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12-6-2013

 

Il concetto di “significato” è una questione cruciale sia nel campo della filosofia che nel campo della logica, della semiotica stessa, tutta la semiotica si occupa del significato, la “semiosi” non è nient’altro che questo. I primi ad occuparsene furono i greci, gli stoici, di cui non è rimasto quasi niente, però sono stati loro a dividere il segno in tre parti e cioè praticamente il “significato” il “concetto” e il “referente”, vale a dire il triangolo semiotico, e cioè il significante come l’aspetto sonoro, l’immagine acustica, poi il concetto, l’idea “albero” e poi l’alberello che se ne sta da qualche parte, questo è il triangolo classico dagli stoici fino ad oggi. Poi Pietro Ispano, nelle sue Summulæ Logicales parlava della significatio e della suppositio, dove la suppositio sarebbe il significante e la significatio il significato appunto. Questa distinzione, questa divisione è nota, potremmo dire, da sempre, non è stata un invenzione di De Saussure e neanche della semiotica, anche se De Saussure ne ha parlato in termini più espliciti e più articolati, e la semiotica ancora di più. La questione del significato interroga gli umani da quando esistono praticamente, perché è la domanda “che cosa vuol dire questo?” “che cos’è questo?” è il famoso “ti es ti”. Arrivati alla logica più recente, possiamo parlare per esempio di Russell, poi di Frege, che ha scritto un libro “Senso e significato” in questo caso la “denotazione” e la “connotazione”. La “denotazione” non è altro che la parola in quanto utilizzabile, in quanto dice qualche cosa, la “connotazione” è il suo significato che viene articolato. Nel discorso non è detto che una stessa parola abbia un significato identico nei vari contesti, il famoso esempio del cane che abbaia o del cane della pistola, il significato è differente a seconda del contesto, pur essendo il senso lo stesso, e cioè per intendere la connotazione, per produrre una semiosi cioè un significato occorre conoscere il senso di quella parola “cane”. Nella logica formale per esempio il significato di una proposizione è il suo valore di verità, non c’è un vocabolario propriamente nella logica formale, ci sono dei valori di verità e delle tecniche per stabilire a quali condizioni una certa sequenza è vera oppure no, è di questo che si occupa. Il significato è uno dei concetti chiave di tutto il pensiero, se non si conosce il significato di qualcosa non si va da nessuna parte, ora naturalmente ci si è posta la domanda intorno al significato, non soltanto al suo praticarsi nei discorsi, ma su che cosa sia un significato e cioè al significato del significato. Comunemente si intende con il significato del significato il riferirsi di un qualche cosa, di una parola a una cosa, il significato di penna è “aggeggio fatto in un certo modo che serve per scrivere” questo è il significato, che si riferisce a una cosa molto spesso e questo concetto di “significato del significato” è stato praticato sempre e ovunque. L’unico che si è discostato da questo è stato Wittgenstein, come sapete l’ha posto invece come l’uso che si fa di un certo termine, tutti i lemmi di un dizionario indicano qual è l’uso di quel certo termine un “uso” che è stato consolidato e poi accolto e che come sappiamo si modifica nel corso dei secoli, dei millenni, una lingua non è mai ferma, come il mare che è sempre in movimento, come le onde del mare. Il significato come uso che ha spostato un po’ la questione, poi ripresa in termini differenti dalla semiotica, perché se andiamo a leggere attentamente Greimas, anche lui afferma delle cose che sono molto vicino a questo. La semiotica non si occupa più del significante, cioè dell’immagine acustica, ma del significato, cioè della semiosi, della produzione del significato, come si produce il significato in una proposizione, in un racconto, quindi anche la semiotica. Per questo dicevo che la semiotica si è occupata del significato e a mio parere in modo più interessante di quanto abbia fatto la filosofia del linguaggio, che continua invece a girare intorno a delle nozioni piuttosto discutibili, lo stesso Carnap, Quine, Lewis, Kripke, Frege, Davidson, Grice, Dummet, Putnam, questa gente ha detto molto poco sul significato, senza riuscire ad andare da nessuna parte. La questione del significato in questi personaggi, cioè nella filosofia analitica in generale, a mio parere, non ha un grande interesse, si perdono dietro a distinzioni che lasciano il tempo che trovano senza arrivare mai a considerare la questione centrale che invece la semiotica, in parte Hjelmslev, in parte Peirce, ha colto, e cioè incominciare a interrogarsi radicalmente sul significato e porsi la domanda se è possibile dire qualcosa di sensato intorno al significato, cioè dire qualche cosa che dica che cos’è realmente il significato, o questo può farsi, e allora quando parliamo di significato sappiamo di cosa parliamo e possiamo applicarlo poi a tutte le varie storie che ci piacciono, oppure la nozione, il termine “significato” non ha propriamente un significato ma gli viene