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12 luglio 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Abbiamo a che fare con il movimento. Questione che, come sappiamo, ha interrogato Aristotele nella Fisica. Sapete che per lui la fisica è l’intendere l’ente in movimento e, quindi, si chiede come dobbiamo porre questo movimento, giungendo a delle considerazioni straordinariamente interessanti. Cercando il movimento nell’ente in movimento si trova a considerare quei famosi tre momenti: potenza atto e entelechia. Neanche Heidegger qui lo coglie bene, ma Aristotele giunge a intendere che il movimento è il movimento dalla potenza all’atto e poi all’entelechia, cioè, alla simultaneità dei due. Siamo a pag. 317. Il libro III e i successivi costituiscono la solida base per discutere lo ὅν κινούμενον seguendo il filo conduttore delle άρχαι, in modo tale che l’ente venga liberato e sia possibile porne in evidenza gli specifici caratteri ontologici. È questo che interessa ad Aristotele: che cos’è il movimento. Questi caratteri vengono attinti dall’ente in quanto tale: περί φύσεως, non περί τῶν φύσει ὅντων; indagine sull’essere, non sull’ente,… Non intorno agli enti di natura ma intorno all’ente in quanto tale. …non un’indagine ontica, che bada ai dettagli dell’ente, ma un’indagine ontologica, nella misura in cui ci si rivolge all’ente nel suo essere. “Una volta che abbiamo spiegato, circoscritto e definito il movimento, dobbiamo cercare, con lo stesso atteggiamento metodico, di passare a ciò che ne consegue. (Bisogna trattare anche di ciò che accompagna necessariamente un ente in quanto “ente in movimento”, ovvero di ciò che il fenomeno del movimento implica di per sé). Qui incomincia a dire che l’ente è ente in movimento, che non c’è un ente fermo. Arriverà poi alla questione del linguaggio, anche se non espressamente, per cui il linguaggio è movimento. Il movimento sembra essere qualcosa che appartiene a ciò che ha la caratteristica di tenersi unito in se stesso – il continuo… Non c’è soluzione di continuità, c’è appunto la continuità, che non si dissolve. …l’illimitato si mostra anzitutto nel continuo (nella misura in cui il continuo si mostra come ciò nel cui caso una διαίρεσις (divisione) non giunge a nessuna fine; la determinazione positiva del συνεχές (continuo) è il fatto di essere πειρον (infinito). Quando si vuole definire il continuo può capitare di adoperare, di intendere anche il λόγος dell’πειρον (quando si parla del continuo ci si rivolge nel contempo a una determinata assenza di limiti, come se il συνεχές altro non fosse che lo είς πειρον διαιρετόν quell’illimitato divisibile). Inoltre è impossibile rivolgersi all’ente-mosso senza il luogo, il vuoto e il tempo. Se qualcosa si muove è perché c’è il vuoto e il tempo. (Essi sono impliciti, con ‘πειρον stesso, nel fenomeno del movimento). L’enunciazione degli ultimi tre caratteri offre la sequenza in cui Aristotele discute tali determinazioni: τόπος (luogo), κενόν (vuoto), χρόνος (tempo). L’analisi di Aristotele è impostata in modo tale che egli, tramite la discussione del tempo, fa poi ritorno al movimento. Χρόνος è “άριθμός κινήσεως secondo il prima e il poi”. Potremmo tradurre άριθμός κινήσεως come il movimento misurabile. Di queste determinazioni Aristotele dice che sono κοινά (comuni). Questi caratteri sono κοινά per tutto l’ente che è κινούμενον (mosso), e per ogni ente essi sono καθόλου, il che altro non significa che “generalmente intesi”: nella misura in cui un ente è “generalmente inteso” tali caratteri vi sono sempre inclusi in quanto μέρη (parti). Aristotele concepisce infatti così il καθόλου: uno ὂλον (tutto) i cui μέρη (parti) si limitano a non essere espliciti. Queste parti comunque ci