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12 agosto 2020

 

Scienza della logica di G. W. F. Hegel

 

Siamo a pag. 801. L’oggettività. Ci ha già spiegato Hegel che l’oggetto è il sillogismo, il concetto. Il concetto non è altro che l’unione di essere e essenza. Nel primo libro della logica oggettiva fu mostrato l’astratto essere in quanto passava nell’esser determinato, ma in pari tempo tornava nell’essenza. Nel secondo l’essenza si dà a vedere come quella che si determina a fondamento o ragion d’essere, etra con ciò nell’esistenza e si realizza fino a farsi sostanza, ma di nuovo torna nel concetto. Del concetto si è ora anzitutto mostrato che si determina quale oggettività. È chiaro che non c’è un oggetto senza un soggetto per il quale è vero. È chiaro che di per sé che quest’ultimo passaggio, secondo la determinazione sua, è quello stesso che si affacciò una volta che ella metafisica come conclusione dal concetto, cioè dal concetto di Dio, alla sua esistenza, ossia come la cosiddetta prova ontologica dell’esistenza di Dio. È noto parimenti che il più sublime pensiero di Descartes, che cioè Dio è quello il cui concetto include in sé il suo essere, dopo che fu ricaduto nella cattiva forma del sillogismo formale, cioè nella forma di quella prova, soggiacque finalmente alla critica della ragione ed al pensiero che l’esistere non si lasci ricavar dal concetto. Dice che l’esistere non si lascia ricavare dal concetto. È vero, non è che l’esistere sia ricavato dal concetto, l’esistere è il concetto. Il che è diverso, non è una cosa che si aggiunge. Nella Parte prima, a pp. 75 sgg., essendo scomparso l’essere nel suo primo contrapposto ch’è il non essere, ed essendosi mostrato qual verità di ambedue il divenire, si fece notare lo scambio che accade allorché a proposito di un esistere determinato si tien fermo non già il suo essere, ma il suo contenuto determinato, ed allorché perciò si crede che, confrontandosi questo contenuto determinato (p. es. cento talleri) con un altro contenuto determinato (p. es. col contesto della mia percezione o coi miei mezzi di fortuna) e trovandosi che fa costì una differenza che quel contenuto si sopraggiunga a questo oppur no, – si parli in tal caso della differenza dell’essere e del non essere, o addirittura di quella dell’essere e del concetto. Oltracciò in quello stesso luogo a pag. 106, e nella Parte seconda a pag. 493 fu chiarita quella determinazione di una somma di ogni realtà, che si affaccia nella prova ontologica. La trattazione, condotta ora appunto a termine, del concetto e dell’intiero corso per cui esso si determina quale oggettività, riguarda appunto l’oggetto essenziale di quella prova, il nesso cioè del concetto e dell’esistere. Come negatività assolutamente identica con sé il concetto è quello che determina se stesso. Si notò che già in quanto nell’individualità si risolve a giudizio, esso si pone come reale, come ciò che è. Questa realtà ancora astratta si compie nell’oggettività. Qui c’è un punto importante, e cioè il concetto si determina da sé. È una questione che a questo punto meriterebbe una riflessione che riguarda il linguaggio, il suo funzionamento, e cioè il fatto che il linguaggio si determini da sé, che in un certo senso si autoproduca. Ma in quale senso? Occorre precisarlo. Dicendo qualcosa, nel momento in cui io dico qualche cosa, il mio dire produce un detto. Questo detto è ciò che significa il mio dire, per cui non c’è il mio dire senza il detto; sono due momenti, distinti ma inseparabili, attraverso cui il linguaggio si svolge, per cui nel momento in cui si pone un elemento immediatamente si pone anche l’altro. Potremmo dire con Hegel, l’altro è il suo negativo, ciò che si oppone in quanto non è il primo, ma questo secondo elemento è quello che fa esistere il primo. È il mio detto che fa esistere il mio dire, che non c’è senza il detto, perché sono la stessa cosa; però, iniziando a dire si mette in atto questo processo in cui il linguaggio si autopone – lo vedremo poi con Gentile, che parla di autoctisi, letteralmente l’autoporsi. Questo autoporsi del linguaggio, questo prodursi da sé, accade nel momento in cui il linguaggio instaura una distanza tra il dire e il detto, dove il dire fa esistere il detto, ma lo fa esistere nel senso che fa parte del dire, non sono separabili, quando c’è uno immediatamente c’è l’altro. Questo è l’autoporsi del linguaggio, con tutto ciò che in Hegel questo comporta. Torniamo all’esempio di prima: il mio dire comporta un detto, ma questo detto scompare tornando nel dire e facendo del dire il mio dire. Forse, è più chiaro nell’esempio ripreso da de Saussure intorno al significante e al significato. È chiaro che occorre un significato, ma questo significato scompare nel momento in cui si dice, scompare a vantaggio del significante, che da quel momento significa e, quindi, è significante. Questo è il movimento del linguaggio, ciò per cui il linguaggio produce, crea: dicendo creo un detto, ma dicendo questo detto si dilegua, torna nel dire e crea il dire, che in un certo senso prima non esisteva. Questa è la produzione del