di volta in volta attribuito semioticamente dal gioco in cui è inserito. A questo punto parlare di significato diventa complesso perché non c’è più un significato da intendere come, dicevo prima tradizionalmente, come il passaggio dalla parola alla cosa, che dice che cos’è quella cosa. Appare a questo punto l’impossibilità di attribuire al significato un significato, e occorre incominciare a trarre le conseguenze da una cosa del genere, perché se il significato non ha un significato questo ci porta a considerare che può averne moltissimi, a seconda del gioco o del racconto o della storia o della teoria all’interno della quale è inserito. A questo punto parlare di significato significa parlare di un qualche cosa che di volta in volta ha un significato differente, ed è a questo punto che la cosa si fa interessante, perché a questo punto non c’è più il significato, c’è un termine che viene utilizzato di volta in volta in ambiti differenti, in accezioni differenti, dire che cos’è il significato non è possibile, si può dire in quali accezioni può comparire questo termine per esempio e addirittura se ne possono inventare altre, Questo porta a considerare che tutte le riflessioni fatte intorno al significato sono sempre partite dall’idea assolutamente falsa che il significato sia un quid e che si tratti soltanto di trovare quali sono le sue proprietà che lo identificano, questo è il concetto di tutta la filosofia analitica per esempio, in quella continentale quanto meno qualcuno ha posto qualche obiezione, ma quella analitica muove da lì cioè il concetto è un qualche cosa, senza poi arrivare al neo realismo con i suoi deliri. L’idea è che ci sia quindi questo quid, in questo caso parliamo di significato, e che si tratti soltanto di stabilirne le proprietà per poterlo identificare, individuare e quindi utilizzare; però chi lo dice che è così? E cioè che da qualche parte esista questo significato che è da individuare? Perché se non c’è, come per altro molti hanno cominciato a sospettare, se non è così allora è facile il passaggio successivo e dire cioè che quando parliamo di significato stiamo parlando di fatto di altre parole, di altri racconti, di altre storie e cioè il significato a questo punto non è nient’altro che un segno, cosa alla quale si approssima moltissimo Peirce come anche altri, è un segno, cioè un rinvio, un rinvio a che cosa? Alla cosa? No. Quale cosa? E se un significato non fa nient’altro che rinviare a un racconto che può essere di qualunque cosa, a un altro racconto, che cosa sta facendo? E in base a che cosa si muove questo significato? In base a delle regole ovviamente, che ne limitano l’utilizzo, ma queste regole, loro stesse, chiediamoci qual è il loro significato e ci troveremo da capo a considerare che queste regole non sono delle cose che stanno da qualche parte ma sono state decise a un certo punto, e qui si può fare, per esempio, l’esempio di Russell oppure le regole del calcolo proposizionale. Prendiamo Russell la sua famosissima affermazione che dice “il re di Francia è calvo”, che senso ha questa domanda? Quali sono le condizioni di verità di questa proposizione, che dice che il re di Francia è calvo? Visto che non c’è nessun re di Francia, e se non c’è non è né calvo, né chiomato, ora una domanda del genere non significa assolutamente, perché questa proposizione è vera rispetto al gioco che si sta facendo, se io faccio un gioco dove esiste un re di Francia e questo re di Francia ha una lunga chioma ecco che la proposizione che afferma che il re di Francia è calvo è falsa, se io mi riferisco invece al gioco che fa la realtà, allora non c’è nessun re di Francia di fatto oggi che parliamo, la Francia non ha un re ormai da tempo c’è un presidente che si chiama Hollande e quindi questa proposizione è impossibile da decidersi. Ma se si considerano i giochi linguistici la questione è risolta immediatamente, così come tutti i paradossi di cui parla Russell e la sua Teoria dei Tipi viene baypassata del tutto, cioè aggirata completamente, perché usando la teoria dei giochi, che è quella di Wittgenstein modificata, allora una proposizione è vera se è vera rispetto alle regole che stabiliscono quel certo gioco: se io faccio un gioco con certe regole che dicono che se si verificano certi eventi allora questi eventi sono veri, allora questi eventi sono veri. Chiaramente non c’è nessun riferimento a nessuna realtà, sono soltanto le regole del gioco, proprio come nel calcolo proposizionale, regole che sono assolutamente arbitrarie, e qui arriviamo a un altro esempio, se io dico che l’assioma, quello base della logica formale se A É (B É A) questa sequenza è vera, qualunque valore di verità si attribuisca alle sue variabili, è vera perché? E se tu Eleonora rispondessi che è vera per via delle tavole di verità, io ti chiederei che cosa ci garantisce che le tavole di verità ci garantiscano della Verità? Come sappiamo che questa sequenza è vera, chi lo dice? Lo abbiamo stabilito, e i logici qui non sono riusciti ad andare da nessuna parte, l’unica cosa di meglio che sono riusciti a dire è che è così che si ragiona