sono in questo tutto. “Bisogna operare una verifica ponendo mano a ciascuno e considerandolo a fondo singolarmente. A pag. 319. Per comprendere le successive considerazioni in merito alla κίνησις bisogna avere chiari i seguenti punti: 1. Il fatto che finora le categorie decisive non ci erano ancora note. Per noi i concetti di δύναμις, ἐνέργεια, έντελέχειᾳ sono talmente banali che non siamo più in grado di capire quale sia l’importanza del loro significato fondamentale. Dobbiamo riportarci all’epoca in cui i concetti di δύναμις ed ἐνέργεια furono plasmati. Incomincia a parlare – stiamo sempre considerando il movimento – di potenza e atto. 2. Ciò che realmente importa, qui, è fissare e rendere visibile nel suo esserci l’ente in quanto mosso, non già definire il movimento in un senso qualsiasi. A chi sostiene che le considerazioni di principio condotte dalla fisica moderna sono molto più precise, si può obiettare che la definizione di movimento (movimento inteso come velocità uniforme): v = s/t presuppone di per sé tutto ciò che Aristotele ha detto sul movimento. Tutte le analisi successive non si interrogano più, in nessun caso, su queste dimensioni. Rimangono non interrogate, vengono prese come un qualche cosa che ha una sua ragione ma di cui non si sa. È un po’ come la matematica con il numero. È per questo che si dice che la matematica è fondamentalmente platonica, perché è come se il numero avesse un suo riferimento da qualche altra parte, che nessuno sa bene che cosa sia, però c’è e lo garantisce. Questa cosa è totalmente assente in Aristotele, in Platone, invece, sì: presuppone che ciascun numero sia quello che è in base a qualche cosa che non c’è, che non è presente. I matematici naturalmente non parlano di Iperuranio, però ... in senso proprio, ciò che di fondamentale è stato formulato nella fisica moderna (Galileo, Copernico) è la questione del sistema di riferimento del movimento, ma non ci si è interrogati sul movimento stesso: anch’esso è stato inteso in relazione al sistema di riferimento, in base al quale deve essere misurabile; più precisamente, ci si è chiesti se esiste un sistema di riferimento assoluto, o solo uno relativo. Questa cosa si muove, ma si muove in relazione a che? Ci vuole qualcosa che sia fermo oppure c’è un riferimento di volta in volta differente, relativo a quel sistema? In tal caso il movimento è già presupposto, non viene discusso, ed è è assunto in un senso ben determinato: mutamento di luogo, mutamento della posizione – φορά. Qui però si tratta per Aristotele di un κοινόν dell’ente, nella misura in cui è φύσει e vive,… Occorre dire che per i greci gli enti di natura in un certo senso sono vivi, hanno qualcosa in sé che li rende vivi; non sono morti, inerti, hanno una loro vita, si muovono in un certo modo perché hanno, come dicevano gli antichi, una ψυχή, un’anima che li fa muovere e, quindi, sono vivi. Sicché il movimento comprende in sé tutto ciò che rientra nell’ambito del mutamento: κίνησις da intendersi come μεταβολή (variazione, divenire). Ci sta dicendo che il movimento comprende in sé tutto ciò che rientra nell’ambito del movimento. Questo movimento, in effetti, è da intendersi come un divenire delle cose. Ecco perché prima ha incominciato a parlare di δύναμις e di ἐνέργεια: perché comportano un divenire. Questo concetto di movimento è già implicito nella formula fondamentale del movimento: s = v x t, v = s/t; la velocità in sé non viene discussa. Il fenomeno della velocità era già noto ad Aristotele, là dove egli discute del tempo e dell’essere più accelerato o più lento di un movimento, dimostrando che, se è vero che un movimento può essere più accelerato o più lento, è anche vero che non può esserlo il tempo stesso. Noi