12-8-2015
Questa sera considereremo due capitoli del testo Nietzsche di Heidegger. Il primo si chiama Il principio di non contraddizione come principio dell’Essere. La presa di posizione di Nietzsche nei confronti del principio di non contraddizione in conformità con lo stile corrente delle sue discussioni sull’essenza del pensare, della ragione e della verità, ha la forma seguente: se il principio di non contraddizione è il principio supremo fra tutti i principi allora, e proprio allora, bisogna domandare “quali affermazioni esso in fondo presupponga già”. A questa domanda, che qui Nietzsche ingiunge di porre, si è già da tempo risposto a opera di Aristotele e in maniera talmente decisa che ciò che Nietzsche chiede costituisce per Aristotele l’unico contenuto di questo principio, infatti secondo Aristotele, il principio dice qualcosa di essenziale sull’ente in quanto tale, che ogni essere assente rimane estraneo all’essere presente, perché esso strappa l’essere presente portandolo alla sua non essenza, pone così l’instabilità, distrugge l’essenza dell’essere (che è l’argomentazione che faceva Severino, e cioè se c’è l’essere non può darsi il non essere, perché se si desse il non essere allora l’essere sarebbe anche il non essere, e questo crea un problema perché a questo punto è come se l’essere, torno a dire in qualunque modo lo si voglia accogliere, avrebbe come contropartita il non essere, e questo non essere che cosa fa propriamente? Dice che c’è la possibilità che l’essere non sia, ma se c’è questa possibilità allora l’essere è essere ma anche non essere, e cioè è una contraddizione insostenibile) ma l’essere ha la sua essenza nell’essere presente e nella stabilità, (punto l’accento su questa nozione di “stabilità” perché la riprenderà ed è molto importante) per ciò anche i riguardi, secondo i quali un ente deve essere rappresentato in quanto ente, devono tenere conto di questo essere presente e di questa stabilità mediante lo ¤ma (¤ma in greco è “contemporaneamente” “nello stesso tempo”) e mediante il cat¦ tÕ aÙtÒ “rispetto alla stessa cosa” (quindi contemporaneamente e rispetto alla stessa cosa, ricordate che per Aristotele il principio di non contraddizione afferma che un qualche cosa non può essere affermato e negato per lo stesso riguardo e nello stesso momento, cosa che poi invece Severino articola differentemente, poiché anche se non è nello stesso riguardo e nello stesso momento comunque la questione della contraddizione rimane insanabile) ciò che è presente, stabile viene necessariamente mancato in quanto tale se il suo essere presente, la sua presenza, vengono ignorati considerando un altro punto nel tempo, e se la sua stabilità viene trascurata considerando qualcosa di instabile (questo elemento “stabilità” è importante qui per Heidegger ma anche per Nietzsche, perché ciò che è stabile è ciò che è identico a sé, ciò che non è altro da sé, e la stabilità dell’ente è la condizione per la sua conoscenza, perché se l’ente non avesse questa stabilità, che non è altro che l’essere identico a sé, non sarebbe conoscibile, ciò non di meno Nietzsche, ricorda Heidegger, pone un fortissimo accento sul divenire quindi si tratta, lo vedremo fra poco, di risolvere il problema della “stabilità” cioè dell’identità in relazione al divenire) Se questo accade (cioè fosse instabile) si arriva allora ad affermare e negare di un ente la stessa cosa, (perché se non è stabile vuol dire che afferma che l’ente è quello che è ma anche altre cose compreso il non essere quello che è) l’uomo può affermare e negare di un ente la stessa cosa, l’uomo può senz’altro mettere in atto una cosa simile, può contraddirsi, ma se l’uomo si mantiene in una contraddizione, l’impossibile non consiste nel fatto che vengono messi insieme il sì e il no, bensì nel fatto che l’uomo si esclude dal rappresentare l’ente in quanto tale e dimentica che cosa vuole propriamente cogliere nel suo sì e nel suo no, (qui vedete già gli accenni di argomentazioni di Severino, occorre che se dice sì a qualche cosa questo qualche cosa sia quello che è, la stessa cosa se dice di no, perché se questa cosa non è stabile, non è quella che è, dice di sì o di no a che cosa? A niente) mediante affermazioni contraddittorie che l’uomo può avanzare indisturbato in merito alla stessa cosa egli fuoriesce dalla sua essenza e si pone nella non essenza, scioglie il riferimento all’ente in quanto tale (questo, dice