linguaggio, propriamente l’autoprodursi del linguaggio, creando il detto, ovviamente pone un qualche cosa che si oppone al dire, quindi, un altro elemento apparentemente esterno. Però, è questo l’avvio di ogni pensare a qualche cosa che sia fuori dal linguaggio, fuori dal dire: muove dall’idea che dicendo produco qualche cosa che in quel momento appare fuori dal mio dire; senza tenere conto che è una rappresentazione ma, di fatto, il detto è simultaneo ed è lo stesso dire. Questo è qualcosa che ci aiuterà a intendere la questione di cui parlerà tra poco, quella della teleologia, cioè della tecnica. Ricordate la definizione di tecnica che dà Heidegger: la produzione di mezzi in vista di fini. Tenendo conto di ciò che ci ha detto rispetto al sillogismo compiuto, e cioè che i tre sillogismi (deduttivi, induttivo, analogico) in realtà sono uno perché non c’è uno senza l’altro – quello deduttivo necessita di quello induttivo; quello induttivo necessita di quello analogico – sono un unico sillogismo, quello compiuto non il sillogismo formale, perché il sillogismo formale non compie mai questa operazione, ma mantiene, o pensa di mantenere, separati questi tre sillogismi come se fossero figure, mentre Hegel li considera momenti di un tutto. Cosa succede, quindi, a questo punto? Mantenendoli separati nel sillogismo formale succede che il medio, che media tra la premessa maggiore e la conclusione, dovrebbe essere quella cosa che consente di stabilire, attraverso la conclusione, qual è l’oggetto a cui tende il sillogismo, cioè l’universale. Il fatto è che avviene, dice Hegel, che questo oggetto cui tende il sillogismo come scopo – l’universale è lo scopo del sillogismo, l’affermare una cosa definitiva – si rivela incapace di soddisfare lo scopo, per il motivo che in questo movimento del sillogismo formale l’oggetto è mantenuto separato dal soggetto, cioè dall’individuo. Che succede a questo punto? Che non può avvenire, mantenendo separate le due cose, quell’Aufhebung, quel ritorno dell’oggetto sul soggetto tale per cui il soggetto si fa oggetto e, una volta fattosi oggetto, si pone di nuovo come soggetto. Questo nel sillogismo formale non può avvenire, cioè non può avvenire l’Aufhebung, non può avvenire il compimento dello scopo, perché lo scopo nel linguaggio è quello di potere determinare, tornando all’esempio di prima, il dire. Potete pensare il soggetto e l’oggetto come il significante e il significato, come l’immanente e il trascendente. Dopo tutto la necessità che l’oggetto torni sul soggetto non è altro che la necessità che il significato torni sul significante per renderlo significante. Non è che il sillogismo sia animato da una vita propria, è il linguaggio che funziona in quel modo, e cioè, dicendo qualcosa il mio dire è come se si separasse dal detto che mi trovo di fronte, ma perché il mio dire sia quello che è occorre che questo detto torni sul dire e me lo faccia stabilire, determinare in quanto il mio dire. È un po’ come la questione dell’essere, che Hegel esplora molto bene: l’essere in quanto tale è indeterminato fino a quando non dico che cos’è; ma per dire che cos’è l’essere occorre che presupponga un’essenza, ciò che l’essere veramente è, ma questa essenza non può essere che ciò che l’essere non è, e che cos’è ciò che l’essere non è? Il non essere, indubbiamente. Questo per indicare la necessità di questo movimento, perché non può non darsi: questo movimento è il linguaggio, né più né meno. Se, per assurdo, togliessimo questo movimento, il linguaggio cesserebbe di esistere, e noi insieme con lui. La tecnica tiene separati – lo dico in modo semplice, hegelianamente inappropriato – il soggetto e l’oggetto, l’individuo e l’universale, e il medio che dovrebbe connettere i due – medio, che da una parte è rivolto verso l’individuo e dall’altra è rivolto all’universale – e concludere con l’universale, ma non lo può fare. Non lo può fare perché questo oggetto, questo universale, che sarebbe lo scopo, viene a ritrovarsi come un qualche cosa che non si è di fatto compiuto, cioè, non si è determinato in quanto soggetto, in quanto individuo, ma rimane come un oggetto che rimane in attesa di essere ricondotto al soggetto e, quindi, attraverso l’Aufhebung, di compiere questa integrazione. L’oggetto, quindi, è come se rimanesse in attesa; ecco perché, restando in quella posizione, si pone questo oggetto, anziché come il raggiungimento dello scopo, come un altro strumento che deve raggiungere l’oggetto e che, però, non raggiunge mai. Questo perché l’oggetto si mostra sempre come un qualche cosa che non ha la possibilità di determinarsi come individuo, perché dovrebbe tornare sul soggetto, cioè fare quel movimento che fa il significato: dal significante al significato, che torna sul significante e lo rende tale. Quindi, ogni oggetto nella tecnica, mantenendo separate queste due figure anziché porle come momenti, ha questo destino di diventare uno strumento, che di nuovo si porrà come un oggetto in attesa di raggiungere lo scopo, che non raggiungerà, ponendosi nuovamente come uno strumento, e così via all’infinito. Questa è la tecnica.