parliamo di accelerazione e di rallentamento sempre in relazione al tempo, ma il tempo né accelera né rallenta. Questo nell’opinione comune. Naturalmente, sarebbe possibile affermare questo con certezza dopo avere inteso, con assoluta certezza, che cosa sia il tempo. Questione non irrilevante. Non sono state discusse proprio le definizioni fondamentali che provengono da Aristotele. Esse consentono di guardare avanti in direzione dell’autentica analisi ontologica: il mutamento come un modo dell’essere dell’esserci stesso. Il movimento, il mutamento, il divenire, è qualcosa che appartiene all’esserci, che appartiene all’uomo. Aristotele ha sempre ben presente che parliamo, sì, dell’ente, ma l’ente cui ci riferiamo – perché è quell’ente che fa tutte queste considerazioni – è l’esserci, è l’uomo. “La considerazione dell’ente dei singoli ambiti è posteriore a quella dei κοινά. Si considera prima che cos’hanno in comune tutti questi enti che sono in movimento. Ciò non significa che caratteri come la κίνησις, il τόπος, il χρόνος e le άρχαι sarebbero presenti anche già da prima; anzi, proprio le άρχαι, ciò in base a cui un ente viene visto, sono nascoste, occultate. Il δεῑ μή λανθάνειν τί έστι κίνησις (ciò che rimane nascosto) ha senso solo perché in effetti è velato. È velato, nascosto. In effetti, se ci si pensa, quel movimento, cui sta per approdare nel capitolo successivo, cioè δύναμις ed ἐνέργεια, è velato, non si vede; quindi, c’è un movimento che, in effetti, è nascosto. Lo dice proprio Aristotele nella Fisica, sono andato a controllare direttamente nel testo. Il motivo di questo fatto è che la considerazione del mondo e dell’ente si mantiene entro una certa generalità. La considerazione naturale prescientifica implica già un καθόλου (tradotto da Heidegger come ciò che si “intende generalmente”), seguendo il cui filo conduttore mi oriento sul mondo. Nel libro I, capitolo I, Aristotele accenna al fatto che i bambini chiamano “papà” tutti gli uomini e “mamma” tutte le donne. Per il bambino il papà e la mamma sono ciò che gli è maggiorente noto. Eppure, benché sia così, essi vengono mediamente assunti entro un καθόλου (entro un’opinione generalizzata), cosicché gli altri uomini sono solo altri papà. Contro questo essere “innanzitutto” del καθόλου bisogna procedere in direzione di ciò che è άρχή in senso proprio – cioè verso la determinazione primaria di un ente in ciò che esso è. Qui άρχή è da intendere come la determinazione primaria di un ente in quanto è ciò che è. Da tale specifica άρχή bisogna poi tornare all’esserci concreto stesso. Si parte dalla δόξα; quindi, si interroga la δόξα; si esce poi, per così dire, dalla δόξα e si ritorna alla δόξα. Si ritorna alla δόξα, cioè si torna a rendersi conto che, di fatto, tutto questo interrogare teoretico ha come fondamento sempre e comunque la δόξα. È evidente quindi che l’ente si dà in primo luogo 1. έντελέχειᾳ μόνον, “in quanto pura presenza attuale”… In primo luogo, l’ente si dà come pura presenza, come pura presenza in atto. …in secondo luogo 2. “in quanto possibilità e presenza attuale”. Aggiunge la possibilità. Si tratta dell’entità dei φύσει ὅντα, che in se stessa è sempre già, e che non sarebbe mai soltanto δύναμει. Qui pone una questione importante. Questa possibilità non è qualcosa che può essere o non essere, ma è qualcosa che è già sempre. Si comincia a intendere la simultaneità dei tre momenti, che adesso magari illustro rapidamente. Potremmo intendere la δύναμις, che viene sempre tradotta con potenza, come l’essere in relazione a…; ἐνέργεια, come il qualche cosa che è in quanto è in relazione, che però tende a un finito, perché non è ancora finito, e se ancora non è finito non è utilizzabile. Qual è