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12 luglio 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

Siamo a pag. 234. C’è una frase di Heidegger molto celebre e citata spesso: L’Esserci è l’ente per cui, nel suo essere, ne va di questo essere stesso. Cosa vuole dire? Se volessimo dirla in modo differente diremmo che l’Esserci, cioè l’uomo, è quell’ente per cui e attraverso cui l’essere esiste, non c’è l’essere senza l’Esserci, senza qualcuno, per cui è l’Esserci stesso la condizione dell’essere dell’Esserci. Poco dopo. L’esser-avanti-a-sé non denota la tendenza isolata di un soggetto “senza mondo”, ma caratterizza l’essere-nel-mondo; il quale, consegnato a se stesso, è già da sempre gettato in un mondo. L’esser-avanti-a-sé non significa che c’è un soggetto da qualche parte ma semplicemente che l’Esserci è già da sempre gettato verso quel mondo di cui è fatto e di cui la Cura è in un certo senso la testimonianza. Io sono già sempre gettato in avanti nel mondo, quindi non posso non prendermi cura, perché sono già lì, sono già fra queste cose che mi fanno. In una prospettiva più completa, l’esser-avanti-a-sé significa: avanti-a-sé-essendo-già-in-un-mondo. Essere avanti a sé, ma questo avanti a sé non comporta un qualche cosa che è diverso e che devo raggiugere, ecc. Esser-avanti-a sé vuol dire che non può non esserlo. È questa la gettatezza: l’essere continuamente gettati. A pag. 235. Solo perché l’essere-nel-mondo è essenzialmente Cura, fu possibile, nelle precedenti analisi, caratterizzare come prendersi cura l’esser-presso l’utilizzabile e come aver cura l’incontro con il con-Esserci degli altri nel mondo. Questo è importante. Sta dicendo che l’essere-nel-mondo è Cura, è prendersi cura. Il prendersi cura è essere presso l‘utilizzabile, presso un qualche cosa, ma questo qualche cosa è quello che è perché è utilizzabile, perché è “per” qualche cosa, per un progetto. È in questo senso che ciascuno è sempre nel prendersi cura, perché ha sempre a che fare con un qualche utilizzabile, che vuole fare qualche cosa. Questo è il prendersi cura mentre l’avere come cura Heidegger lo intende come l’incontro con il con-Esserci degli altri nel mondo. Heidegger distingue tra il prendersi cura e l’aver cura: il prendersi cura riguarda l’utilizzabile, le cose; l’aver cura, invece, è aver cura degli altri, la relazione con gli altri. La Cura non designa neppure, primariamente ed esclusivamente, un comportamento isolato dell’io rispetto a se stesso. L’espressione “cura di sé”, escogitata in analogia al prendersi cura e all’aver cura, sarebbe una tautologia. La Cura non può indicare un particolare comportamento verso se-stesso, perché il se-Stesso è già caratterizzato ontologicamente dall’esser-avanti-a-sé. E in questa determinazione sono già inclusi gli altri due momenti strutturali della Cura, l’esser-già-in… e l’esser-presso… Dice che il prendersi cura di sé è una tautologia per che questo “se stesso” è già comunque preso nella Cura. Il prendersi cura riguarda le cose, quindi, non può non essere nel mondo e nel mondo ci sono queste cose, e se ci sono le cose è perché sono un utilizzabile. In questo senso parla del prendersi cura di sé come di una tautologia, come di una cosa che non ha nessun senso. Non che la tautologia non abbia alcun senso ma in questo caso non ha senso perché il prendersi cura di sé è già all’interno della Cura. La Cura, in quanto totalità strutturale unitaria, si situa, per la sua apriorità esistenziale, “prima” di ogni “comportamento” e di ogni “situazione”… Questo lo avevamo già visto perché ci sia un comportamento o una situazione emotiva occorre che ci sia già un prendersi cura. Solo a questo punto, cioè, quando io mi prendo cura, quando io considero certe cose, quando utilizzo certe cose, solo a questo punto può intervenire in seguito, per esempio, uno stato d’animo, così dice Heidegger. La Cura, quindi, non