Intervento: Severino, che si è occupato molto di tecnica, non l’ha mai posta in questi termini.

Severino conosceva molto bene Hegel, ciò nonostante si è trovato a non porre mai realmente l’Aufhebung, quando lui fa l’esempio dell’essere e del non essere, li mantiene separati, non c’è mai l’integrazione. Se ci fosse integrazione allora l’essere non sarebbe più l’incontrovertibile ma sarebbe anche il non essere, cosa che Severino invece cerca di evitare in tutti i modi. È questo, in un certo senso, il limite: il volere limitare a tutti i costi il divenire, per cui è costretto a tenere separate queste due cose. Solo che tenendole separate incontra una serie di problemi. Questo della tecnica è uno di questi problemi, ma non è nemmeno il peggiore. Hegel la pone in questo modo, io l’ho un po’ riassunta, ma la tecnica, in quanto sillogismo formale, tiene separate le figure. Tenendole separate, ogni volta che il medio deve concludere con l’oggetto, con un’affermazione universale, si trova di fronte un oggetto che non è individuo, che attende di essere determinato, e la sua determinazione la ottiene soltanto riflettendosi sul soggetto e diventando, quindi, in sé e per sé. Questo non lo può fare mai se li tiene separati, quindi, ecco questa rincorsa continua, inevitabile: ogni volta che incontro l’oggetto, questo oggetto mi si mostra come uno strumento per un altro oggetto, perché quello di prima non era l’oggetto, non era quello.