l’utilizzabile? L’έντελέχειᾳ, solo l’έντελέχειᾳ è l’utilizzabile, in quanto è il finito, finito che comporta la simultaneità le due cose: l’essere in relazione a… e il tendere verso il finito. A che cosa propriamente tende l’ἐνέργεια? Tende a essere ciò che è, ciò che la possibilità mostra che può essere: tu puoi essere in quanto sei in relazione a…; l’ἐνέργεια dice “sono in relazione, quindi, sono qualcosa”, e allora ecco che effettivamente sono quella cosa (έντελέχειᾳ). Un ente, che è attualmente presente, in questo suo essere attualmente presente è anche δύναμει (possibile). Se c’è è possibile. Cesare è qui di fronte a me, quindi, è anche possibile che sia di fronte a me. Nell’ambito di ciò di cui si sta discutendo, δύναμις significa sempre δύναμις di una έντελέχειᾳ ὅν. Questa potenza, questo essere in relazione a, è sempre presente nell’essere presente di qualcosa: se qualcosa è presente è perché è in relazione a…. Cesare è quello che è, cioè, ciò che io vedo si presenta come έντελέχειᾳ, è finito, è lì e io lo vedo come una forma finita, compiuta. Ma Aristotele ci dice che per potere essere questa cosa che io vedo, cioè l’ente così com’è, occorrono una serie di cose. Occorre, intanto, che possa essere in relazione a…, perché se Cesare fosse in relazione a nulla non sarebbe neanche Cesare, non ci sarebbe nessuna possibile determinazione. Diciamo così: la δύναμις è la semplice possibilità di una determinazione; l’ἐνέργεια, tradotta generalmente con atto, è questa possibilità di determinazione che trova una determinazione o, meglio, che va verso una determinazione. Ma quale determinazione? Quella che la δύναμις ha fornito come possibilità di essere in relazione a. Quindi, l’ἐνέργεια è il qualche cosa di questa relazione, perché se è relazione è relazione a qualcosa. Questo qualche cosa che la δύναμις dice che è in relazione è l’ἐνέργεια. Ma questo ἐνέργεια, dice Aristotele, non è ancora il finito, non è ancora il Cesare che io ho di fronte; il Cesare che io ho di fronte è la combinazione, la sintesi, la simultaneità di queste due cose. L’έντελέχειᾳ non è un terzo elemento che si aggiunge, ma la simultaneità della potenza, dell’essere in relazione, e del qualcosa che è in relazione. Ma ora lo spiega bene. Anzitutto, indagando l’ἐνέργεια: 1. chiarificazione del significato implicito in ciò che essa intende; 2. il costrutto verbale stesso nel suo aspetto in assoluto più appariscente. Per chiarire il significato è istruttivo un passo della Metafisica Θ 3: “Il termine ἐνέργεια è stato infatti applicato anche alle altre cose le cui determinazioni si confanno al movimento; infatti l’ἐνέργεια, di per se stessa, è προς τήν έντελέχειᾳν”. Προς τήν è “in relazione a”. Quindi, è sempre in relazione al finito, al compiuto: questa è l’ἐνέργεια, qualcosa che si protende verso il finito. Qui si distingue tra ἐνέργεια ed έντελέχειᾳ: 1. Έντελέχειᾳ: “presenza attuale, essere attualmente presente di un ente in quanto fine”, nel senso dell’ultimo punto che è finito, cha ha se stesso in se stesso nella sua “fine” – τέλος in quanto carattere dell’esserci, costituente l’esser-finito; έντελέχειᾳ: ciò che si trattiene nel suo essere-finito, ciò che “ci” è in senso proprio. L’ἐνέργεια, al contrario, “è in tensione verso la fine” – anch’essa è un carattere dell’esserci, ma in modo tale da determinare l’ente nel suo esserci nel senso che esso non “ci” è nel suo essere-finito; ἐνέργεια: il carattere ontologico dell’essere concepito nel divenire finito. Cioè, divenire quel qualcosa a cui la δύναμις annuncia come l’essere in relazione a qualcosa; questo qualcosa è l’ἐνέργεια, che ha bisogno della δύναμις, perché è la δύναμις che dice che è in relazione a qualcosa e allora lui è questo qualcosa che è in relazione. L’“essere