esprime il primato del comportamento “pratico” rispetto a quello teoretico. La determinazione puramente intuitiva di una semplice-presenza ha il carattere della Cura non meno di un’”azione politica” o di un semplice divertimento ricreativo. “Teoria” e “prassi” sono possibilità dell’essere di un ente il cui essere deve esser determinato come Cura. Qualunque cosa io faccia è già sempre preso nella Cura. La Cura è l’essere già da sempre rivolti al mondo, che è fatto di utilizzabili, di cose che io considero all’interno di un progetto, che io considero perché mi servono “per”. L’Esserci non può darsi senza la Cura e viceversa, è il modo in cui l’Esserci è nel mondo: prendendosi cura. A pag. 237. Il poter-essere, in vista di cui l’Esserci è, ha esso stesso il modo di essere dell’essere-nel-mondo. Il poter-essere, che fa parte dell’Esserci, ovviamente ha la stessa caratteristica dell’Esserci, cioè, di essere nel mondo, non potrebbe essere altrimenti. In esso è quindi ontologicamente incluso il riferimento all’ente intramondano. La Cura è sempre, magari solo privativamente, prendersi cura e avere cura. Nel volere, un ente che è stato compreso, cioè progettato nella sua possibilità, è afferrato in modo tale da essere ricondotto al suo essere nel prendersene cura e nell’averne cura. Quado un ente è stato compreso, cioè interpretato, utilizzato, a questo punto è afferrato in modo tale da essere ricondotto al suo essere. Ma questo essere di questa cosa di cui mi prendo cura, di che cosa è fatto? È ovvio che il suo essere sta nel fatto che io me ne prendo cura, quindi, è come se riconducessi un qualche cosa, che io utilizzo, al fatto che è un qualche cosa, che ha a che fare con la Cura, e quindi rientra nel progetto dell’Esserci, dell’Esserci in quanto progetto progettante. Il comprendente autoprogettamento dell’Esserci, in quanto effettivo, è già sempre presso un mondo scoperto. È da questo mondo che l’Esserci trae le sue possibilità, e innanzi tutto in conformità allo stato interpretativo del Si. È sempre da lì che si parte, dal Si, dalla deiezione dell’Esserci, cioè da un progetto inautentico, inautentico perché deiettivo, perché si fonda sui tre elementi della deiezione, di cui parlava nei capitoli precedenti: la chiacchiera, la curiosità e l’equivoco. Questi elementi costituiscono la deiezione e il punto di partenza, ciò in cui ciascuno nasce. Ciascuno nasce nel Si, nella chiacchiera, non è che nasce sapendo chissà quali cose, nasce nella chiacchiera, nel si dice, nel si fa. E così la mamma dice al bambino: questo non si fa, questo non si dice, oppure questo si fa, questo si dice, ecc. Cosa sta facendo esattamente? Lo sta addestrando alla chiacchiera. Quindi, è da lì che si parte sempre, dalla chiacchiera, cioè, dalla deiezione. È soltanto dopo un lavoro che è possibile per l’Esserci un confronto autentico con le questioni. La quotidianità media del prendersi cura non vede le possibilità e si adagia nella tranquillità del semplice “reale”. Ricordate quando parlava della tranquillità, della quiete, dell’impersonale, del Si. Questa tranquillità soddisfatta non esclude un’estesa irrequietezza del prendersi cura; anzi, la eccita. Il voluto non è più costituito da possibilità nuove e positive; ma ciò che è disponibile viene modificato “tatticamente” in modo da suscitare l’illusione che succeda veramente qualcosa. Qui occorre dire qualche parola perché ciò che Heidegger pone come progetto autentico dell’Esserci, e cioè il progetto che tiene conto delle aperture, delle possibilità che ci sono al di là della chiacchiera, non è sufficiente. Per il modo in cui lo abbiamo posto, potremmo dire qualcosa di più. Quello che Heidegger dice va bene, certo, porre delle possibilità, delle aperture che vanno al di là della chiacchiera, va bene sicuramente, ma soprattutto il porsi di fronte alle condizioni per cui è possibile la chiacchiera. In altri termini, si