della contraddizione perché A non è più il soggetto e B il predicato ma entrambi formano una sorta di unità. Cioè l’anticipazione deve essere mantenuta nella sua natura discorsiva, come contingenza del discorrere (contingenza dell’“ordine” del discorrere, non del discorrere come tale), per cui si è costretti a dire “una cosa dopo l’altra” (e quindi una cosa fuori dell’altra); senza che il “dopo” esprima alcunché sulla natura del rapporto logico tra le due cose. Mettendo come la mette lui tra parentesi, ci sta dicendo che a questo punto non c’è più un’antecedenza di A rispetto a B; lo metto prima perché non posso fare in un altro modo, non posso scrivere una A e sopra mettergli una B, è soltanto una necessità discorsiva, non posso dire due cose simultaneamente. E, quindi, questa differenza che, dice, permane se io scrivo soltanto A è B, non permane più se viene scritta nel modo in cui la scrive lui, e non permane più perché a questo punto la A e la B sono messe separate soltanto per poterle descrivere, per poterle scrivere sulla carta, altrimenti non lo posso fare; ma non c’è nessuna differenza tra i due. Se spesso l‘ordine logico dell’esposizione non viene rispettato, ciò dipende dalle particolari condizioni di ambientazione culturale in cui si trova chi scrive (cioè chi comunica), delle quali egli deve in certo modo tener conto. Devo tener conto che per dire due cose devo dire due parole, non posso dirne una. Questo divario tra ordine logico e ordine discorsivo può essere considerato come una variante, che ha la sua notevole importanza allorché ci si vorrà occupare della natura del linguaggio, dell’osservazione aristotelica secondo la quale non tutto ciò che è prima rispetto al discorso è prima anche rispetto alla sostanza – dove a sostanzialità, nel nostro caso, esprime appunto il rapporto logico-metodologico dei termini. È la stessa cosa che dicevamo prima. Bisogna tenere conto che nell’ordine discorsivo io sono costretto a mettere prima una parola e poi quell’altra. Questo non vuol dire che la prima sia anche logicamente prima. Le considerazioni che andiamo e che andremo svolgendo sono quindi – come già si implicitamente avvertito – la stessa discorsività in atto. Bisogna tenere conto, dice, che sto parlando e che, quindi, mi trovo preso nella discorsività. Della quale (la discorsività) vengono più o meno evidenziati, ai fini della comunicazione e in relazione all’attuale cultura filosofica, elementi che si ritengono notevoli o comunque più idonei a stabilire un accordo, e sui quali si ritiene opportuno insistere; mentre vengono sottaciuti altri di cui si ritiene inutile o ovvia la comunicazione, pur essendo di eguale importanza contenutistica. È d’altronde vero che questa scelta di elementi di comunicazione, praticamente inevitabile, è una delle principali fonti di equivoco e di dissenso. Chiunque costruisca una teoria, un pensiero o qualunque altra cosa, non può evitare di porre l’accento su alcuni elementi e metterne altri in secondo piano, se non altro quelli da cui muove, le famose premesse. Questo non significa necessariamente che non tenga in conto anche altri elementi ma, ci sta dicendo Severino, che comunque chi fa una cosa del genere è costretto a mettere in evidenza alcune cose mettendo, invece, in secondo piano delle altre. Da qui, dice giustamente, sorge una buona quantità di fraintendimenti. D’altra parte, è inevitabile, ed è per questo che Peirce diceva che la prima cosa da fare in una discussione teorica è mostrare, dire, quali sono le premesse, cioè che cosa si intende con una certa cosa e mettersi d’accordo su questo. Siamo a pag. 124, punto 16. Allorché nello svolgersi della discorsività un momento qualsiasi di questa è tenuto fermo in modo tale che la forma del discorrere sia posta come il contenuto di questo – allorché cioè si si pensa che la forma che il discorrere ha assunto sino al momento considerato sia una proprietà del contenuto come tale -, si produce l’accadere del concetto astratto. Nel momento in cui io immagino che la forma del mio discorso corrisponda al suo contenuto - cioè se io metto