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12 maggio 2021

 

L’essenza della verità di M. Heidegger

 

Ci ha detto Platone che l’essenza della verità è la dis-velatezza, τό άληθές. Della disvelatezza molto ci ha detto e ci sta dicendo Heidegger, e cioè l’idea che la luce faccia apparire le cose, perché si vedono, e ci ha ricordato che per i Greci la vista è prioritaria su tutto. Infatti fenomeno ha come radice φῶς (phòs), φανεσθαι (phainesthai), l’apparire in luce, venire in luce: il fenomeno è ciò che letteralmente viene in luce. Platone connette la luce con le idee, le idee sono la luce. La luce è una metafora, così come il sole, è una metafora per indicare le idee, sono le idee che consentono di vedere gli enti. Ma le idee, nell’accezione di Platone, sono l’essere, e l’essere, come ci ha spiegato Heidegger in altri testi, per il greco antico è il λόγος (lògos). C’è tutto un percorso che viene fatto originariamente dal greco antico nel momento in cui si accorge che parla, in cui si accorge della priorità del λόγος, pur mantenendo la priorità anche della visione, quindi, della luce. D’altra parte, il concetto di verità per il greco antico è il non essere al buio, cioè, l’essere in luce. Quindi, la verità è il non essere al buio; se non sono al buio vedo la luce e vedo le cose. Da qui la dis-velatezza. Siamo a pag. 92. Nel contesto del Libro VI della Πολιτεία viene affrontata la questione di che tipo di uomo sia il φιλομαθής È l’uomo che scende giù nella caverna e vorrebbe portare la buona novella. …che ha l’impulso a imparare, a diventare sapiente, ad attuare il sapere autentico, e invero ό ντως φιλομαθής, che fa effettivamente l’impulso a imparare realmente. Di lui si dice: “Egli è tale che, per sua essenza, porta con sé l’ardore per l’ente come tale; egli non può fermarsi alle molte singole cose che ci sono e che ritiene siano l’ente, e si mette piuttosto in cammino, senza lasciarsi accecare e senza abbandonare l’ρως (eros)… L’ρως per il greco antico era la passione intellettuale, anche sessuale, ma soprattutto intellettuale. …il suo intimo impulso, finché non è giunto ad afferrare ciò, έστιν: ciò che costituisce il “che cos’è” di ciascun singolo ente entro il tutto, cogliendolo e con-cependolo invero con quella facoltà dell’anima cui spetta di cogliere tale “che cos’è”, poiché ha con esso (con l’ίδέα) la medesima origine. Il “che cos’è” è la ricerca dell’essere dell’ente, ma hanno la stessa origine, vengono entrambi dal tutto, vengono entrambi dalle idee. È l’idea che, nel mito di Platone, è luce che illumina e quindi fa vedere, fa apparire il fenomeno, fa esistere il fenomeno. Vedendo con questa facoltà dell’anima, colui che realmente desidera imparare si avvicina all’ντως ν, all’ente che è essentemente, lo incontra, si mescola ad esso. Qui viene in mente Gentile: si mescola a esso, cioè, diventa quella cosa lì; ma non è che prima non lo sia, lo è nel momento in cui si approccia a una qualunque cosa. Ricordate le parole di Gentile: quando penso qualche cosa, non penso il qualche cosa ma sto pensando il mio pensiero. Quando parlo di qualcosa non parlo di quella cosa lì, ma sto parlando del linguaggio. Producendo così un’apprensione e un coglimento reali e la svelatezza, egli conoscerà ed esisterà veramente, si nutrirà di sé e si