Heidegger, è ciò che accade quando qualcuno si contraddice, come dicevano gli antichi “ex falso quodlibet “ cioè dal falso si può dedurre qualsiasi cosa e il suo contrario, lo chiamavano lo “pseudo Scoto”: se, A e non A, allora qualunque cosa e il suo contrario) questa caduta nella non essenza di se stesso (riferito all’ente) ha il suo aspetto inquietante nel fatto che si presenta sempre come qualcosa di innocuo, ché gli affari, i divertimenti continuano esattamente come prima, che non è poi tanto importante che cosa e come si pensi finché un giorno ecco la catastrofe, un giorno che forse ha bisogno di secoli per spuntare dalla notte della crescente spensieratezza Nietzsche sa che il principio di non contraddizione è un principio sull’essere dell’ente (il principio di non contraddizione dice semplicemente che l’ente è quello che è) non sa però che questa concezione del principio di non contraddizione fu enunciata proprio dal pensatore che pose e concepì per la prima volta in modo completo questo principio come un principio dell’essere, se l’ignoranza di Nietzsche fosse soltanto una svista storica non dovremmo allora prenderne ulteriormente nota ma essa significa un’altra cosa che Nietzsche misconosce il fondamento storico della propria interpretazione dell’ente e non calibra la portata delle sue prese di posizioni e non è così in grado di stabilire la propria posizione, sicché non può nemmeno cogliere la parte avversa che intende cogliere e che a tal fine deve essere prima capita e attaccata partendo dalla sua posizione più propria, (sta dicendo che Nietzsche sembra ignorare il principio di non contraddizione, ma se ignora il principio di non contraddizione anche la sua posizione rispetto a quello che afferma è una posizione evanescente, è, come diceva prima, dire sì o no a qualche cosa, ma per poterlo fare occorre che questo qualche cosa, al quale si dice di sì o di no, sia quello che è) Aristotele pensava certo in modo greco, l’essere era direttamente scorto nella sua essenza in quanto presenza, (è da qui che viene poi tutta l’elaborazione di Heidegger, come sapete, rispetto all’λήθεια, rispetto all’Essere che si manifesta) scorgere semplicemente l’essere dell’ente, questa sua essenza in quanto οὐσία, ἐnšrgeia e ™ntelšceia (rispettivamente sostanza, energia e l’unione di potenza e atto) e dire ciò che è così scorto, dicendolo porlo lì, gli era sufficiente (si riferisce sempre ad Aristotele) in quanto i pensatori greci sapevano che l’essere, l’essenza dell’ente, non può mai essere estratta e ancorata in base all’ente lì presente ma che in quanto ιδša (di Platone) deve piuttosto mostrarsi da sé, e che anche allora è accessibile soltanto a uno scorgere corrispondente da allora (rispetto sempre al principio di non contraddizione di Aristotele sottointeso) non è stato compiuto alcun passo oltre lo spazio che i greci per primi conquistarono, è proprio del mistero del primo inizio di gettare tanta chiarezza intorno a sé che non c’è bisogno di uno zoppicante schiarimento successivo (qui sta parlando a favore dei greci e contro tutti quelli che hanno fatto loro seguito) ciò vuol dire al tempo stesso qualora per una necessità storica reale dell’uomo occidentale debba rendersi necessario di pensare in modo più originario l’essere, questo pensiero può avvenire soltanto nel confronto del primo inizio del pensiero occidentale (qui c’è tutto Heidegger, anche se c’è ancora un richiamo a Husserl, era Husserl che diceva che il malanno del discorso occidentale, è quello di avere abbandonato il progetto iniziale partito dai greci da Aristotele, Platone, cosa che invece per Heidegger, ma anche per lo stesso Nietzsche non è affatto in questi termini, è proprio Platone ad avere incominciato la metafisica quindi è da Platone che sono incominciati i “guai” tra virgolette, cioè gli umani hanno incominciato a pensare in modo metafisico e cioè che una qualunque cosa avesse la sua verità al di fuori di sé) Nietzsche, più di ogni altro pensatore metafisico prima di lui, si è avvicinato più direttamente all’essenza della grecità (non bisogna dimenticare che Nietzsche era un filologo che si occupava di filologia greca, quindi non solo conosceva il greco alla perfezione ma conosceva anche molto bene il pensiero dei primi greci) e poiché egli pensa al tempo stesso senz’altro e nella più rigorosa coerenza in modo moderno sembrerebbe che nel suo pensiero si attui il confronto