tratta, ed è questo l’unico compito che spetta alla psicoanalisi, di interrogare, non tanto ciò che accade, interpretarlo, dargli un senso, ecc., ma di pensare ciò che è da pensare alle condizioni per cui è possibile, per esempio, un’interpretazione, per cui è possibile una chiacchiera, per cui è possibile, la deiezione dell’essere, direbbe Heidegger. Il pensare queste condizioni, questo potrebbe essere il ciò che resta da pensare. Questo non lo dice Heidegger, lo dico io. Quando nel suo famoso scritto sulla fine della filosofia diceva che ciò che resta ancora da pensare, rispetto agli antichi, era l’λήθεια, che hanno, sì, detta questa parola ma non l’hanno pensata. Ciò che rimane sempre da pensare è la condizione stessa del pensiero, ma non kantianamente come autocoscienza, ma le condizioni che sono poste nel linguaggio. Pensare a me come autocoscienza è comunque possibile perché esiste il linguaggio che me lo permette. E, quindi, la domanda, che pone fuori della chiacchiera, potrebbe essere questa: a quali condizioni io posso pensare ciò che sto pensando? Certamente, queste condizioni riguardano anche la mia storicità ma non solo, perché il pensare la mia stessa storicità è reso possibile da un qualche cosa, cioè, dal linguaggio. Senza linguaggio non c’è storicità, non c’è nulla, anzi, tutto ciò non sarebbe mai esistito. Questo, a mio parere, è il compito che la psicoanalisi può ancora porsi. La psicoanalisi, così come è intesa oggi… Apro una parentesi. Sono andato a vedermi il dibattito tra Recalcati e Miller e poi un paio di interventi di Recalcati. Dopo avere visto queste cose mi è sorto un pensiero, questo: la psicoanalisi deve cessare di esistere, immediatamente, perché è un insulto a qualunque cosa, non dico solo all’intelligenza ma a tutto. Deve cessare di esistere perché mostra in queste cose ciò che veramente è. La psicoanalisi, così com’è intesa, è quella, non quella di cui parlavo prima, che probabilmente non è mai esistita, cioè, una psicoanalisi che interroga le condizioni del pensiero; occorrerebbe farla esistere. Ma a questo punto non sappiamo più se è psicoanalisi perché psicoanalisi è quella, cioè un sistema dottrinario, categoriale, fatto per spiegare le cose. Anche se gli psicoanalisti dicono che la psicoanalisi non dà risposte, che non spiega, ecc., mentono, perché è proprio questo ciò che fa. Come qualunque altra teoria è stata costruita per questo: per dare risposte e spiegare come stanno le cose. Pertanto, la psicoanalisi è quella cosa lì, un sistema dottrinario e categoriale, fondato su un atto di fede. Non l’ho mai detto a Stefania ma un giorno glielo dirò. Non so se avete presente il suo penultimo libro. La cito perché fa una cosa interessante, senza volere naturalmente. Prende come esempio la questione dello scibbolet di Freud e, infatti, il titolo del libro di Stefania Guido è Il primo scibbolet della psicoanalisi, ETS, 2014. Intanto è interessante che Freud, a quel punto, abbia deciso di utilizzare questo aneddoto dove si tratta di polizia di frontiera e di una parola d’ordine. Se l’altro non conosce la parola d’ordine allora vuole dire che non è della mia fede e non lo fa passare. Stefania, senza volere, dice una cosa che è molto significativa, e cioè dice che il primo scibbolet della psicoanalisi è l’accettazione del presupposto dell’esistenza dell’inconscio, come dire che la psicoanalisi è fondata su un atto di fede, che è esattamente quello che dovevano compiere quei tizi per poter passare il valico di frontiera. Come dire che gli psicoanalisti sono tali, era questo che stava dicendo Freud, se accettano questo presupposto fondamentale. Questo dell’inconscio è un presupposto che deve essere accettato attraverso un atto di fede. Questa cosa, che è il pilastro di tutta la costruzione psicoanalitica, mostra che tutta la teoria psicoanalitica, come qualunque altra teoria, è fondata su un atto di fede. Da qui