libererà così del doloro (cioè del patire in generale). Dice Producendo così un’apprensione e un coglimento reali. È come se in qualche modo si accorgesse di essere quella cosa di cui sta parlando. Potremmo aggiungere con Gentile che se non lo fosse non potrebbe parlarne. A pag. 96. Che cosa sarebbero allora le idee “per sé”? ίδέα è ciò che viene avvistato. Questo, in quanto tale, è solo nel vedere e pe un vedere. Un avvistato non visto è come un quadrato rotondo o un ferro ligneo. Le “idee” alla dobbiamo fare i conti con questa denominazione che Platone ha dato all’essere. “Avvistato” non indica un’aggiunta, un predicato supplementare, qualcosa che talvolta succede alle idee, bensì ciò che le caratterizza in generale e sopra ogni cosa. Esse si chiamano idee appunto perché primariamente sono intese come qualcosa che è avvistato. Qui il termine avvistato l’ho inteso, per comprendere meglio la questione, come un far proprio un qualche cosa o, come diceva Gentile, accorgersi di essere quella cosa lì che sto vedendo. Non sto vedendo la cosa, sto vedendo il mio vedere quella cosa: in questo senso potremmo intendere l’avvistare. Poi, ciascuno può interpretarlo come più ritiene opportuno. Quest’ultimo è avvistato, in senso stretto, solo dove ci sono un vedere e un guardare. Dico “in senso stretto” a ragion veduta. Qui dobbiamo attenerci al senso stretto, perché questo è un passo in cui, con la nostra interpretazione, andiamo al di là di Platone o, più precisamente, in un passo in cui Platone, per ragioni assolutamente fondamentali, non poté spingersi oltre (cfr. il Teeteto)... Qui rinvia al Teeteto, che non a caso costituisce la seconda parte di questo libro. …il che ha avuto come conseguenza questo ribaltamento: che da allora in poi l’intero problema dell’idea è stato sospinto a forza in una direzione che ha condotto al suo fraintendimento. Il problema delle idee può essere posto su nuove basi solo se viene inteso a partire dall’originaria unità che lega assieme ciò che scorge e ciò che viene scorto. Qui c’è ovviamente Hegel. Dovremo aspettare fino a Hegel perché arrivi questa unità, l’Aufhebung, il superamento della separazione. Dice: Il problema delle idee può essere posto su nuove basi solo se viene inteso a partire dall’originaria unità che lega assieme ciò che scorge e ciò che viene scorto: il dire e il detto, l’immanente e il trascendente. Ciò che scorge è lo scorgere, il vedere, il dire; ciò che viene scorto è il detto. Ma di che tipo di guardare si tratta? Non di un osservare-fissando, come quando ad esempio guardiamo a bocca aperta qualcosa che è presente, né di un mero trovare-davanti e assumere nello sguardo, ma di un guardare nel senso dello scorgere, vale a dire del formare anzitutto attraverso il guardare e nel guardare ciò che viene scorto (la veduta) – formarlo anticipatamente, pre-formarlo. Questo scorgere l’essere, l’essenza, che si pre-forma, si vincola già anche a ciò che è progettato in tale progetto. Qui sta dicendo una cosa importante. Questa unità è propriamente ciò che forma ciò che vedo, l’unità fra lo scorgere e lo scorto. Una unità che è inscindibile, non posso separare le due cose; se le separo ci sono tutti i fraintendimenti sui quali si è fondata in buona parte la filosofia.

Intervento: questa unità è l’atto di parola?