con l’inizio del pensiero occidentale, ma in quanto è ancora moderno, tale confronto non è però ancora il confronto summenzionato (e cioè con il pensiero più proprio del pensiero antico) ma diventa inevitabilmente un mero rovesciamento del pensiero greco, con il rovesciamento, Nietzsche, si inviluppa in modo ancora più definitivo in ciò che è rovesciato, non si arriva a un confronto alla fondazione di una posizione di fondo che fuori esca da quella iniziale, in modo tale da non gettarla via ma da lasciare che si erga nella sua unicità e vincolanza, per sollevarsi attenendosi a essa (vedete per Nietzsche, il rovesciamento nei confronti dal pensiero platonico che poneva l’ente “sensibile” come un qualche cosa di apparente, di falso perché non aveva in sé la verità, la verità sta nell’“idea”: questa cosa è un ente al pari di qualunque altro, ora questa cosa ha delle proprietà diverse da quelle proprietà di quell’altra cosa, quindi questo non è quello, ma è l’idea, un’idea che io ho di questa cosa, che mi sono già pre-costituito ovviamente, ora questa “idea” per Platone stava nell’iperuranio e va bene, però è l’idea che dà la certezza che ciò che io sto vedendo, sto toccando è quello che è, perché è la mia idea di questa cosa, se no non saprei dire che cos’è, non saprei riconoscerla, non saprei niente, non saprei qual è la verità di questo oggetto, la verità sta nell’idea. Nietzsche capovolge il tutto e dice non è più l’idea l’elemento portante, ciò che garantisce la verità, ma è l’ente, l’ente che io ho sotto gli occhi, è l’unica cosa con cui ho a che fare, la cosa sensibile è l’unica cosa con cui ho a che fare, e quindi la verità sta nell’ente, l’idea che io ho è invece qualche cosa di falso perché io questa idea di un qualche cosa non c’è da qualche parte, è una costruzione, una fantasia. Questo è il rovesciamento che fa Nietzsche. Ora il secondo capitolo, la cosa più essenziale la dice già il titolo “Il principio di non contraddizione come comando” e questo ci riguarda) Nietzsche sa che nel principio di non contraddizione è presupposta una tesi sull’ente in quanto tale, ma non sa che questa presupposizione è l’unica vera e propria posizione di questo principio messa in atto da Aristotele. È presupposta una tesi sull’ente (se io dico che una cosa è quella che è e non può essere ciò che non è, ho già in mente un qualche cosa, il qualche cosa che è quello che è, ma come faccio a saperlo?) se Nietzsche spinge così decisamente a indagare ciò che è presupposto (perché Nietzsche sta dicendo che nel principio di non contraddizione si presuppone qualche cosa che evidentemente è fuori dal principio di non contraddizione, che ne è la condizione, senza la quale il principio di non contraddizione non esisterebbe) allora deve egli stesso domandare in questa direzione (cioè del presupposto) deve chiarire che cosa viene detto sull’ente, se è vero che la presupposizione del principio di non contraddizione consiste in una decisione sull’ente (questo è importante perché Heidegger ci sta dicendo che Nietzsche deve chiarire che cosa viene detto sull’ente nel principio di non contraddizione perché sia una presupposizione) se non che Nietzsche non domanda che cosa venga stabilito sull’ente in questa presupposizione, infatti l’aspetto vero del principio non può stare per lui in ciò che il principio contiene (cioè la contraddizione) ma consiste nel modo in cui questo principio è un tenere-per-vero (Heidegger mette i trattini quando la frase deve essere presa nell’insieme) nel modo in cui esso pone ciò che è da esso posto, lo tiene-per-vero (adesso vedremo che cosa significa “tenere-per-vero”. Sta dicendo forse, che perché il principio di non contraddizione operi quello che deve operare, io devo credere nel principio di non contraddizione? Forse, adesso vediamo) pertanto Nietzsche si domanda se sia mai possibile una tale posizione che stabilisce che cosa è nell’essenza l’ente e se sì, quale sia l’unico carattere che essa può avere, solo connotando il carattere di posizione, della posizione che costituisce la presupposizione del principio di non contraddizione viene capito nella sua essenza, nel senso di Nietzsche il “tenere-per-vero” che si esprime nel principio di non contraddizione, il capoverso decisivo nel brano 516 recita pertanto (questo è Nietzsche che parla sempre dalla raccolta di scritti “La volontà di potenza”:) in breve la questione rimane aperta, gli assiomi