divenuto prodotto” nell’atto del produrre è un determinato modo dell’esserci… Cesare è un determinato modo dell’esserci, ma è determinato da δύναμις e da ἐνέργεια, dall’essere in relazione a qualcosa e da questo qualcosa a cui è in relazione. …solo se ci si rende conto di questo si è in grado di capire che cos’è il movimento:… Il movimento è questo tendere al finito, è giungere alla finitudine. Qualcosa è in potenza, il poter essere in relazione a… ma ancora non esserlo, perché l’essere in relazione a… è essere in relazione a qualcosa, ma questo qualcosa è l’ἐνέργεια. Ecco perché occorrono entrambi: la δύναμις è l’essere in relazione a…; il qualcosa con cui la δύναμις è in relazione a… è l’ἐνέργεια. …l’esserci di un ente che è nel suo divenire finito, ma che non è ancora finito. Che cosa vuol dire che non è finito? Che non è utilizzabile, non è ancora niente, potremmo dire che è ancora nulla. L’ἐνέργεια è la κίνησις, ma non è έντελέχειᾳ. Certo che fa parte del movimento, ma non è ancora la fine di questo movimento. La κίνησις è un modo dell’esserci, interpretato in relazione all’ἐνέργεια. L’espressione έντελέχειᾳ può essere scomposta in έν-τελές ed ἕκειν. Τελές è il fine, ἕκειν è avere, quindi, è qualcosa che ha fine. Poi fa delle precisazioni filologiche. Έντελές ἕκειν – la finale originaria –ές è venuta a cadere: έντελ(ές)έχεια. Il fatto caratteristico è la scomparsa della finale originaria. Diels ha richiamato l’attenzione su un significato verbale analogo che ricorre in Demostene: έντελόμισθος, “colui che percepisce la paga completa”; έντελέχειᾳ tradotto come “possesso della completezza”. Qui ha fatto una piccola analisi filologica della parola έντελέχειᾳ: έντελές ἕκειν, avere la fine, possesso della completezza. Si tratta di ricondurre il significato dell’espressione nel contesto in cui esso svolge la funzione di chiarire l’ente nel suo essere. Έντελέχειᾳ in quanto modo dell’esser-ci inteso come “trattenersi nell’essere-finito”. Έντελέχειᾳ μόνον: ciò che si trattiene soltanto nell’essere-finito è qualcosa che esclude ogni δύναμις, un ente che “ci” è in modo tale da essere-finito, nel senso che è sempre già finito, qualcosa cioè che non è mai stato dapprima prodotto, né mai potrebbe non essere, ma è attualmente presente in senso assoluto. Qui fa una digressione rispetto a come pensavano i greci: un qualcosa che c’è sempre. Che cosa per loro c’era sempre? Loro guardavano in alto e vedevano la volta celeste. La presenza di un ente siffatto non è frutto di immaginazione, ma è vista nel movimento del cielo, certamente vista, tuttavia non solo nella mera contemplazione, bensì sperimentata in base alla paura che alla fine questo “ente che “ci” sempre” un giorno si arresti, svanendo dal “Ci”. Per questo avevano paura e speravano che questo “ci” sarebbe stato sempre. Adesso introduce un nuove termine, che sarà utile per Aristotele per spiegare il movimento. Questo termine è στέρησις, che letteralmente significa mancanza. Aristotele ha già nominato questi due caratteri nel libro I, capitolo 8, della Fisica. Al tempo stesso può essere colto qui il nesso che unisce le due determinazioni δύναμις ed ἐνέργεια con la questione del numero delle άρχαι. Svolgendo la sua discussione, Aristotele giunge alla conclusione che debbono esserci tre άρχαι, poi passa subito a considerare il movimento e dice che la definizione del movimento, senza la δύναμις e l’ἐνέργεια, può avvenire solo tramite le άρχαι, come aveva fatto Platone. Per Platone, il movimento è qualcosa che si aggiunge all’ente, non è nell’ente, come invece è per Aristotele: ciascun ente è il movimento. Dirà tra poco che è solo perché l’ente è in costante movimento che è comprensibile. Per Platone, invece, il movimento