prima la A e dopo la B vuol dire che do più importanza alla A, che viene prima; questo significa sovrapporre la forma a un contenuto, mentre non necessariamente, come abbiamo visto, se metto prima la A e dopo la B do maggiore rilievo alla A piuttosto che alla B – si produce l’accadere, dice, del concetto astratto. Concetto che distoglie il suo contenuto dal contesto globale conferendogli la caratteristica di una liberazione dall’intero, o di una acquisizione di autonomia rispetto a questo. il fare questa operazione, per Severino, è come isolare, un elemento dal suo contenuto, o dal mondo, come direbbe Heidegger. In effetti, nella formula A è B io isolo la A dalla B, mentre l’operazione che fa Severino è di non isolare più questi elementi ma porli come un’identità, e infatti li mette entrambi tra parentesi a indicare una sorta di unicum, di unità, per cui non c’è più la contrapposizione. Questo liberarsi del particolare non è da confondere con quell’assenza dell’intero come tale che, essendo resa possibile dalla stessa posizione di questo, è l’astratto stesso in quanto concretamente concepito: la liberazione di cui si parla è un semplice ignorare o dimenticare l’intero, o è quell’assenza stessa, ma non posta come tale; onde l’intero è assente dal momento astratto, ma non è saputo come assente. Questa operazione di liberarsi del particolare, cioè liberare, per esempio, la A dalla B nella proposizione A è B, ognuna è per se stessa, solo a questa condizione c’è la contraddizione. Questa operazione, dice, non è da confondere con quell’assenza dell’intero come tale che, essendo resa possibile dalla stessa posizione di questo, è l’astratto stesso in quanto concretamente concepito, cioè lui distingue questa operazione da quell’altro pensiero che dice che A è B, anche se posti insieme, non sono un tutto ma un dettaglio. Quindi, questa proposizione A è B, anche se messa tra parentesi, lascia fuori il tutto. Dice che non è la stessa cosa dire che la A lascia fuori la B e B lascia fuori la A perché, dice, questo intero è assente dal momento astratto. Il momento astratto è sempre quel momento in cui io determino una qualunque cosa. Dice che questo particolare, questo dettaglio, lascia fuori l’intero ma non se ne rende conto, perché, se se ne rendesse conto, dice, il particolare diventa così oggetto di una cura, che è quello stesso interesse senza di cui, come ricorda lo Hegel, gli uomini non farebbero nulla. Si produce in tal modo l’accadere di “una” filosofia. Severino vuole distinguere due posizioni: una dove A è B mostra che A tiene fuori B e B tiene fuori A; l’altra posizione in cui A è B è messa tra parentesi, quindi, è un unicum, però, tiene fuori il tutto. C’è sempre comunque qualcosa che è tenuto fuori. Se io pongo anche tra parentesi questo A è B, questo A è B non mai un tutto. Cosa vuol dire che qui è assente il tutto? Rileggiamo. Questo liberarsi del particolare non è da confondere con quell’assenza dell’intero come tale che, essendo resa possibile dalla stessa posizione di questo… Cosa vuol dire resa possibile dalla stessa posizione di questo…?  È resa possibile dal fatto che la posizione… Se vi ricordate, per Severino è l’immediatamente evidente, è il mostrarsi di qualche cosa. Ora, mi rendo conto immediatamente che A è B non è il tutto… Questo per mostrare che, anche se in questo caso la formula (A è B) tiene fuori il tutto, questa assenza del tutto è saputa, lo so che questa formula non è il tutto, mentre la stessa cosa non accade, dice lui, se tengo fuori dalla A la B e la B dalla A, soltanto se non mi accorgo dell’identità dei due allora posso costruire una contraddizione. Come ci giunge questa contraddizione? L’aveva detto: immaginando che l’uno sia il soggetto e l’altro il predicato, ma soltanto perché uno viene prima e l’altro dopo, ma questo venire prima e dopo ha una funzione solo discorsiva; di fatto, A e B sono la stessa cosa, sono il medesimo. È questo che quella “è”, in mezzo a loro, vuole dirci: che sono il medesimo. A pag. 126. Punto 17, La filosofia e le filosofie. Una molteplicità di soggetti, o di