logici sono adeguati al reale o sono criteri e mezzi per creare il reale, il concetto di realtà per noi? Per potere affermare la prima cosa (cioè se sono adeguati al reale) occorrerebbe però come si è detto conoscere già l’ente, (se no come faccio a sapere che qualcosa è adeguato a qualcosa, se non so nulla di questo qualcosa?) il che assolutamente non è, il principio non contiene quindi un criterio di verità ma un imperativo circa ciò che deve valere come vero. Con questo Nietzsche afferma sì la possibilità di una posizione che stabilisca come l’ente vada concepito nella sua essenza (cioè va concepito come lo ha appena detto, come una creazione) Ma questa posizione non poggia sul fatto che il rappresentare e il pensare si commisurano all’ente per desumerne quale sia l’essenza dell’ente (se è una creazione, come posso fare a mettere l’ente come ciò su cui si appoggia tutto? Occorrerebbe che fosse vero di per sé, ma è esattamente ciò che ha appena detto che non è, ed è vero di per sé se accogliamo il principio di non contraddizione che nega che non sia quello che è, ma se il principio di non contraddizione non è un criterio di verità, come dice lui, ma un imperativo, che cosa “deve” valere come vero? Il discorso si fa molto più complicato) per farlo dovremmo già sapere in che cosa consiste l’essenza dell’ente e la successiva commisurazione e costatazione diventerebbero superflue, dovremmo già sapere che cos’è l’ente ma, a questo punto, se sappiamo esattamente che cos’è sappiamo anche che è vero (per questo dice che diventerebbero superflue tutte le considerazioni successive) il principio di non contraddizione non è una commisurazione alla realtà in qualche modo coglibile ma è esso stesso posizione di misura (“posizione di misura” significa che è il principio di non contraddizione che dice che cosa deve valere come vero e che cosa no) il principio soltanto da l’indicazione di che cosa deve valere come essente, esprime un dover essere, è un imperativo (porre il principio di non contraddizione come un imperativo, lo pone molto vicino a quello che abbiamo detto e diciamo da molto tempo, e cioè che si tratta soltanto di un comando, lui lo dice in modo esplicito “” ma aggiunge che il principio di non contraddizione che sembra il criterio primo per la verità, questo è soltanto un comando che dice, di fatto, come dovrò usare un certo ente, se lo dovrò usare come vero, come falso) questa interpretazione del principio di non contraddizione, la sua discussione ci conducono nell’essenza più intima del tenere-per-vero, infatti se la verità non può essere una commisurazione riproduttiva (non è un adæquatio rei et intellectus) e se deve essere un tenere-per-tale, a che cosa deve attenersi quest’ultimo? Non si espone esso stesso, privo di ogni misura e di ogni sostegno, all’infondatezza del proprio arbitrio? (dice: ma a questo punto se le cose stanno così, se è solo un comando e questo comando non ha nulla dietro di lui, allora non c’è nulla dietro a nulla, cioè è il nichilismo più devastante) Il tenere-per-vero ha quindi bisogno in sé e per sé di un metro che indichi che cosa deve essere tenuto per essente, ossia per vero, in quanto però il tenere-per-vero non dipende che da sé (perché è un comando che non ha nulla dietro di sé) questo metro non può scaturire che da un più originario tenere-per-tale ciò che da sé propone, e deve valere come essente e come vero (sta dicendo che pare proprio così, cioè il comando, come qualunque comando, dietro di sé non ha nulla, quindi il tenere-per-vero dice non dipende più da sé, però ci deve essere un qualche cosa che decide che le cose vadano a questa maniera, infatti si chiede) donde prende la sua legge questa originaria posizione di un parametro? (e adesso ci dirà perché, cosa che non scalfisce la posizione nichilistica assoluta, però aggiunge un elemento che è lo stesso che abbiamo aggiunto noi per altro) È un cieco caso messo in atto ad un certo momento da qualcuno, e che da allora sul fondamento di questa fattualità è vincolante? No, perché in tal caso ci sarebbe surrettiziamente insinuata di nuovo ma solo in forma mutata la definizione essenziale dell’essere mediante il capzioso richiamo a un ente già sussistente e assicurato come tale (qualunque cosa mettiamo come garanzia è un altro ente che noi poniamo come sicuro, come identico a sé, come certo, e con questo Nietzsche deve fare i conti e li fa, vediamo in che modo) L’ente