è qualcosa che sta nell’Iperuranio e che si aggiunge all’ente, come un qualcosa che potrebbe o non potrebbe esserci. Tuttavia egli elabora tale definizione con l’ausilio della στέρησις, segnando così una radicale differenza da Platone. Considerando il passo in questione intendiamo vedere in che senso la categoria della στέρησις, secondo l’origine del suo significato, è implicitamente contenuta nelle categorie fondamentali del movimento, δύναμις ed ἐνέργεια. Aristotele introduce la presentazione dei caratteri ontologici con queste parole: “C’è un essere di una cosa nel senso del puro essere attualmente presente” – qui bisogna tradurre: “tale cosa è nel suo essere proprio”. Ciò che non ha mai una possibilità, ciò che non ha avuto un’origine, “ci” è già in un senso eccellente, ed è finito in quanto non ha bisogno di essere prodotto. Dobbiamo intenderci bene circa l’essere che è caratterizzato in δύναμει καί έντελέχειᾳ. In Fisica A 8 Aristotele indica i caratteri ontologici della δύναμις e dell’έντελέχειᾳ, senza entrare nei particolari. Egli osserva qui che il fenomeno del movimento potrebbe essere spiegato anche facendo riferimento alla δύναμις e all’ἐνέργεια, mentre in precedenza ha cercato di chiarirlo in base ad altri caratteri ontologici, in primo luogo ricollegandosi alla critica a Platone (essere e non-essere). Egli richiama ora l’attenzione su un nuovo fenomeno dell’essere, la στέρησις, ricavandolo dall’ente caratterizzato in quanto “essere assente” e da ciò che “in se stesso” è “non-essere”: questo non-essere è un essere καθαύτό μή ὅν (in quanto se stesso non-ente). Che cos’è che propriamente non è? Se con έντελέχειᾳ intendiamo il “fatto e finito”, allora δύναμις ed ἐνέργεια sono ciò che non sono ancora, ma hanno bisogno di questo terzo elemento che le integri. Se io per assurdo potessi separare la δύναμις dall’ἐνέργεια non otterrei il movimento, perché il movimento è dato dalla simultaneità di queste due cose. La negazione è una posizione. Se diciamo che il non-essere è un essere, ciò suona formalmente-dialettico. Bisogna però tenere conto del fatto che qui si interpreta in base al senso dell’essere: non-essere nel senso di un determinato “Ci”, il “Ci” dell’assenza. Da questo “ente che non è”, che “ci” è nel carattere di un determinato essere-assente, “può divenire qualcosa”, vale a dire che con l’ausilio di questo peculiare non-essere si può comprendere il “divenire”, la μεταβολή. Questo è importante. Vediamo di chiarire. Dunque, l’ente che non è. Potremmo dirla così: δύναμις ed ἐνέργεια pongono qualcosa che di per sé non è ancora utilizzabile. Cosa significa che non è utilizzabile? Semplicemente che non è, è il non-essere che però è qualcosa, perché da questo qualcosa, da δύναμις ed ἐνέργεια, sorgerà un’έντελέχειᾳ, sorgerà il movimento, sorgerà ciò che vedo, perché l’έντελέχειᾳ, essendo la simultaneità, determina il fatto che io veda Cesare in quanto tale. Cioè: da qualcosa che non è sorge qualcosa che è. Aristotele si rende perfettamente conto che, rispetto a quanto detto finora, ciò costituisce un’ipotesi sorprendente. Dice infatti: “Ci si stupisce di ciò e si ritiene impossibile che qualcosa divenga dal non-essere”, nella misura in cui, a prima vista, si afferma: il non-essere è il niente, e dal niente non può divenire niente. E invece sì. Qui di fronte a noi abbiamo, potremmo addirittura dire, la struttura della creazione. Ma il fatto forse più interessante è che questi tre momenti, cioè δύναμις, ἐνέργεια e έντελέχειᾳ, non sono una successione ma una simultaneità. È perché c’è l’έντελέχειᾳ che io posso pensare δύναμις ed ἐνέργεια, le quali, tuttavia, sono la condizione per l’esistenza di questa integrazione tra i due. È la stessa questione posta sin da