È l’atto, che diciamo di parola per precisare, ma l’atto è necessariamente atto di parola, non ce ne sono altri. L’atto, nell’attualismo di Gentile, è l’integrazione di due momenti, il pensante e il pensato. Sono tutte figure che si ripetono continuamente e sono sempre le stesse: significante e significato, immanente e trascendente, pensante e pensato, ente ed essere. Ciò di cui si sta parlando è sempre la stessa cosa, sono i due momenti che costituiscono l’atto di parola: il dire e il detto. Questo scorgere, così caratterizzato, non è meno coinvolto di ciò che è scorto nel guardare – cioè le idee – nell’origine della svelatezza delle cose, dell’ente, ovvero nel passaggio dell’ente attraverso l’essere. Questo scorgere, inteso così come lo intende Heidegger, è fatto delle idee, che sono all’origine della svelatezza delle cose e che consentono il passaggio dell’ente attraverso l’essere, anche se non è che ci sia prima l’uno e l’altro dopo, come si potrebbe falsamente intendere. In realtà, la svelatezza mostra, sì, l’ente, ma questa svelatezza è l’idea, è l’idea che svela. Dire che le idee contribuiscono a costituire la svelatezza equivale a dire che esse non sono niente “in sé”, non sono mai oggetti. Anzi le idee, essendo qualcosa di avvistato, sono solo (se mai possiamo dire così) in questo vedere che scorge, hanno un riferimento essenziale allo scorgere. Lo scorgere può anche essere inteso un po’ come l’oracolo, che non dice ma accenna, o come il mito che indica senza propriamente determinare, senza specificare, mostra una direzione, come dire “vai di là e vedrai che ci sarà qualcosa di interessante”. Quindi, lo scorgere un qualche cosa che l’ente non è ma che si pone come condizione dell’ente. Quello che è il filosofo per Platone, e ancor più per Heidegger, è colui che scorge l’essere nell’ente e, quindi, non si accontenta dell’ente, vuole l’essere, vuole l’idea, vuole il significato, vuole il concreto, vuole il tutto, vuole il linguaggio. Le idee non sono quindi affatto oggetti presenti, nascosti da qualche parte, che si potrebbero scovare per mezzo di qualche incantesimo. Ma tanto meno sono qualcosa che i soggetti portano in giro con sé, qualcosa di soggettivo nel senso che vengono fatte ed escogitate da soggetti (dagli uomini, così come li conosciamo). Esse non sono né cose, oggettivamente, né sono alcunché di escogitato, di soggettivo. Che cosa esse siano, come esse siano, anzi, se esse in generale “siano”, è fino ad oggi una questione aperta. Giustamente, nel senso che se si tratta di uno scorgere, lo scorgere lascia sempre e questioni aperte. È come dire che, di fronte al problema, non ci si pone come di fronte a un qualcosa da risolvere, ma come un qualcosa da pensare. Il problema è questo, non è qualcosa in attesa di essere risolto, cioè di essere dominato, ma in attesa di essere pensato. La questione è rimasta aperta non perché la risposta non sia stata ancor trovata, ma perché non è mai stata posta seriamente nel modo e all’altezza in cui la posero gli antichi, cioè non è stata sufficientemente esaminata nella sua impostazione. Anziché farsi carico di ciò, si decide precipitosamente per l’una o per l’altra delle due uniche possibilità conosciute: o le idee sono qualcosa di oggettivo (e siccome non si sa “dove” collocarle, si arriva alla fine a pensarle come “validità” e “valore”), oppure sono qualcosa di soggettivo, dunque forse solo una finzione “come se”, una mera immaginazione (fantasticata). All’infuori di soggetti e oggetti non si conosce niente e, soprattutto, non si sa che già proprio questa distinzione di soggetto ed oggetto è quella più problematica, che ormai da lungo tempo beffa la filosofia. O almeno fino a Hegel. Di fronte a questa completa confusione in seno al problema più centrale della filosofia in generale… Quando parla di filosofia dovremo pensare il pensiero, il pensare stesso. …il passo più apprezzabile e genuino da fare rimane ancora oggi quello di porre le idee, come fa a esempio Agostino, come pensieri creatori dello spirito assoluto o, in