sarebbe in questo caso il principio (Satz) ma l’essenza di questo principio si determina in base al tipo di posizione che in esso si impone, la posizione insita nel principio di non contraddizione di un parametro per stabilire ciò che deve valere come essente è un imperativo, dunque un comando, con ciò veniamo inviati in una regione completamente diversa (dice che non c’è niente da fare, se noi cerchiamo, vediamo un ente che sia a garanzia, un qualunque cosa che garantisca che questo comando sia retto, giusto, necessario torniamo all’esistenza di un altro ente e siamo daccapo) eppure a maggior ragione dobbiamo ora rivolgere a Nietzsche la domanda “chi comanda qui? E a chi?” Donde mai e come mai si giunge nell’ambito del pensiero, del conoscere, della verità a dei comandi? A ciò che ha carattere di comando? Vediamo per ora solo questo, se il principio di non contraddizione è il principio supremo del tenere-per-vero, se come tale esso regge e rende possibile l’essenza del tenere-per-vero, (non soltanto il principio di non contraddizione è il tenere per vero qualche cosa, ma è anche la condizione per potere tenere-per-vero qualche cosa, sta dicendo questo) allora l’essenza della conoscenza ha nel suo intimo il carattere essenziale del comando. (I comandi: c’è una tastiera, si digitano i comandi, e la macchina li esegue) Il conoscere tuttavia in quanto rappresentare l’ente (il conoscere rappresenta l’ente, quando dico che conosco qualche cosa vuole dire che me lo so rappresentare) ciò che è costante in quanto assicurazione della sussistenza, è una disposizione essenziale necessaria della vita stessa (il conoscere perché sia tale ha bisogno di qualcosa che sussista, e cioè sia quello che è) ora l’assicurazione della sussistenza della vita umana si attua di conseguenza in una decisione in merito a che cosa deve in genere valere come essente, in merito a che cosa deve chiamarsi “Essere” (cioè non più che cosa è l’Essere ma cosa deve chiamarsi “Essere” per continuare a fare quello che facciamo) come avviene questa decisione? Si attua stabilendo una definizione dell’Essere o spiegando il significato della parola “Essere”? lungi da ciò, quell’atto fondamentale e perciò la componente essenziale dell’assicurazione della sussistenza consiste nel fatto che esso traspone l’essere vivente uomo nella traiettoria di una prospettiva sull’ente e ve lo mantiene in cammino (sta dicendo che questo atto fondamentale che assicura la sussistenza, l’atto fondamentale che assicura la sussistenza è quello che pone l’Essere, cioè pone le cose come stanno, se so come stanno posso manipolarle, gestirle eccetera) l’atto fondamentale di una fondazione di una prospettiva si compie rappresentando ciò che il principio di non contraddizione enuncia solo a posteriori in termini di proposizione, ora non possiamo più prendere il principio come un assioma evidente in sé valido ma dobbiamo prendere sul serio il suo carattere di posizione (la posizione non è altro che essere un comando) il principio è un comando. Anche se ancora non sappiamo come vada inteso questo carattere di comando nella sua provenienza essenziale da quanto detto finora si possono già ricavare e mettere in rilievo quattro punti, quasi a formare un gradino sul quale saliamo un passo più alti, per prendere possesso dell’intima visione della piena essenza della verità. 1) si profila ora in termini più chiari in quale senso la conoscenza sia necessaria per la vita, in un primo momento e soprattutto stando anche alla lettera più immediata delle affermazioni nietzschiane, sembrava che la conoscenza in quanto assicurazione della sussistenza fosse imposta all’essere vivente dal di fuori, poiché essa porta all’essere vivente una lotta per l’esistenza, un utile e un successo (sta dicendo che abbiamo posto l’Essere come comando, ma a che scopo? Per poterlo utilizzare nella nostra vita quotidiana) è vero che abbastanza di frequente nella lettera delle sue affermazioni (di Nietzsche) tanto spesso necessariamente esagerate Nietzsche sfiora la più abituale di tutte le opinioni cioè che qualcosa sarebbe vero perché e nella misura in cui è utile in tanto conclamata vita, ma la lettera di quanto afferma Nietzsche vuol dire qualcosa di affatto diverso (cioè di assolutamente diverso) l’assicurazione della sussistenza (considerata nell’accezione più comune, cioè assicurarsi la possibilità di continuare a vivere) non è necessaria perché