tutto il sistema dottrinario, non solo da parte dei lacaniani ma anche dai verdiglioniani, che sono tutte quante delle persone molto devote alla dottrina, devote in modo da evitare sempre possibili eresie. Questo per dirvi che ciò che sto ponendo come compito della psicoanalisi riguarda una psicoanalisi che non è mai esistita. Potremmo farla esistere, ma la psicoanalisi non è questa che sto dicendo io, la psicoanalisi è quella lì, è quella di quei tizi, un sistema dottrinario e categoriale da applicare ora qua, ora là. C’è una conferenza dove Recalcati dice che chi non vota Renzi è un nevrotico. Questa è la psicoanalisi. Che differenza c’è tra il dire questa cosa e il dire che quell’altro, che fa certe cose, è un perverso o il dire che quell’altro ha fatto altre cose perché ha eluso la legge del padre? È la stessa cosa, tutte quante fesserie. È in questo modo che a me piaceva intendere il “prendersi cura”. Il prendersi cura, posto così, non è altro che l’essere continuamente gettati in qualche cosa che richiede di essere pensato, di essere ancora pensato, interrogato ovviamente, ma soprattutto di essere pensato. Si parla tanto di interrogazione, tutti parlano di interrogazione, quindi, ci si aspetta sempre una risposta. Invece, il pensare qualcosa non necessariamente cerca una risposta ma è volto a mettere in gioco, a vedere se è possibile cogliere ancora altre cose, per esempio, mettendo a tema le condizioni di possibilità del pensiero. Un lavoro questo che Heidegger non ha mai fatto, gli mancavano degli strumenti, anche se la semiotica esisteva già da tempo, e cioè questo: applicare le conclusioni di un’argomentazione alle argomentazioni di cui è fatta la teoria che ha condotto a quelle conclusioni. È questo che manca e che, invece, ha consentito a noi di fare un passo decisivo rispetto al pensiero.

Intervento: Sull’interrogare. Anche una ricerca scientifica si basa su un’interrogazione, come qualunque altra cosa. Ciò su cui non si riflette è sulle condizioni della domanda. Per esempio, cosa mi spinge a interrogare in un certo modo piuttosto che in un altro. Occorrono dei presupposti…

Esatto. Non ci si interroga, ad esempio, sul che cos’è un domandare. Eppure, Freud aveva posta la questione, a modo suo, certo, parlando delle fantasie: ogni cosa che faccio, che voglio o non voglio fare, è determinato da fantasie che mi spingono in una certa direzione, fantasie, cioè, cose che io credo vere, che ho accolte per un motivo o per l’altro, motivi che anche questi non sono altro che altre fantasie. Sono tutte fantasie che potremmo avvicinare a ciò che Heidegger chiama la storicità, anche se non si esaurisce tutto nella storicità perché la storicità comprende il fatto che, per esempio, l’uso di certi termini si porta appresso una serie infinita di altri elementi che sono dovuti appunto alla storicità di quel termine, per il fatto che esiste da tremila, in questi tremila anni si è evoluto in un certo modo ma ha mantenuto ancora certi richiami, certe assonanze. Freud non tiene assolutamente in conto una cosa del genere, anche se nell’Interpretazione dei sogni sembra che parli di queste cose, almeno di sfuggita, parlando di assonanze, onomatopee, di paronomasie, cioè di cose che richiamano una parola più che attraverso un senso attraverso delle corrispondenze di suoni. Cose abbastanza vaghe, comunque per Freud la questione è abbastanza precisa, e cioè tutte le cose, anche il volere fare qualcosa, anche il progettare qualcosa, muove da fantasie. Heidegger non parla di fantasie ma dice che l’uomo è un progetto gettato, l’Esserci è un progetto gettato, e questo ente particolare interviene nel mondo in questo modo. Direi che non è migliore né l’una né l’altra, semplicemente sono modi di avvertire che qualunque cosa si faccia è, per usare un termine di Freud, surdeterminato da altro, per Heidegger dalla storicità, dal fatto che questo progetto sia o non