coscienze, non è infatti immediatamente presente, e pertanto non appartiene alla struttura originaria (non le appartiene affatto; se poi non le possa appartenere, è questione che può essere qui tralasciata). La molteplicità dei soggetti non è immediatamente presente, qui non ci siamo “tutti”. Dice e pertanto non appartiene alla struttura originaria. Cos’è la struttura originaria? È ciò che immediatamente presente. Che cosa è presente? Che questa cosa è questa cosa; questa cosa, che è qui, non è altro da ciò che mi appare; mi appare questo e, quindi, non è un’atra cosa. questa è la struttura originaria, l’immediatamente presente. Come dire che ciò che è immediatamente presente è il principio di non contraddizione. All’immediato appartiene invece il progetto o la supposizione di quella molteplicità – che è come dire che questa appartiene alla struttura originaria, ma appunto come progettata. In quanto dunque ci si mantiene sul piano dell’originarietà, e in quanto questo è la stessa originaria apertura del filosofare, si dirà che il filosofare e la filosofia non possono essere che il mio filosofare e la mia filosofia. Cosa appartiene all’immediato? Il mio progetto, è questo che mi è immediatamente presente. Infatti, dice, questa progettualità appartiene alla struttura originaria, ma, appunto, come progettata. Appartiene, sì, all’originarietà, al mio progetto, ed è originario nel senso che è il mio progetto e non un altro. Bisogna sempre tenere conto di questo aspetto quando parla di originario, di struttura originaria, si riferisce sempre a questo, che il mio progetto è questo e non un altro. A pag. 129. La struttura originaria è lo stesso significato originario; ossia è l’apertura originaria del significato. Cosa vuol dire che La struttura originaria è lo stesso significato originario? Che propriamente ciò che una cosa significa è se stessa e non altro da sé. Dice è l’apertura originaria del significato, un significato che si apre su se stesso, una cosa significa se stessa, non ne significa un’altra. Per questo lato, il giudizio originario va formulato dicendo che il significato è per sé significante. Dove il “significato” è appunto l’essere che è immediatamente noto… Che mi significa questo? Che è un posacenere, questo mi è immediatamente noto. Torno a dire, come sia accaduto che mi sia immediatamente noto, questa è un’altra questione. Wittgenstein direbbe che l’ho imparato. Però, ciò che a noi adesso interessa è che mi è immediatamente noto; quindi, appunto, l’essere che mi è immediatamente noto. …è per sé significante quel significare in cui consiste l’orizzonte dell’immediatezza. Cos’è che significa? Dice, quel significare che appartiene all’orizzonte dell’immediatezza, cioè a quell’orizzonte in cui questa cosa può apparirmi, e che quindi comporta tutte le cose che ho imparate, che ho apprese, ecc., che sono qui in questo momento e che mi significano questa cosa così come me la significano. Sullo sfondo c’è sempre Heidegger. Pertanto, il significato non è indeterminatamente affermato, ma è una struttura: struttura o “sintassi” originaria. Il significato, dice, è una struttura; quindi, un insieme di cose, che però sono qui presenti immediatamente; sono quelle che consentono l’immediata evidenza di questa cosa qui adesso. (L’affermazione della “convenzionalità” della sintassi originaria è uno dei molti modi di negazione dell’immediato, e resta tolta con il toglimento di questa negazione. Sta dicendo che il principio di non contraddizione non è una convenzione. Togliendo la negazione da un’affermazione, dall’essere, dice, tolgo anche l’eventualità che il principio di non contraddizione sia una convenzione. Adesso vediamo se ci dice anche il perché. L’articolazione sintattica più notevole che sinora abbiamo rilevato, è quella onde si dice che il piano del significato è ciò che è posto come il per sé significante, cioè come significato immediato; sì che il significato è appunto quello che è così posto, e non uno arbitrario o immaginario che stia al di fuori di questa posizione). Ecco il perché. Il significato è quello che è stato