Intervento: …

È come l’essere senza l’essenza, è indeterminato, è nulla.

Intervento: …

Sì, perché il significato sarebbe l’oggetto posto come individuo. Soggetto e oggetto: l’oggetto è il significato del soggetto, ciò che il soggetto significa. Questo Hegel lo dice già nella Fenomenologia: soggetto e oggetto sono lo stesso, perché non c’è uno senza l’altro, sono i due momenti dello stesso. E, quindi, certo, non trova il significato, non trova ciò che di fatto è quella cosa lì. Resta in attesa, in un’attesa che è infinita a questo punto, un’attesa infinita che è appunto quella produzione di mezzi e di fini di cui parla Heidegger e che non si ferma mai. Andiamo ora alla parte dedicata alla teleologia, che, in effetti, è una riflessione intorno alla tecnica. La teleologia è il discorso sui fini, ultimi oppure no, a seconda dei casi; però, sono quei fini, quegli scopi di cui la tecnica si occupa, perché la tecnica, come dicevamo, produce strumenti per raggiungere dei fini. A pag. 834. Se il meccanismo e la finalità stanno uno di contro all’altro, appunto per questo non si possono prendere come equivalenti, quasi ciascuno di essi fosse per sé un concetto giusto, di valore eguale all’altro, e tutto si riducesse a sapere qual dei due, caso per caso, si possa applicare. Cioè: le cose procedono per via di un meccanismo o c’è una finalità in questo meccanismo? Procedono meccanicamente o c’è uno scopo? Ma la prima questione necessaria, poiché sono contrapposti, è di sapere quale dei due sia il vero; e la vera e propria questione di ordine superiore è, se la loro verità non sia costituita da un terzo, oppure se l’uno non sia la verità dell’altro. Questo pone già una questione importante in Hegel, dove non si tratta mai di una contrapposizione tra due figure, ma dell’intendere come queste due figure sono momenti di un tutto. A pag. 840. Lo scopo al contrario è l’universale concreto, che ha in lui stesso il momento della particolarità ed esteriorità ed è perciò attivo e costituisce lo stimolo a staccare sé da se stesso. il concetto è ad ogni modo come scopo un giudizio oggettivo dove l’una determinazione, il soggetto, cioè il concetto concreto, è some determinata da se stessa, e l’altra poi non è soltanto un predicato, ma è l’oggettività esteriore. Soggetto e oggetto qui ancora contrapposti. Se non che la relazione di scopo non è perciò un giudicare riflettente, che considera gli oggetti esterni solo secondo una unità, come se un intelletto li avesse dati ad uso della nostra facoltà conoscitiva, ma è il Vero in sé e per sé, che giudica oggettivamente e determina in maniera assoluta l’oggettività esteriore. La relazione di scopo è perciò più che un giudizio; è il sillogismo del libero concetto per sé stante che si connette con se stesso mediante l’oggettività. Qui descrive il percorso di cui vi ho parlato prima. La relazione di scopo, attraverso il medio, è un sillogismo, ma aggiunge: è il sillogismo del libero concetto per sé stante, che, in definitiva, non è altro che il sillogismo compiuto, cioè il sillogismo che si è compiuto attraverso quei tre sillogismi (deduttivo, induttivo e analogico), di cui parlava, nel momento in cui questi sillogismi mostrano di essere un tutto, una unità, e non più tre figure separate. Non possono esistere separate: il deduttivo non può esistere senza l’induttivo, e questo vale anche per gli altri giudizi. A pag. 842. Lo scopo è cioè il concetto che nell’oggettività è giunto a se stesso. Quindi, il concetto