termini cristiani, di Dio. Certo, questa non è una soluzione filosofica, bensì un accantonamento che ha un genuino impulso filosofico, che di continuo ritorna nella grande filosofia, e da ultimo, in grande stile, con Hegel. A pag. 99. Qui parla dello svelante come liberazione. Essa è la cura pura e semplice: divenire-liberi nel senso di vincolarsi alle idee, lasciare la guida all’essere. Detto così potrebbe lasciare un po’ perplessi o indifferenti, ma se invece ascoltiamo con attenzione quello che dice, allora il discorso cambia. Divenire-liberi nel senso di vincolarsi alle idee, dice. Ma a questo punto sappiamo che cosa sono le idee: sono l’essere, sono il linguaggio, sono il tutto. Quindi, essere liberi è vincolarsi al linguaggio. Cosa vuol dire questo? Non potere più non sapere di essere linguaggio, non posso più fare come se non sapessi che sono fatto di linguaggio, perché io sono quello che dico e quello che dico mi altera, mi muta, mi cambia ogni volta: dicendo qualche cosa non sono più quello di prima di dire quella cosa. A pag. 100. Avremmo tuttavia compreso male l’intera interpretazione del mito della caverna svolta fin qui, se non avessimo già appreso da dove ricavare il concetto di uomo. Infatti questo mito racconta proprio la storia nella quale l’uomo perviene a se stesso come a un essere che esiste in mezzo all’ente. Questo uomo, che perviene all’essere, è il filosofo, è quell’uomo che perviene al linguaggio. Per Heidegger comincia a essere un qualche cosa che allude al linguaggio. Nemmeno Heidegger ne parla mai in modo diretto, se non per qualche barlume ogni tanto, come quando dice che il linguaggio è il pastore dell’essere. Tuttavia, anche lui non ha mai messo a tema e problematizzato la questione del linguaggio, anche se ha scritto il ponderoso saggio In cammino verso il linguaggio, dove tuttavia non coglie la questione centrale, e cioè che lui, scrivendo quel saggio che si chiama In cammino verso il linguaggio, è nel linguaggio, e che tutto ciò che scrive è una produzione del linguaggio, di cui lui stesso è fatto. Perché nessuno ha mai inteso questo? E in questa storia dell’essenza dell’uomo il punto decisivo è proprio l’accadere della svelatezza, cioè la svelatività. Quando accade la svelatezza? Quando l’ente si mostra per quello che veramente è. Qualcosa si appalesa per via del fatto che sto parlando, perché se non parlassi non si mostrerebbe nulla, non ci sarebbe nessun fenomeno, non ci sarebbe la luce, l’ombra, non ci sarebbe niente. Soltanto l’essenza della verità ci consente di capire l’essenza dell’uomo. Quando dicevamo che proprio questa essenza della verità (la svelatività) è l’accadere che riguarda l’uomo, intendevamo dire che l’uomo, così come lo vediamo lì, nel mito, nella sua liberazione, è tras-posto nella verità. Questa è il suo modo di esistere, l’accadimento fondamentale dell’esserci. Questo tras-posto nella verità vuol dire che fa sua questa verità della svelatezza, per cui l’ente è quello che è per via della luce, cioè, per via del linguaggio, per via dell’essere. La svelatezza originaria è il dis-velare progettante, come accadimento che accade “nell’uomo”, cioè nella sua storia. La verità non è né presente da qualche parte al di sopra dell’uomo (come validità in sè), né è nell’uomo come soggetto psichico, ma al contrario l’uomo è “nella” verità. La verità è più grande dell’uomo. Questi è nella verità solo quando e nella misura in cui è padrone della propria essenza. Egli si mantiene nella svelatezza dell’ente e si rapporta, così, a esso. Dice che l’uomo è “nella” verità, cioè, è già da sempre nella verità, sennò non la troverebbe mai, e infatti non la trova perché ci è già dentro. Qui dobbiamo tornare alle parole sagge di Gentile: la verità non è la verità del mio dire intorno a qualche cosa, che può essere vero o falso, la verità è il fatto che io sto dicendo. Potremmo dire che la verità è necessaria all’agire del linguaggio: il linguaggio agisce attraverso la verità, agisce attraverso il fatto che se affermo di porre qualcosa che non sto