sia autentico, da tante cose, però, di fatto, è sempre surdeterminato. Questo lo diceva già, a modo suo, Husserl, e cioè ciascuno muove dalla δοχ, che è poi la stessa cosa che dice Heidegger, anche se non parla di δοχ perché, essendo una parola di Husserl, non voleva usarla e parla, invece, di chiacchiera, che è la stessa cosa, è l’opinione, è il Si, cioè, si parte comunque da una serie di cose che si sono apprese. Questo non c’è in Freud, propriamente, Freud manca tutta la questione dell’addestramento a parlare. Anche in Heidegger non c’è, però, ponendo la questione in questo modo, e cioè che si muove comunque dalla δοχ, dalla chiacchiera, dice che è da lì che parte il pensiero, che è da lì che si impara a pensare. Questo non lo dice Heidegger, lo sto dicendo io, però grosso modo è quello che si può trarre. In entrambi manca la questione del linguaggio, perché, sì, io imparo a parlare attraverso la chiacchiera. La mamma dice: si dice questo, si fa questo, ecc., ma tutte queste imposizioni, o divieti che siano, anche loro meritano di essere pensati. Heidegger si limita in buona parte a descrivere la deiezione ma non la pensa fino in fondo, anche perché pensarla fino in fondo lo avrebbe condotto inesorabilmente a delle domande intorno alla struttura del linguaggio: come si costruisce un pensiero? Perché si costruisce in quel modo? Quali sono le regole che lo fanno funzionare? E allora lì, certo, ci sarebbe stata una svolta. C’è certamente una svolta nel pensiero di Heidegger ma non in questa direzione. Quindi, senza pensare le condizioni, cioè, senza pensare la struttura del linguaggio, manca sempre un riferimento a qualche cosa che di fatto costituisce la condizione di qualunque dire, di qualunque pensare, e allora le cose accadono così. Anche in Heidegger in parte c’è questo aspetto: le cose accadono così, a un certo punto uno si adagia nella chiacchiera. Sì, è vero, certo, ma forse non è solo per questo, perché tranquillizzante, perché fa sentire parte di un gruppo, ecc. Tutto vero ma non basta. Eppure, ha scritto mille pagine su Nietzsche e sulla questione della volontà di potenza. Ma anche la questione della volontà di potenza non trae tutta la sua forza se non si intende che cosa la supporta, che cosa fa sì che la volontà di potenza sia quello che è. Se manca questo, questa posizione rimane non dico debole ma sembra provenire da nulla, come se fosse un dato di fatto, una cosa naturale. Nietzsche dice che gli umani non cercano la verità per interesse teorico, per il bene, la cercano per avere potenza. Sì, certo, ma perché cercano la potenza? Per farci che? Per il superpotenziamento? Certo, ma questo sposta solo la questione. Che cosa muove tutto questo? Che poi il progetto di Heidegger, il prendersi cura, non è altro che la volontà di potenza: essere presso le cose, l’utilizzabile, allo scopo di utilizzarlo, altrimenti, che cosa sto a fare presso l’utilizzabile se non per utilizzarlo, per farci qualcosa, per modificarlo, quindi, per imporre la mia volontà sulla cosa o sulle persone, a seconda dei casi. Quindi, anche rispetto alla volontà di potenza, non è sufficientemente forte questo pensiero se non si dà alla volontà di potenza una base un fondamento che sia necessario, e cioè la struttura stessa del linguaggio. Il linguaggio deve concludere con una affermazione per potere proseguire. Si tratta solo di questo. Tutta la volontà di potenza e tutta la rappresentazione immensa, messa in atto dagli umani da quando esistono, serve soltanto a soddisfare questo requisito, cioè, costruire una proposizione che conclude in modo vero e che sia riconosciuta come tale, per potere continuare e costruire altre proposizioni, quindi, per super-potenziare il proprio dire. Tutto qui. A pag. 239, § 42. La precedete interpretazione, che si è conclusa con la determinazione della Cura come essere dell’Esserci, non mirava ad altro che il raggiungimento