che giunge a se stesso. Come giunge a se stesso? Giunge a se stesso dileguando, direbbe Hegel, dileguando nel soggetto, facendosi soggetto. A pag. 844. Il primo, immediato porre nello scopo è il porre un interno, vale a dire un determinato come posto, e insieme il presupporre un mondo oggettivo che è indifferente rispetto alla determinazione di scopo. Questo è il primo modo immediato di porsi uno scopo. La soggettività dello scopo è però l’unità negativa assoluta. Si è reso il soggetto negatività in quanto si è negato a vantaggio dell’oggetto. In questo doppio movimento del soggetto, che scompare e si fa oggetto, il quale oggetto a sua volta scompare e si fa oggetto. Proprio così come accade rispetto al significante e al significato, al dire e al detto: l’uno scompare nell’altro; nel momento in cui l’altro si dà, il primo scompare, si dilegua; non c’è la compresenza del dire e del detto, ma c’è il dire e c’è il detto; sono certo simultanei ma distinti. Così come se c’è significante non c’è significato e se c’è significato non c’è significante, nonostante siano la stessa cosa. Il suo secondo determinare è quindi il togliere questa presupposizione in generale. Questo togliere è perciò il ritorno in sé, in quanto che per esso vien tolto quel momento della prima negazione, il porre il negativo contro il soggetto, l’oggetto esterno. Se io pongo il negativo del soggetto, pongo ciò che il soggetto non è. Cosa non è il soggetto? L’oggetto. Ma rispetto alla presupposizione o rispetto all’immediatezza del determinare, di fronte al mondo oggettivo, esso non è che la negazione prima, immediata essa stessa e quindi estrinseca. Rispetto alla presupposizione, cioè, rispetto all’esser tolto, l’oggetto si pone come la prima negazione del soggetto. L’oggetto nega il soggetto perché è il suo opposto, è ciò che il soggetto non è. Perciò questo porre non è ancora lo scopo stesso realizzato, ma è soltanto il cominciamento per realizzarlo. L’oggetto così determinato è soltanto il mezzo. Questo oggetto, che io pongo e che si contrappone al soggetto, se lo lascio permanere come prima negazione – la prima negazione è l’opposto; la seconda negazione è il togliere l’opposto, che si integra attraverso l’Aufhebung – se io lascio questa opposizione tra soggetto e oggetto, l’oggetto che mi rimane, non essendo integrato nel soggetto, non ha raggiunto il suo scopo, non si è determinato in se stesso in quanto soggetto; quindi, dice Hegel, resta soltanto come mezzo. Infatti, dice, questo porre non è ancora lo scopo stesso realizzato, ma è soltanto il cominciamento per realizzarlo, ci vuole l’altra negazione, cioè l’oggetto deve essere tolto. A pag. 845. Il mezzo è quindi il termine medio formale di un sillogismo formale; è un che di esteriore rispetto all’estremo dello scopo soggettivo, come quindi anche rispetto all’estremo dello scopo oggettivo, a quel modo che nel sillogismo formale la particolarità è un medius terminus indifferente, al posto del quale ne possono stare anche altri. Come abbiamo già visto nel sillogismo degli apostoli: posso dire che sono apostoli, che sono morti, o infinite altre cose: in base a ciò che stabilisco come medio avrò sillogismi differenti ma tutti validi. A pag. 847, Lo scopo realizzato. Nel suo riferirsi al mezzo lo scopo è già riflesso in sé; ma non è ancora posto il suo ritorno oggettivo in sé. L’attività dello scopo attraverso il suo mezzo è indirizzata ancora contro l’oggettività come presupposizione primitiva; essa