ponendo, allora in questo caso mi contraddico. Perché in questo caso non posso accogliere la contraddizione? Per chi ha seguito Severino sarebbe la contraddizione C, la grande contraddizione, quella contraddizione che non può togliersi. Dicevo che non posso contraddirmi in questo caso perché, contraddicendomi, non posso più proseguire, il linguaggio si arresta. Se il linguaggio pone qualche cosa affermando che non la sta ponendo, non può andare avanti. Ha la necessità che questa cosa che sta ponendo sia quella cosa che sta ponendo. Come dicevamo tempo fa, non c’è propriamente contraddizione nel linguaggio, ma in ciò che il linguaggio costruisce; il linguaggio non può essere contraddittorio, non esisterebbe se fosse contraddittorio. A pag. 102. Chi è dunque quest’uomo del mito della caverna? Non l’uomo preso in assoluto e in generale, ma quell’ente ben determinato che si rapporta a ciò che è come a qualcosa di svelato e che, in tale rapporto, è svelato a se stesso. Cioè, a colui che parla, il Dasein, l’esserci per Heidegger. Questa svelatezza dell’ente però, in cui l’uomo sta e si mantiene, accade nello scorgere che progetta l’essere, ovvero, nelle parole di Platone: le idee. Cioè, nel linguaggio. Ma questo scorgere che progetta accade come liberazione di quest’essere per se stesso. L’uomo è quell’ente che comprende l’essere e che, sul fondamento di questa comprensione dell’essere, esiste, il che significa fra l’altro: si rapporta all’ente in quanto svelato. Naturalmente, questo sarebbe il filosofo, non chiunque, cioè, colui che ha posto e continua a porre il linguaggio come problema, come ciò che è da pensare. A pag. 104. Cerchiamo l’essenza della verità come svelatezza dell’ente della svelatività intesa come un accadere svelante, sul cui fondamento l’uomo esiste. Soltanto questo accadere determina l’essenza dell’uomo – di quell’uomo, beninteso, di cui si tratta qui nel mito della caverna. L’uomo è quell’ente che comprende l’essere e che esiste sul fondamento di questa comprensione dell’essere. È il filosofo, colui che pensa, che ha posto cioè il linguaggio come problema. Torno a ripetere, non come problema da risolvere, ma come qualcosa da pensare. A pag. 105. Il quarto stadio, l’ultimo: il prigioniero liberato ridiscende nella caverna. “E ora considera anche questo: se colui che è stato liberato in questo modo ridiscendesse e si mettesse a sedere allo stesso posto, non avrebbe improvvisamente, venendo dal sole, gli occhi pieni di buio? “E molto”. “E se ora dovesse competere nuovamente, con coloro che sono sempre rimasti incatenati colà, nell’esprimere opinioni sulle ombre, mentre ha ancora gli occhi offuscati, prima cioè di averli di nuovo adattati al buio, cosa che richiederebbe un non breve periodo di adattamento, non sarebbe esposto laggiù al ridicolo e non gli si direbbe forse che è salito solo per ritornare con gli occhi rovinati, e che dunque non vale assolutamente la pena di andare su? E non pensi che essi (gli incatenati), se qualcuno si adoperasse per liberarli dalle catene e per condurli verso l’alto, se potessero afferrarlo e ucciderlo, lo ucciderebbero veramente? “Certamente”. Che cosa accade qui? Non c’è più un’ascesa, e si è invece compiuta un’inversione; ritorniamo dove già eravamo, a ciò che già conosciamo. Ritorniamo a ciò che conosciamo perché è da lì che siamo partiti: dalla chiacchiera, la caverna è la chiacchiera. Ma ci torniamo dopo avere visto l’essere, la luce, dopo avere visto il linguaggio, dopo esserci accorti dell’esistenza del linguaggio. Quindi, ciò che conoscevamo prima non è più lo stesso, non è più la stessa cosa, non è più pensabile allo stesso modo, è cambiato tutto. Le cose sono le stesse, le ombre, i pupazzi sono gli stessi, ma queste cose non le vediamo più allo stesso modo. L’άληθές e l’άληθεια non vengono nemmeno più nominati. Perché? L’essenza della verità, dell’άληθεια, è già stata chiarita alla fine del terzo stadio. Se riflettiamo su tutto ciò, avremmo seri dubbi sull’opportunità di considerare quanto raccontato nel passo appena citato come