ne scaturisce un utile ma la conoscenza è necessaria per la vita perché il conoscere in sé, e di per sé, fa scaturire e porta a compimento una necessità, perché il conoscere è in sé comandare, e deve comandare perché proviene da un comando. (ci sta dicendo una cosa fondamentale che forse è la più importante di tutte: si assicura la sussistenza e quindi la conoscenza per potersi garantire la sussistenza, non perché questa sia utile alla propria sussistenza, ma per potere comandare, è per questo che gli umani sono affamati, assetati di sapere, di conoscenza, per governare, non per continuare a vivere, tant’è che in alcuni casi le persone abbandonano il “proprio” tra virgolette istinto di conservazione, per potere imporre la propria volontà, si uccidono per avere ragione, per comandare e continuano e continuerà ancora. Quindi tenete conto di questo aspetto fondamentale) 2) come dobbiamo rendere comprensibile in base a quanto finora esposto il carattere di comando del conoscere? L’interpretazione del principio di non contraddizione ha dato questo risultato il tracciare l’orizzonte che dà la misura, la definizione che ciò che significa ente, di ciò che per così dire, circoscrive la cerchia di ogni singolo ente, il tracciare questo orizzonte è un imperativo. (L’interpretazione di questo principio primo ci dice questo: il tracciare l’orizzonte, “tracciare” letteralmente, costituire una limitazione al proprio “spazio vitale” tra virgolette, non viene né dall’ente né da altre necessità ma è un imperativo, un imperativo che dice che questo è il mio orizzonte. Qui ci sarebbe da fare una lunga discussione sul modo in cui Heidegger pone la questione dell’ “orizzonte”, per Heidegger non è un imperativo, l’orizzonte si traccia per via del fatto che è l’Essere che lo traccia, manifestandosi quando qualcuno “ascolta” l’Essere, cioè si mette in quella disposizione per cui è disponibile ad accogliere l’Essere, è diverso porlo come un comando, un imperativo) Come si concilia ciò con quella che in precedenza (nel brano prima citato) è risultata essere l’essenza della ragione cioè con il carattere inventivo del conoscere? Comandare e inventare, il comando e il formare in un libero gioco, non si escludono forse come l’acqua e il fuoco? Forse, (“forse” dice Heidegger) anzi certamente fintanto che i nostri concetti del comandare e dell’inventare si fermano all’accezione più nota e corrente, in tal caso parliamo infatti di comandare già quando viene semplicemente trasmesso un così detto “comando” (tra virgolette per indicare l’accezione comune del termine) che forse si chiama soltanto così ma che non è tale se noi cogliamo il comandare nella sua essenza e lo ritroviamo soltanto là dove una possibilità di comportamento e di portamento viene prima elevata a legge, viene creata come legge allora la parola “comando” non significa solo l’annuncio di una richiesta e l’esigenza del suo adempimento (come il comando militare, dove io enuncio una richiesta, esigo l’adempimento) “comandare” è ancor prima l’avanzare e l’osare questa richiesta, la scoperta della sua essenza che sola crea la richiesta medesima e la posizione del suo diritto, questo “comandare” inteso in senso essenziale è sempre più difficile dall’obbedire, nel senso dell’attenersi al comando già dato, l’autentico comandare (badate che si riferisce al comando che è quello che genera la verità dell’ente, anzi, genera l’ente) l’autentico comandare è un obbedire al cospetto di ciò che vuole essere assunto in libera responsabilità, se non addirittura prima creato, il comandare essenziale pone prima di tutto la direzione e il fine, il comandare come annuncio di una richiesta già avanzata e comandare come istituzione di questa richiesta e come assunzione della decisione che vi è insita, sono fondamentalmente diversi (dice che sono due modi di comandare totalmente differenti e qui pone la questione della libertà perché dice) il comandare e il saper comandare originari scaturiscono sempre e soltanto da una libertà (soltanto se uno è libero, però dovete pensare questa “libertà” nell’accezione nietzscheana del termine, “libero” dalla metafisica) sono essi stessi una forma fondamentale dell’autentico essere libero, la libertà in sé, è, in sé nel senso semplice e profondo in cui Kant concepì la sua essenza “inventare” (qui sta cercando di mettere insieme le due cose “comandare” e la “libera creazione” , perché se uno comanda l’altro