è appunto questo, di essere indifferente alla determinatezza. Quando l’attività consistesse daccapo semplicemente nel determinare l’oggettività immediata, il prodotto non sarebbe daccapo che un mezzo, e così via all’infinito; ne verrebbe fuori soltanto un mezzo idoneo allo scopo, ma non l’oggettività dello scopo stesso. è idoneo, certo, ma soltanto se consento all’oggetto di riflettersi su di sé; se lo lascio separato dal soggetto, rimane un mezzo. Lo scopo operante nel suo mezzo non deve quindi determinare come un estrinseco l’oggetto immediato,… Non deve mantenerlo come un oggetto estrinseco. …epperò questo deve fondersi per se stesso a unità del concetto; ossia quella esteriore attività dello scopo attraverso il suo mezzo deve determinarsi come mediazione e toglier se stessa. A questo punto l’oggetto viene determinato come lo scopo raggiunto. A pag. 850. Si può dir quindi dell’attività teleologica che in essa la fine è il cominciamento, la conseguenza è la ragion d’essere, l’effetto è la causa, ch’essa è un divenire del divenuto, che in lei giunge all’esistenza soltanto quello che già esiste, ecc., vale a dire, che tutte in generale quelle determinazioni di rapporto, che appartengono alla sfera della riflessione o dell’immediato essere, hanno perduto le loro differenze, e che quello che viene enunciato quale un altro, come la fine, la conseguenza, l’effetto, ecc., nella relazione dello scopo non ha più la determinazione di un altro, ma è anzi posto come identico col semplice concetto. Tutto questo nel momento in cui l’oggetto ritorna sul soggetto. A pag. 851. In quanto così essi sono posti come diversi, fra questa oggettività e lo scopo soggettivo deve essere inserito un mezzo della loro relazione. Ma questo mezzo è anch’esso un oggetto già determinato dallo scopo… Ovviamente, perché il medio si riferisce tanto all’individuo quanto all’oggetto, cioè all’universale. …fra la cui oggettività e determinazione teleologica occorre inserire un nuovo mezzo, e così via all’infinito. Con ciò è posto il progresso infinito della mediazione. Questo potrebbe essere una definizione della tecnica: il progresso infinito della mediazione. Lo stesso si verifica riguardo all’altra premessa, cioè alla relazione del mezzo verso l’oggetto ancora indeterminato. Poiché sono assolutamente indipendenti, non possono essere uniti che in un terzo, e così via all’infinito. Finché li mantengo indipendenti avrò sempre bisogno di un terzo che li connetta. La conclusione, ossia il prodotto dell’operare teleologico, non è se non un oggetto determinato da uno scopo a lei estrinseco; è così lo stesso che il mezzo. È un oggetto determinato da uno scopo estrinseco: il mezzo è questo, non ha uno scopo in sé, è qualcosa che serve a un’altra cosa. In un tal prodotto stesso è quindi venuto fuori soltanto un mezzo, non uno scopo realizzato, ossia lo scopo ha veramente raggiunto costì alcuna oggettività. Perciò è del tutto indifferente di considerare un oggetto determinato dallo scopo esterno come scopo realizzato, oppure soltanto come mezzo. Cotesta è una determinazione relativa, estrinseca all’oggetto stesso, non una determinazione oggettiva. Tutti gli oggetti dunque, nei quali è realizzato uno scopo esterno, non sono parimenti che mezzi dello scopo. Badate bene, Tutti gli oggetti dunque, nei quali è realizzato uno scopo esterno rimangono mezzi. Uno scopo esterno, cioè che sia estrinseco a questo movimento di riflessione del concetto, dell’oggetto, su se stesso.