posto, e cioè mi si è posto il significato di questo aggeggio, come questo significato, ma non arbitrariamente perché il significato di questa cosa è per sé significante. Il fatto che sia qualche cosa non è una convenzione; potremmo dire che non è una convenzione ma una struttura del linguaggio. La struttura del linguaggio non è una convenzione; la convenzione è qualcosa che posso anche togliere e sostituirla con un’altra; è una convenzione chiamarlo posacenere, questo sì, ma che “questo sia questo” non è una convenzione, perché se questo non è più questo o se questo non è questo, io non posso più nemmeno dire “questo”. tutto questo appartiene alla struttura originaria, dice Severino. Il significato è quello che, appunto, è così posto e non uno arbitrario o immaginario, che stia la di fuori di questa posizione; cioè, io vedo quello che vedo, semplicemente. La proposizione 6.54 del Tractatus di Wittgenstein suona: “Dalle mie proposizioni resta chiarito he chi mi ha compreso riconoscerà da ultimo che esse sono prive di significato quando attraverso e per mezzo di esse è salito al di sopra di esse. (Egli dovrà, per così dire, gettar via la scala dopo che è salito con essa)”. Sta dicendo Wittgenstein che tutte le cose che ha fatte servono soltanto a fare un passo successivo, di per sé non significano niente, sono tutte, direbbe Heidegger, “in vista di…” un passaggio successivo. Una volta che ha fatto il passaggio successivo, non servono più a niente. Questa proposizione è la stessa autoconfutazione della filosofia wittgensteiniana. (Può essere inoltre considerata come uno dei punti di maggior divario tra la logica neopositivistica e la logica idealistica). La logica neopositivistica è quella che si fonda su vero-falso, sulla logica tradizionale; quella idealistica è quella di Hegel, che invece accoglie la contraddizione in vista di una sintesi, mentre per la logica positivistica ciò che è falso viene eliminato. Per Hegel no, lo tiene e dice che la sintesi è il prodotto di queste due cose, per cui il falso ha la sua virtù, per così dire. Essa afferma che il processo mediante il quale viene stabilita la significanza delle sole proposizioni non filosofiche è insignificante. Il processo, mediante il quale si stabilisce la significanza, cioè il significato, delle proposizioni filosofiche, è insignificante. È un’affermazione pesante perché Wittgenstein costruisce delle proposizioni e poi dice che tutte queste proposizioni costruite prima sono insignificanti. Ma, allora, anche il processo che le ha costruite è insignificante. Ora, è chiaro che o la significanza delle proposizioni non filosofiche vale come risultato di quel processo di significazione. Quindi, o la significanza delle proposizioni non filosofiche – le proposizioni non filosofiche sono quelle che per Wittgenstein non sono riconducibili a un sistema vero-funzionale – vale come risultato di quel processo di significazione, cioè questa proposizione che afferma che il processo mediante il quale viene stabilita la significanza delle sole proposizioni, tutta questa proposizione è insignificante, perché rientra all’interno di tutte quelle proposizioni che non sono filosofiche. …sì che questo processo deve essere mantenuto come ciò in relazione al quale la significanza in questione è un risultare; … Dice: tuttavia, tutte queste proposizioni che a un certo punto risultano in questa proposizione finale sono insignificanti. Questo risultato, allora, sembra chiedersi, è insignificante o significa qualche cosa? …oppure questa significanza non è assunta come un tale risultato, e allora è come se la proposta filosofica di Wittgenstein non sia stata nemmeno avanzata. Cioè, o tutte queste proposizioni, messe assieme, quelle che conducono alla posizione finale, sono insignificanti, quindi anche la proposizione finale, oppure questa proposizione non è il risultato di tutte le proposizioni precedenti e allora, dice, se è così, la proposta filosofica di Wittgenstein non è stata neanche avanzata, perché non sta dicendo niente. Questa proposizione, che dice che tutte le proposizioni