uno stadio a sé stante e magari come ultimo. Esso è semmai ultimo nel senso che dà una conclusione che abbellisce il tutto, senza però più contribuire al contenuto essenziale. Così sembrano stare, di fatto, le cose, se indaghiamo esteriormente ciò che ci viene presentato alla ricerca di risultati tangibili. … se prestiamo attenzione e se diamo ancora uno sguardo d’insieme a quanto narrato da ultimo, non potremo non rimanere sorpresi. Con che cosa termina questo accadere? Con la prospettiva sulla morte! È un argomento questo, di cui finora non si era trattato. Se il destino della morte non è una cosa qualsiasi nell’accadere umano, allora nell’ultima parte del racconto dobbiamo vedere qualcosa di più di un’innocua aggiunta, di una raffigurazione conclusiva di tipo poetico. … 1. Il tutto termina con la prospettiva sul destino del venire uccisi, la più radicale espulsione dalla comunità storico-umana. Della morte di chi si tratta qui? Non già della morte in assoluto e in generale, ma della morte in quanto destino di chi vuole realmente liberare i prigionieri nella caverna, dunque della morte del liberatore. Di essa finora non si era mai parlato. Abbiamo saputo soltanto, nel terzo stadio, che la liberazione deve accadere ϐία, con violenza. Nella nostra interpretazione dicevamo che il liberatore deve compiere un atto di violenza. 2. Ora vediamo che il liberatore è ό τοιούτος, è uno che è diventato libero in modo da vedere nella luce e quindi una posizione sicura nel fondamento dell’esserci storico-umano. Da lì soltanto gli proviene anche la fora per quella violenza con cui deve agire nella liberazione. Questa violenza non è un cieco arbitrio, bensì il trascinare fuori gli altri a guardare quella luce che già riempie e vincola il suo sguardo. Questa violenza non è nemmeno brutalità, bensì il fatto proprio del sommo rigore, che è quello spirituale cui il liberatore stesso si è sottomesso. Già. Ma noi, che conosciamo Nietzsche, gli riponiamo ancora la stessa domanda: perché? Qui ci dice una cosa in più: parla di sommo rigore, che è quello spirituale cui il liberatore stesso si è sottomesso. Si è sottomesso a che cosa? A quale rigore? Alla conoscenza della verità? Può darsi, ma qui c’è qualcosa in più, c’è qualche cosa che lo spinge a volere imporre la sua verità, potremmo dire la verità del linguaggio, a coloro che non ne sono al corrente. Cosa spinge a fare questo? La volontà di potenza, nient’altro che questo. Perché se non intervenisse la volontà di potenza, non gliene importerebbe assolutamente nulla di portare la verità a quegli altri. Ma vediamo se ci precisa meglio. 3. Chi è questo liberatore? Di lui sappiamo solo questo: è uno che, dopo essere salito e uscito dalla caverna, contempla al di fuori di essa le idee, si pone nella luce e così “sta nella luce”. Uno così Platone lo chiama espressamente φιλόσοφος. Così egli dice nel Sofista: “Filosofo e colui al quale sta a cuore scorgere l’essere dell’ente, pensandolo di continuo. Per il chiarore del luogo in cui sta, non è mai facile vederlo; infatti lo sguardo dell’anima della moltitudine è incapace di perseverare nel volgere lo sguardo al divino”. Sappiamo che il divino per il greco antico non è il Dio ma è l’assoluto. La questione, però, rimane. Ma qui ci dà un piccolo elemento ancora. A pag. 109. 4. Il filosofo, quale liberatore degli incatenati… Gli incatenati sarebbero quelli che sono nella chiacchiera. …si espone al destino della morte nella caverna; nota bene: della morte nella caverna e per mano degli abitanti della caverna, che non sono padroni di sé. Platone vuole evidentemente ricordare la morte di Socrate. Si dirà allora che questo legame del filosofo con la morte è stato un caso unico e che non necessariamente questo destino è proprio del filosofo. Del resto ai filosofi è andata tutto sommato bene; se ne stanno indisturbati nel loro guscio e si occupano di belle cose. Oggi poi il filosofare (posto che ci sia) sarebbe un’occupazione del tutto scevra di pericoli. In ogni caso ai giorni nostri non verrebbe più ucciso nessuno. Ma