Intervento: Più andiamo avanti e più mi rendo conto della definizione di scienza, che è quella che aveva già data nella Fenomenologia.

Sì, è il prodotto di un sillogismo formale. A pag. 855. Ma questa riflessione, che nel mezzo è raggiunto lo scopo e che nello scopo adempiuto son conservati il mezzo e la mediazione, è l’ultimo risultato della finalità esteriore, nel quale questa stessa si è tolta e ch’essa ha mostrato come sua verità. Il mezzo, la mediazione, e lo scopo sono diventati lo stesso. Dice che è l’ultimo risultato della finalità esteriore; naturalmente, manca ancora l’ultimo passo. Il terzo sillogismo considerato in ultimo si distingue per ciò ch’esso è anzitutto l’attività finale soggettiva dei sillogismi precedenti, ma anche il togliere dell’oggettività esteriore e così dell’esteriorità in generale mediante se stessa, e pertanto la totalità nel suo esser posta. Il sillogismo analogico è quello che compie il movimento dei tre sillogismi riportando il terzo al primo, perché il terzo si pone a fondamento del primo e senza il quale il primo non c’è; ma senza il primo non c’è neanche il terzo, e così vale anche per il secondo, ovviamente. Dopo che ora abbiamo veduto passare la soggettività, l’esser per sé del concetto, nel suo essere in sé, cioè nell’oggettività, si è poi di nuovo manifestata in quest’ultima la negatività dell’esser per sé del concetto. La soggettività, cioè l’esser per sé del concetto, torna nel suo essere in sé. Naturalmente, per tornare nel suo essere in sé deve togliere il per sé, deve togliere l’oggetto. Dice nel suo essere in sé, cioè nell’oggettività, perché soltanto togliendo il per sé, l’oggetto in quanto oggetto esterno, allora il soggetto si fa oggetto, diventa oggetto, ma in quanto oggetto determinato a questo punto diventa individuo, quindi, soggetto. Questo vi si è determinato in modo che la sua particolarità è oggettività esteriore, ossia vi si è determinato come la semplice unità concreta la cui esteriorità è l’autodeterminarsi di essa. Questa è l’esteriorità a questo punto del concetto, è la sua propria autodeterminazione. Il movimento dello scopo ha raggiunto ora questo, che il momento dell’esteriorità non soltanto è posto nel concetto,… Quindi, l’esteriorità è stata “assorbita”, per cui è stata tolta, l’oggetto è stato tolto, tolto perché si è riflettuto sul soggetto. …che questo non è soltanto un dover essere e un tendere, ma come totalità concreta è identico coll’oggettività immediata. Questa identità è da un lato il semplice concetto e la parimenti immediata oggettività, ma dall’altro lato è altrettanto essenzialmente mediazione, e solo per essa, in quanto mediazione che toglie se stessa, è quella semplice immediatezza. Non c’è più la mediazione, l’Aufhebung, l’integrazione di soggetto e oggetto, potremmo dire così, non ha più bisogno del mezzo. Il mezzo è il medio del sillogismo, medio che nel primo sillogismo connette l’individuo con l’universale (I-P-U). Nel momento in cui lo scopo è in atto il medio non ha più da essere, lo scopo è raggiunto. Il medio continua a essere se lo scopo non è raggiunto, in quel caso c’è una iperproduzione di mezzi. Il concetto è così essenzialmente un esser distinto, come identità che è per sé, dalla sua oggettività che è in sé, e un aver per questa via un’esteriorità: ma, in questa totalità esteriore, è l’autodeterminantesi identità della totalità stessa. Così il concetto è ora l’Idea. Badate bene, in questa totalità esteriore, è l’autodeterminantesi identità della totalità stessa, che non è niente altro che l’autoprodursi del linguaggio, dove esteriorità e interiorità sono lo stesso, così come il soggetto e l’oggetto. Il soggetto sarebbe l’interiorità e l’oggetto l’esteriorità, ma, come sappiamo, non può darsi l’uno senza l’altro. È questo il percorso che aveva fatto dal sillogismo, che adesso ha un senso in più, nel senso che l’averci avvertiti che i tre sillogismi sono uno ci dice che questo movimento fra i tre sillogismi, che li rende uno, è lo stesso movimento fra soggetto e oggetto. Ciascuno di questi tre sillogismi non può esistere senza gli altri, il soggetto non può darsi senza l’oggetto, e viceversa. L’Idea per Hegel è l’assoluto, l’intero, il tutto, il concreto, è il linguaggio, ma è il linguaggio che sa di se stesso.