filosofiche, ecc., sono insignificanti o è il risultato di un pensiero oppure è niente. È questo che ci sta dicendo Severino. Questa aporia del Tractatus è determinata dall’influenza dell’impostazione di fondo dell’assiomatica e delle ricerche metamatematiche moderne. Se infatti i principi secondo i qual si costituisce un certo sistema logico, o “linguaggio”, hanno un valore convenzionale, come accade nei linguaggi matematici, la convenzione – la scelta cioè delle regole che abbiano funzione di principi del sistema considerato – si realizza su di un “livello” linguistico diverso da quello occupato da questo sistema. Dice che questo problema che si incontra nel Tractatus deriva da un modo di pensare che è tipico della logica contemporanea. Infatti, Severino si chiede se tutti i principi hanno un valore convenzionale - sono cioè regole per giocare ma regole che possono essere sostituite, diverse da quelle regole come il principio di non contraddizione che non può essere sostituita – allora la convenzione si realizza su di un livello diverso da quello occupato dal sistema. È il problema di Russell, come dire che occorre una sorta di metalinguaggio per parlare di questi principi. Questi principi vengono applicati a un linguaggio ma non si applicano a qualunque linguaggio, si applicano a dei linguaggi particolari. Il criterio della scelta appartiene a un livello diverso da quello che si costituisce in base alle regole convenute. Il dislivello sussiste appunto in forza della natura convenzionale delle regole. Se il nuovo livello che si ottiene si struttura a sua volta secondo regole convenzionali, la determinazione di queste regole avverrà all’interno di un terzo livello linguistico. E così via all’infinito. Wittgenstein ha creduto di eliminare il regressus in indefinitum, nell’introduzione dei livelli, riconoscendo l’insignificanza del livello base. il significare è così inteso come un esclusivo portar luce ad altro, dandogli appunto un significato, ma rimanendo poi esso stesso nell’ombra o al di fuori del significato: alterità di significare (o significazione) e significato. Ciascuna cosa significa solo in base a un’altra cosa. Questo significare, dice, porta luce ad altro, ma lui, in quanto tale, rimane nell’ombra, non si capisce bene in cosa consista se poi, alla fine, il risultato è l’insignificanza. Il significare investe invece, originariamente, unicamente sé medesimo; inde, come si è detto, il significato è il per sé significante: autosignificazione. Questa è la posizione di Severino: questa cosa autosignifica questa cosa, è per sé nota, questa cosa io la so perché è immediatamente evidente per me, lasciando stare il come faccio a saperlo, però questa cosa significa quello che è. Questo è il significato, la cosa forse più importante da intendere; per Severino, la significanza di qualcosa è il significare ciò che esso è e non può non essere, cioè il fatto di essere sé e non altro. Questo è il significato. Quindi, ciascuna cosa ha un significato, che non è affatto arbitrario. Il fatto che ciascuna cosa sia sé e non possa essere altro da sé, questo non è arbitrario, è assolutamente indispensabile per potere parlare. Per quanto riguarda Wittgenstein, si osservi che, a parte l’autoconfutazione sopra rilevata, si produce una situazione logica, per la quale la stessa proposizione 6.54 del Tractatus deve essere priva di significato, ricostituendosi per questo lato il regressus che si intendeva togliere. E cioè, non soltanto le proposizioni della scienza della natura sono fornite di significato, non solo la proposizione: “Soltanto le proposizioni della scienza della natura sono fornite di significato” (sia P1 questa proposizione) è priva di significato, ma è priva di significato anche la proposizione: “La proposizione P1 è priva di significato” (sia P2 questa proposizione) ed è priva di significato anche la proposizione: “La proposizione P2 è priva di significato”, ecc. Severino dice per obiettare Wittgenstein: se soltanto le proposizioni della scienza della natura sono fornite di significato, allora questa proposizione, che dice che