Hegel fino a Peirce: il terzo elemento fa esistere i primi due, o, detta in termini più semplici, i due termini della relazione non sono più i due termini della relazione ma sono la relazione. Δύναμις ed ἐνέργεια non sono più δύναμις ed ἐνέργεια, sono l’έντελέχειᾳ. Come dire che ciò che fa sorgere quello che viene dopo esiste solo a partire da quello che viene dopo, quello che viene dopo fa esistere la sua condizione. È questo che soprese Aristotele, una cosa ben strana, che non è più strana se si tiene conto della simultaneità. È la simultaneità che fornisce la via per intendere questo apparente paradosso. Nell’έντελέχειᾳ, in Cesare che io vedo, ci sono necessariamente tanto la δύναμις quanto l’ἐνέργεια, cioè, c’è la possibilità di essere relazione e c’è il qualcosa con cui è in relazione: Cesare è quello che in quanto è in relazione con altre cose; se fosse irrelato, Cesare non ci sarebbe, non ci sarebbe niente. “Questo è un modo” di rendere comprensibile la γένεσις, cioè la μεταβολή. Qui accosta la γένεσις, la generazione, con il divenire. È il divenire che genera, ma questo divenire è connesso a δύναμις ed ἐνέργεια, cioè l’essere in relazione a… e il qualcosa che tende a essere finito, che diventa finito in questo movimento “retroattivo”– questo non lo dice Aristotele, ma lo dirà poi Hegel: il per sé torna sull’in sé attraverso l’Aufhebung. “Un altro modo (di spiegare la μεταβολή (divenire)) può dire la stessa cosa facendo riferimento a δύναμις ed ἐνέργεια. Questo aspetto è già stato definito con precisione in un altro contesto”. In un primo momento non è chiaro a che cosa si riferiscono queste parole di Aristotele. Si è portati a collegare questo passo con il libro IX della Metafisica, anche se vi è la possibilità che il riferimento sia invece Fisica Γ 1-3. Non lo si può stabilire con certezza. In ogni caso. Non si possono chiamare in causa simili vaghe supposizioni a fini di una datazione, o per scrivere, in base ai rapporti tra i trattati, una ontogenesi dell’opera aristotelica. Personalmente sono convinto che si tratti di un tentativo disperato. Nella Fisica compaiono affermazioni riguardanti l’ὅν (ente) e l’ἒν (uno) la cui formulazione raggiunge un livello tale da non distinguersi in nessun modo da quello della Metafisica. L’osservazione aggiunta qui da Aristotele sottolinea il significato che egli attribuisce a questa specifica indagine: “In questo modo (cioè facendo riferimento alla στέρησις, ovvero alla δύναμις e all’ἐνέργεια)… Qui accosta la στέρησις alla δύναμις e all’ἐνέργεια. Sono loro che sono “assenti”, assenti tra virgolette perché non possono essere assenti, perché se non ci fossero non ci sarebbe neanche l’έντελέχειᾳ. …si risolvono le difficoltà che avevano costretto gli antichi a sopprimere alcune cose di ciò che abbiamo detto. (Poiché non potevano venire a capo dell’essere, finirono per dire semplicemente: il movimento non esiste). Mentre qui Aristotele ha la presunzione – che non è neanche una presunzione – di avere inteso che cos’è il movimento. Il movimento – potremmo dire noi oggi, lui non lo dice ovviamente – è nell’atto, cioè, nell’atto di parola. Se noi provassimo a riportare tutto ciò che dice Aristotele a de Saussure, avremmo il significante e il significato, che insieme costituiscono il segno, cioè la parola. Il significante e il significato: queste due cose, sono? Pensateci bene. Il significante c’è in virtù del significato e il significato, a sua volta, c’è in virtù del significante, esattamente come δύναμις e ἐνέργεια. Il che significa che ciascuno di questi due momenti, significante e significato, di per sé non esiste, non esiste se non nella relazione con l’altro. Nel momento in cui, invece, significante e significato si combinano – uso termini un po’ impropri, ma a vantaggio della perspicuità –, sono insieme, simultanei, si coappartengono e giungono a costituire la parola, allora nella parola esistono, non prima. Ecco allora la στέρησις, che Aristotele accosta giustamente alla δύναμις e all’ ἐνέργεια, che sono la mancanza, sono il non-essere, perché propriamente non sono, ma sono nel momento in cui si coappartengono. È chiaro che qui Aristotele doveva ovviamente spiegare bene la cosa e, quindi, li separa, li considera a uno a uno, ma non sono separabili in nessun modo, perché sono due momenti dello stesso, come dirà poi Hegel. Adesso Heidegger considera la δύναμις. Per comprendere l’ente nel suo duplice carattere dobbiamo cercare di chiarire in modo ancora più preciso la seconda determinazione. Ciò che Aristotele dice sulla στέρησις rappresenta la condizione del fatto che, nel caso del δύναμει, si ha a che fare con un carattere ontologico che si addice a un ente che “ci” è già. È un fenomeno bizzarro per cui questa cosa c’è già necessariamente, eppure non è. Il termine δύναμις non ha il senso del “possibile”, ossia di ciò che, in genere, prima o poi ci può essere. La δύναμις è già la determinazione di un έντελέχειᾳ ὅν, di un ente che “ci” è già. Che si mostra, che è presente qui, adesso. Un albero che sta nel bosco è per me lì attualmente presente in quanto albero. Come Cesare è lì per me presente in quanto Cesare. Oppure può esserci anche come albero abbattuto, tronco, che a sua volta può farmisi incontro nel carattere dell’“utilizzabilità per…”, della disponibilità per la costruzione di una nave. Il tronco ha il carattere dell’essere utile a…, dell’essere utilizzabile per…, non perché io lo concepisca anzitutto così, ma perché questo è il modo del suo essere. Dunque, questo è il modo del suo essere: di essere utilizzabile. Il tronco mi si fa incontro in questo modo: non è mero legno, non è soltanto una cosa chiamata legno. L’ente che “ci” è nel mondo circostante ha il carattere del συμφέρον (utilizzabile), rinvia a qualcosa. L’ente che c’è nel mondo circostante mi si fa incontro sempre come qualcosa di utilizzabile; se mi si fa incontro è perché è utilizzabile. Ma perché sia utilizzabile occorre che sia έντελέχειᾳ, che sia cioè finito; l’πειρον non è utilizzabile. Tale carattere dell’“essere rinviante” nel senso dell’“essere utile a…” determina questo ente che “ci” è, questo tronco che è lì davanti, in quanto έντελέχειᾳ e, simultaneamente, in quanto δύναμει. L’essere-δύναμει è una determinazione positiva del modo del suo “Ci”. In quanto è l’essere in relazione a… Da molto tempo sono solito definire “significatività” questo carattere ontologico dell’esserci. Tale carattere ontologico è il carattere primario in cui il mondo mi si fa incontro. Mi si fa incontro così. Heidegger chiama “significatività” il fatto che δύναμει sia questo essere in relazione a… Potremmo dire, sempre facendo riferimento a de Saussure, che la significatività è l’essere del significante sempre in riferimento al suo significato. Il fatto che il δύναμει non sia alcunché di vuoto e formale, ma di determinato, implicante determinate condizioni, che caratterizza l’ente solo di tanto in tanto e a seconda delle circostanze, appare evidente in base a Metafisica Θ 7. All’inizio del capitolo si pone la questione: “Bisogna distinguere quando, di volta in volta, un ente che “ci” è, è δύναμει, e quando no. Esso non è δύναμει in qualsiasi momento (nonostante ci sia già). Qualunque cosa è in relazione a un’altra, però questa relazione può non essere determinata. Io vedo qualcosa, so che è qualcosa, e questo anche se non riesco a determinarla; ma se è qualcosa è perché comunque è in relazione a… A che cosa è in relazione lo si vedrà dopo.