comunemente, tutto qui, ma in effetti non è possibile dare un giustificazione di una cosa del genere, cioè intuitivamente si pensa che se dico che una cosa è vera e l’affianco ad un'altra vera, messe insieme saranno vere, perché? Perché è intuitivo, perché si ragiona così, perché? E lo danno come un modo naturale di pensare ed è qui la questione poi, la realtà del pensiero è questa, ma sono solo regole. Tutte queste cose che costituiscono il fondamento, la base della logica e di conseguenza del significato, perché tutta la logica non è nient’altro che un procedimento per stabilire qual è il significato di certe sequenze, la logica formale quali sono i suoi criteri di verità cioè le condizioni di verità di una proposizione, ecco che a questo punto ci si trova di fronte a un buco nero, un vortice che trascina in fondo tutto quanto. Di fronte a questo buco nero che inghiotte tutto, il significato a questo punto si svuota, tutte le operazioni logiche si riducono a qualche cosa che di fatto è soltanto un puro e semplice gioco che non approda a nulla, questo già Wittgenstein lo aveva detto “quando facciamo una dimostrazione possiamo soltanto dire che ci siamo attenuti alle regole del gioco del “dimostrare” che abbiamo stabilite ma niente più di questo”. Possiamo allargarla questa considerazione di Wittgenstein a qualunque cosa, compresa la sua stessa affermazione. A questo punto si pone una questione: il significato si svuota completamente, non è più niente, è soltanto ciò che di volta in volta decido che sia all’interno di un gioco, però viene usato ininterrottamente, da chiunque se vuole parlare, pensare o fare qualunque cosa, e quindi occorre trovare a questo termine, a questo sostantivo maschile singolare una accezione che gli restituisca una sorta di dignità, e cioè possa dirci come in effetti funziona questo termine, ecco che a questo punto si introducono i giochi linguistici ma come ho detto prima in accezione differente, rivisitata rispetto a quella di Wittgenstein, perché? Perché questa questione che Wittgenstein pone come “giochi linguistici” e cioè come sequenze costruite da regole, non tiene conto che anche il progetto di stabilire che i giochi linguistici sono fatti in un certo modo, lui stesso, questo progetto, questa affermazione è un gioco linguistico, e che cioè non c’è uscita da un gioco linguistico, qualunque cosa sia è un gioco linguistico, come è venuta in mente questa cosa? L’idea che ha consentito di uscire da questa impasse, per cui si parla ma non si sa di fatto come sia possibile, perché dice bene Wittgenstein “il significato è l’uso” ma se questo termine “significato” si sfalda, si dissolve in miliardi di cose, come lo utilizzo?” Come utilizzo qualche cosa? Ecco, dicevo prima, l’idea è partita da una domanda fondamentale cioè “come si impara a parlare?” da qui il passaggio successivo “come si è insegnato a delle macchine?”. Che cosa consente a una macchina di funzionare, cioè che cosa consente agli umani di funzionare e quindi di parlare e di conseguenza di pensare? Informazioni e istruzioni che dicono come costruire delle sequenze, dicono quali sequenze sono riconosciute come tali e quali no, e via discorrendo. A questo punto si è aperta la via a una questione di straordinario interesse, e cioè il fatto che qualunque cosa sia, questa cosa, se è qualche cosa, appartiene a un qualche gioco linguistico, compresa questa stessa affermazione. È possibile dire che cos’è il significato? Per fare questo il significato dovrebbe essere fuori dal linguaggio, ma se è fuori dal linguaggio non è un significato.

Intervento: potrebbe essere un operatore deittico?

Gli operatori deittici servono a stabilire il significato, cioè le condizioni di verità di una proposizione, ma non sono un significato, non hanno di fatto nessun significato. Ma dire che il significato non ha nessuna possibilità di essere descritto, individuato una volta per tutte perché non c’è fuori dalla parola e se è nella parola, come già la semiotica ha insegnato, è connesso con infinite altre cose quindi ci troviamo di fronte al problema già noto ad Agostino e poi anche a Wittgenstein “come è possibile imparare a parlare se il significato di ciascun elemento è una variabile” potremmo dirla così. Allora si tratta di questo: rendere questo termine “significato” anziché come un dato da descrivere, da definire eccetera, come un problema, cioè problematizzarlo come si usa dire in filosofia, renderlo un problema che interroga e continua a interrogare, non per aggiungere altre cosette che il “significato” sarebbe o non sarebbe, ma per chiedersi che senso ha questa domanda “che cos’è il significato?” se questa domanda ha un significato per esempio, come possiamo chiederci “cos’è un significato” se ancora non abbiamo stabilito cos’è un significato? È la stessa questione della verità, come possiamo chiederci che cos’è la verità, se una cosa è vera oppure no, se ancora non sappiamo che cosa sia, da qui l’unica via possibile deve risultare l’unica praticabile, e cioè quella dei giochi linguistici posti in questi termini e cioè come istruzioni semplicemente.