non è libero di creare) inventare: il fondare senza fondamenti un fondamento in modo tale che essa si dia da sé la legge della sua essenza, il comandare non vuol dire nient’altro (questa è capitale, ve la rileggo “inventare: il fondare senza fondamento un fondamento, in modo tale che essa si dia da sé la legge della sua essenza, il comandare non vuol dire nient’altro.” Più esplicito di così non poteva essere, qui non è Nietzsche ma è Heidegger che parla intendendo il messaggio di Nietzsche: fondare un fondamento senza fondamenti è letteralmente l’inventare, creare il porre qualche cosa dicendo “questo è il fondamento” perché? perché sì. Questo è il comandare, imporre un fondamento. Qui non sta dicendo il comandare a qualcuno ovviamente, ma comandare all’ente di essere quello che è, e lo sta comandando senza che ci sia nessun fondamento né nell’ente, né in questo comando) La duplice indicazione sul carattere di comando e di invenzione della conoscenza rimanda perciò a un fondamento essenziale e unitario semplice, celato nel tenere-per-vero della verità. (qui torniamo al “tenere-per-vero”) 3) con la connotazione del carattere di posizione del principio di non contraddizione come imperativo, con l’indicazione dell’essenziale consonanza di “comandare” e di “inventare” (comandare e inventare “io comando che l’ente sia quello che è” “lo invento in quanto fondato” lo invento, perché non ce l’ha il fondamento) la costrizione soggettiva a non poter qui contraddire è una costrizione biologica (poi vedremo che cosa intende con “biologico”) l’istinto dell’utilità di ragionare come ragioniamo lo abbiamo in corpo, noi quasi non siamo che questo istinto, ma quale ingenuità trarre da ciò una prova del fatto che possederemmo così una verità in sé? Il non poter contraddire dimostra una incapacità (non una verità, è un’affermazione abbastanza forte) Nietzsche parla qui di un non poter contraddire (è di nuovo Heidegger che parla) ciò significa non poter persistere nella contraddizione, quindi dovere evitare la contraddizione, qui, cioè nel caso che l’ente debba essere pensato e rappresentato, questo caso non è arbitrario e isolato ma è un caso essenziale e costante, è il caso dato in cui il vivente della specie umana vive (continuamente incessantemente) Che cosa significa ora questo “non poter fare altrimenti” cioè non poter pensare altrimenti, se non in maniera incontraddittoria? (cioè non contraddittoria) Nietzsche risponde con la proposizione conclusiva “il non poter contraddire dimostra una incapacità, non è una verità”. Qui incapacità e verità vengono contrapposte l’una all’altra. La parola “incapacità” è tuttavia un’espressione assai equivocabile in quanto suggerisce l’idea di un mero “non potere” nel senso del venir meno del rispettivo comportamento, mentre è inteso proprio “non potere non” (“non potere non” “non posso non fare” cioè sono costretto a fare) cioè un necessario comportarsi in tale e tal modo (“non posso non” ma è necessario che faccia) il perché Nietzsche parli non di meno di una “incapacità” lo si spiega con l’intenzione di creare l’antitesi più netta con il concetto tradizionale di “verità”, al fine da rendere talmente intuitiva la demarcazione della propria interpretazione del conoscere e del tenere-per-vero, da farla quasi diventare uno scandalo, ciò che Nietzsche contrappone con le denominazioni “incapacità” “verità” è la stessa cosa che egli intende nel brano 516 “Colà dice: il principio di non contraddizione non è un assioma che vale sul fondamento di un’adeguazione al reale, l’assioma non è un adæquatio intellectus et rei, non è una verità, nel senso tradizionale, è la posizione di un parametro (di un modo di valutare semplicemente arbitrario) l’importanza della contrapposizione sta nell’evidenziare il carattere di posizione, di invenzione, e di comando, a differenza del mero riprodurre che copia qualcosa che è lì presente (come si intende generalmente la rappresentazione, di qualche cosa) parlare in termini estremi di “incapacità” vale appunto dire l’incontradditorietà e l’attenersi a essa, non scaturiscono dalla rappresentazione dell’assenza di cose che si contraddicono, ma da una necessaria capacità di comandare e dal non-potere-non in essa riposto, (questa incontradditorietà non viene dal come stanno le cose ma (dice Nietzsche) ma da una necessaria capacità di comandare, dal non potere non essere, non trovarsi lì in questo comando.