dal fatto che non esiste più questo pericolo possiamo concludere solo che nessuno più si avventura a tanto – e perciò, che non ci sono più filosofi. Non lo dice espressamente, ma se qualcuno cominciasse a dire coraggiosamente queste cose pubblicamente, allora forse le cose non andrebbero così bene, perché quelli che sono incatenati sono gli stessi di allora, quelli del mito, non sono cambiati di una virgola. Tuttavia tale questione, se oggi ci siano o non ci siano filosofi, possiamo lasciarla stare. Essa non viene comunque decisa pubblicamente su riviste, su giornali o alla radio, non può essere affatto decisa da un pubblico. Dobbiamo invece riflettere su qualcos’altro:… Tenete conto che stiamo cercando di vedere se ci dice qualche cosa sul perché questo tizio è ridisceso: è questo che ci interessa. …l’uccisione a opera degli incatenati nella caverna deve consistere necessariamente nel porgere la coppa di veleno, come nel caso di Socrate, e quindi nella morte del corpo? Non è forse anche questa una similitudine? La cosa più grave è forse il processo del morire del corpo? O non piuttosto l’effettivo (effettivo lo dico io), costante, avere-davanti-a-sé la morte durante l’esistenza? E, di nuovo, la morte non soltanto nel senso corporeo del morire, bensì in quello dell’annullarsi e dello svanire della propria essenza? Nessun filosofo è sfuggito finora al destino di questa morte nella caverna. Il filosofo è esposto alla morte nella caverna, e ciò vuol dire: il fare filosofia autentico è impotente nell’ambito dell’imperante ovvietà;… Questa è una cosa di cui occorre tenere sempre conto. …solo nella misura in cui questa stessa si trasforma, la filosofia può trovare risonanza. Il problema è trasformarla, naturalmente. Questo destino sarebbe oggi, nel caso ci fossero filosofi, più minaccioso che mai. L’avvelenamento sarebbe molto più velenoso, perché più nascosto e più lento a entrare in circolo. Non verrebbe provocato da una lesione esteriore visibile e neppure da un attacco e da una lotta che lascerebbero pur sempre la possibilità di difendersi realmente, di misurare le forze e quindi di liberarle e accrescerle. L’avvelenamento avrebbe luogo se nella caverna ci si interessasse del filosofo, dicendosi l’un l’altro che questa filosofia merita di essere letta; se nella caverna si dispensassero premi e onori, se si procurasse lentamente al filosofo una celebrità su giornali e riviste, se lo si ammirasse. L’avvelenamento consisterebbe oggi nello spingere il filosofo nell’ambito di ciò che al momento desta interesse, su cui si chiacchiera e si scrive, cioè nell’ambito di ciò di cui in pochi anni con ogni probabilità non ci si interesserà più; perché appunto ci si può interessare solo di ciò che è nuovo, e solo fintanto che anche altri lo fanno. Il filosofo verrebbe così tacitamente ucciso – reso innocuo e inoffensivo. Egli vivrebbe, vivendo, la propria morte nella caverna – e dovrebbe sopportarla; fraintenderebbe se stesso e il proprio compito, se volesse abbandonare la caverna. Essere liberi, essere-liberatori, è agire attivamente nella storia di coloro che, quanto all’essere, fanno parte di noi. Egli dovrebbe restare nella caverna (presso gli incatenati) e collaborare con i filosofi in auge colà, alla loro maniera. Qui c’è una piccola cosa, che però merita di essere sottolineata. Dice agire attivamente nella storia di coloro che, quanto all’essere, fanno parte di noi. Ci ha detto il motivo per cui il filosofo è ritornato nella caverna: perché gli incatenati fanno parte di lui. In che modo fanno parte di lui? Fanno parte di lui nella sua storia. Questo Nietzsche lo aveva capito molto bene: tutto ciò che mi accaduto negli anni della mia vita – di bello, di brutto, di entusiasmante, di disdicevole, di riprovevole, di encomiabile, ecc. – tutto questo sono io. E così tutti gli altri sono me. Questo c’era già in Hegel in qualche modo, ma soprattutto in Gentile: tutti questi altri con cui vivo sono me, perché fanno parte del linguaggio, sono enti in mezzi ai quali io mi muovo, e questi enti