Intervento: …

Hegel non tiene conto di questo fatto, ma lo aveva fatto indirettamente altrove. È una questione interessante perché tutte le operazioni che Hegel fa per giungere alle sue conclusioni sono operazioni che procedono da sillogismi formali. Il sillogismo formale non è qualche cosa di negativo che deve essere tolto, ma è ciò attraverso cui il linguaggio funziona. Naturalmente, il sillogismo formale non può che costruire giudizi ininterrottamente, noi non possiamo non formulare giudizi ininterrottamente, non possiamo evitare il sillogismo formale. È il sillogismo formale che ci pilota, che ci fa giungere alle conclusioni. Lo stesso Hegel non lo dice, avrebbe dovuto dire che tutte queste conclusioni, che questo articolare la questione in modo eccelso è possibile grazie al sillogismo formale. Questo perché il sillogismo compiuto non è un giudizio che consenta di stabilire come stanno le cose; il sillogismo compiuto dice soltanto che il sillogismo è quello che è, cioè un sillogismo. Non può aggiungere altro perché, una volta che l’oggetto è tornato sul soggetto determinandolo, questo soggetto è se stesso, così come fa l’essenza quando torna sull’essere: determina, sì, l’essere ma come nulla, non va oltre. Per andare oltre ci vuole il sillogismo formale, il quale costruisce, così come l’analogia, considerata retoricamente come un’argomentazione creativa, perché crea continuamente cose, che non sono né vere né false.

Intervento: …

Il sillogismo deduttivo, che logicamente è ritenuto quello più stringente, di fatto è fondato su nulla, è fondato sull’induzione. E l’induzione, da dove arriva? Hegel dice dalla analogia: pare che le cose stiano così.

Intervento: …

Non proprio, perché non è che propriamente produca una conoscenza. Questo ritorno è semplicemente una determinazione del soggetto. È esattamente come il ritornare del significato sul significante, non è che sia una pratica conoscitiva, semplicemente da quel momento il significante è quello che è, lo determina, non fa nient’altro che questo. Poi, una volta determinato, lo uso nei sillogismi forali, lo uso per costruire tutti quegli animali fantastici, così li chiamavo la volta scorsa seguendo Borges, che sono i giudizi che formuliamo continuamente, sono animali fantastici, che non hanno nulla di logico. Qui uso “logico” nell’accezione corrente del termine, cioè come l’idea che esista una struttura che consente, se eseguita correttamente, di giungere al vero. La logica di cui parla Hegel ha poco a che fare con questo. Scienza della logica è la scienza della parola in definitiva, cioè un sapere del lògos, un sapere sul lògos acquisito dal lògos stesso, dal modo in cui il lògos si mostra, funziona. Occorre distinguere tra ciò che Hegel descrive come determinazione di qualcosa – ad esempio, l’essere che viene determinato in quanto essere attraverso il non essere – e, invece, i giudizi, gli animali fantastici. Sono due cose differenti: il primo è ciò che non può non essere, cioè parlo dell’essere ma quando parlo dell’essere devo sapere che cos’è l’essere, e che cos’è l’essere? Come lo determino se non togliendo tutto ciò che l’essere non è, e che cos’è che non è? È il non essere. Quindi, il non essere è ciò che mi consente di determinare l’essere in quanto nulla. È un aspetto importante questo, e cioè il mantenere una consapevolezza che ciascun giudizio è sempre un animale fantastico, il cui unico scopo è quello di produrre altri giudizi. Come la tecnica, il cui unico scopo è produrre all’infinito altri strumenti, in vista di uno scopo che non può raggiungere mai, perché non si potrà mai determinare. Ma avremo modo di tornare su tutto ciò quando parleremo dell’Idea.