dei fondamenti ontologici adeguati di quell’essere che noi stessi sempre siamo e che chiamiamo “uomo”. La Cura come essere dell’Esserci. Intendiamo qui l’essere non tanto alla maniera di Heidegger, cioè come quell’orizzonte che rende possibile il manifestarsi degli enti, ma, come diceva giustamente Sini come significato, come la significatività, direbbe Heidegger, anche se lui non la pone in questi termini. Allora, la Cura, come essere dell’Esserci, è il significato dell’Esserci, ciò che dà significato all’Esserci, all’uomo. Che cosa dà significato all’uomo? Quello che fa. Da qui la questione pragmatica di Heidegger: il fare che dà un significato alle cose. Questo sembra evocare Marx: è la prassi che informa le idee, il che non è molto lontano da ciò che intende Heidegger. Infatti, alcuni tendono ad avvicinare, per alcuni aspetti, non per tutti, Heidegger a Marx, proprio per la puntualizzazione e l’insistenza da parte di Heidegger sulla prassi. A pag 240. In una favola antica troviamo la seguente autointerpretazione dell’Esserci come Cura: La “Cura”, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po' e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire che cosa avesse fatto, interviene Giove. La “Cura” lo prega di infondere lo spirito a quello che aveva formato. Giove acconsente volentieri. Ma quando la “Cura” pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva formato, Giove glielo proibì e pretendeva che fosse imposto il proprio. Mentre la “Cura” e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato formato fosse imposto il proprio nome, perché gli aveva dato una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò loro la seguente equa decisione.: “Tu, Giove, poiché hai dato lo spirito, alla morte riceverai lo spirito; tu, Terra, poiché hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fintanto che esso vivrà lo possieda la Cura. Poiché però la controversia riguarda il suo nome, si chiami homo poiché è fatto di humus (Terra)”. (pag. 241) Questa favola, che lui ci racconta, ha una sua ragion d’essere che si vede alla fine. La Cura è quella che per prima ha dato forma, sta qui tutta la questione. La prima cosa che ha dato forma è la Cura ed è quando io mi prendo cura dell’utilizzabile che l’utilizzabile diventa quello che è. Poi, certamente, questa cosa (il posacenere) è fatta di vetro, è circolare, ecc., ma il primo gesto, il primo passo, è il prendersi cura, prendersi cura dell’utilizzabile, cioè, il trovarsi non soltanto gettati nel progetto ma gettati nel modo del prendersi cura, vale a dire, gettati nel modo per cui “io voglio fare qualcosa di qualcosa”. Il prendersi cura è questo, lo diceva prima, la Cura come essere dell’Esserci, come ciò che dà significato all’Esserci, cioè, a me. La cura è ciò che mi dà significato. E qual è il mio significato? Sono le cose che faccio e le cose che faccio le faccio per un motivo, quindi, io, ovviamente, in quanto Esserci, in quanto progetto gettato e sempre progettante, sempre nel volere fare qualcosa di qualcosa e, pertanto, sempre preso nella volontà di potenza. Potremmo poi dire che è questo il significato. Infatti, per Nietzsche l’essere è volontà di potenza. Questa testimonianza preontologica assume un particolare significato non solo perché vede nella “Cura” ciò a cui l’uomo appartiene “per tutta la vita”, ma perché questo primato della “Cura” vi risulta connesso alla nota concezione dell’uomo come compositum di corpo (terra) e spirito. Cura prima finxit… La prima a fissare le cose è la Cura. L’“essere-nel-mondo” ha la struttura d’essere della “Cura”. Come sono nel mondo? Prendendomi cura delle cose, cioè, degli utilizzabili e mi prendo cura di queste cose in quanto utilizzabili. Ed è la prima cosa, dice Heidegger, che interviene. La prima cosa che interviene è volere modificare qualcosa. Per dirla con Nietzsche: la prima cosa che interviene è la volontà di potenza.