soltanto le proposizioni della scienza della natura sono fornite di significato, non ha nessun significato perché questa proposizione non è una proposizione della scienza della natura. Quindi, la proposizione che afferma questo è senza significato se noi ammettiamo che soltanto le proposizioni della scienza della natura hanno significato: pertanto, la proposizione che lo afferma è priva di significato, perché non è una proposizione della scienza della natura. Sono noti i tentativi compiuti dagli altri rappresentanti del neopositivismo, e dallo stesso Wittgenstein, per eliminare questa aporia. Qui è da dire soltanto che, generalmente, questi tentativi si muovono sempre all’interno del punto di vista convenzionalistico. La stessa introduzione degli operatori illimitati, proposta da Carnap, ha un carattere convenzionale, e risponde semplicemente all’esigenza di rendere significanti, con opportuni accorgimenti tecnici, tanto le proposizioni del linguaggio oggettivo, quanto le proposizioni del linguaggio sintattico… Il linguaggio oggettivo è quello che afferma che tutte le proposizioni sono proposizioni che significano; quello sintattico, sono le proposizioni che lo dicono. …in modo da ottenere una struttura logica convenzionale che non sia affetta dall’aporia wittgensteiniana. Però, siamo sempre nella struttura logica convenzionale, perché è per convenzione che io stabilisco questa separazione delle due cose, non esiste in natura. Questi tentativi si lasciano cioè accanto, come non tolta, la loro negazione. Tutti questi tentativi mantengono, essendo convenzione, l’eventualità di non essere affatto così, può essere così ma anche non essere, mentre he questa cosa mi appaia nel modo in cui mi appare non può essere altrimenti, perché mi appare così. Ma è chiaro che se il criterio di scelta di una certa struttura semantica è dato da questa stessa struttura, l’abbandono della prospettiva convenzionalistica è conseguito nella misura in cui questa struttura vale come la struttura dell’immediato. Dice: se io però metto al posto della convenzione l’immediato, che succede? Che non è più una convenzione ma qualcosa d’immediato. La scelta dell’immediato ha un senso differente dalle scelte precedenti, perché qui è l’immediato stesso che si fa scegliere, e questo farsi scegliere è lo stesso riconoscimento dell’immediatezza dell’immediato, o dell’originarietà del significato originario. È l’immediatezza che si fa scegliere, non sono io a scegliere che questo mi appaia così come mi appare, è l’immediato che mi appare così. Quindi, non è più una scelta fatta per convenzione, per utilità, ecc., non poso scegliere altro, non posso non vedere quella cosa così come la vedo, questa cosa non può non apparirmi se non come mi appare in questo istante. È questo che sta dicendo. O, se il temine “scelta” è definito univocamente, qui non si ha più scelta, perché l’immediato è ciò che si fa valere da sé medesimo, e in questo farsi valere si costituisce come struttura originaria. Ciò che mi appare è così come mi appare. Se si sostiene che rimane pur sempre la libertà di pensare ad altre cose, di scegliere o di prendersi cura per altre cose che non sino la filosofia, questa libertà è la libertà di trovarsi nell’infondatezza o addirittura nella contraddizione. In questo senso, anche la filosofia è oggetto di scelta, ma non in quanto essa è tale (come tale è la stessa esclusione di ogni altra scelta), ma in quanto è vista in relazione a quell’essere –l’uomo – che si ritiene in grado di scegliere, e quindi di sceglierla o di rifiutarla (o di disinteressarsene). C’è una critica intorno alla questione della scelta; certo, posso scegliere ma di fronte all’immediato la struttura originaria non mi dà scelta. Il principio di non contraddizione non mi dà scelta, nel senso che questa cosa è così come mi appare, oppure, se non c’è questa immediatezza, che mi dica che quella cosa è quella che è, se non c’è questo non c’è nemmeno nessuna possibilità di scelta, perché la scelta è almeno tra due cose e ciascuna di queste due deve essere individuata, deve essere quella che è.