sono enti perché c’è il linguaggio. La famosa frase di Nietzsche: “Ciò che fu, io volli che fosse”, cioè, me ne assumo la piena responsabilità di tutto quello che ho fatto, anche le cose più ignobili le ho volute. Ora, questo può estendersi, e qui Heidegger lo fa, alla storia di ciascuno, alla storia del pianeta, alla storia universale: tutti quanti fanno parte di questa storia in cui io mi trovo e ognuno che fa qualche cosa, modifica questo mondo in cui io mi trovo e, modificandolo, modifica me. Quindi, questo è il motivo, secondo Heidegger, per cui l’uomo, il filosofo, deve ritornare nella caverna. Che, poi, in fondo è quella cosa che Sartre chiamava engagement, il prendere parte, l’essere partecipi, l’impegno, l’impegnarsi in qualche cosa. Sartre non lo faceva derivare direttamente dal mito della caverna, Heidegger sì, a modo suo. Però, è sempre presente, direttamente o indirettamente, questa idea, e cioè che gli altri sono io, per cui occuparmi degli altri significa occuparmi di me, e non posso non farlo. Questo è il motivo per cui il filosofo torna nella caverna. Naturalmente, ciò che dicemmo prima rimane, perché il progetto è sempre quello di modificare gli enti, e cioè di imporre una volontà. Io mi occupo degli altri, perché? Perché gli altri sono io. Sì, certo, o almeno supponiamo che sia così, però me ne occupo per modificarli, sennò non me ne occuperei; questo impegno è un impegno a fare, cioè, a modificare. E il motivo per cui voglio modificare è la volontà di potenza, imporre la mia volontà su altri o su altro. Questo è anche il motivo per cui Socrate si beve la cicuta, perché lui è questi altri che lo hanno condannato a morte. A pag. 111. Platone è giunto in tarda età a questa vetta dell’esistenza. Kant aveva in sé qualcosa di questa suprema libertà. Oggi il veleno e le armi sono invero pronti a uccidere, ma manca il filosofo – poiché oggi, se tutto va bene, ci possono essere solo sofisti più o meno validi, che tutt’al più preparano la via a un filosofo che deve venire. Qui sarebbe da rileggere il Così parlo Zarathustra di Nietzsche, come il cammino che porta al filosofo, sempre nell’accezione in cui ne parlano Heidegger e Platone. Tuttavia non vogliamo perderci in una psicologia dei filosofi, bensì capire dal desino di chi fa filosofia l’intima missione del filosofare. Giacché a questo allude chiaramente il mito, se colui che capisce è il filosofo e se si deve illustrare il destino del liberatore in quanto liberatore. E, allora, qual è il suo destino? Il porre in atto la volontà di potenza. È questo che ci sta dicendo; non lo dice, non lo vuole dire o non lo sa. È questo il suo destino: il filosofo torna giù per mettere in atto ciò che non può non fare. Ed è questo che non può non fare: mettere in atto la volontà di potenza, non può non affermare quelle cose che ritiene siano vere. E perché ha bisogno di altri, dell’altro? Perché deve eliminarlo, perché l’altro è il non-Io, e il non-Io è ciò che si contrappone all’Io, e contrapponendosi, di fatto, nega l’Io. Il detto nega il mio dire. Hegel continua a dire incessantemente che il detto nega il dire, il per sé nega l’in sé, ma è negandolo che lo fa esistere. Quindi, ho bisogno dell’antagonista perché ciò che io penso sia vero, esattamente così come l’essere ha bisogno del non-essere, in quanto negato, per potere essere. Ciascuno – parlante, esserci – ha bisogno dell’antagonista, proprio come l’essere ha bisogno del non-essere, cioè, ha bisogno di qualcosa che si opponga per eliminarlo. L’Io ha bisogno del non-Io per eliminarlo e per potere, quindi, diventare Io. Questa è la lezione di Hegel, ma dicendo questo non ha fatto altro che dire come agisce il linguaggio. Prendete il significante e il significato: il significante ovviamente non è il significato. Il significante si dice, ma dicendosi necessita di un significato, sennò non significa niente, è nulla. Quindi, ha bisogno di qualcosa che lo neghi per essere ciò che è. Da qui la necessità dell’opponente, del contrastante, del nemico: è strutturale all’atto di parola.