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12 aprile 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Abbiamo un po’ di cose da discutere. Qui Heidegger, leggendo Aristotele, fa un discorso complesso ma interessante intorno alle emozioni, al παθος. Παθος generalmente si traduce con passione. La passione è una delle emozioni. Ciò che sta dicendo in queste pagine è che sono proprio le emozioni a stabilire il modo in cui ascoltiamo le cose, le diciamo, le pensiamo. Heidegger considera molto semplicemente che una persona può essere situata in due modi: soddisfatta e insoddisfatta. Quando è soddisfatta? Questo lo diceva nelle pagine precedenti: quando ha raggiunto il fine, quando qualcosa si è compiuto, quando qualcosa è dominato. Se la cosa non è dominata c’è insoddisfazione e allora ci si adopera per dominare quella cosa che è sfuggita al controllo. Tutte queste operazioni sono quelle cose che comunemente si chiamano emozioni, passioni. Giungere a dominare l’ente è la passione più ricercata, perché è quella che illude di avere trovato la quiete. L’ente dominato è l’ente che, potremmo dire, in generale è in quiete, che non inquieta più. L’inquietudine ha a che fare con gli estremi, quindi si tratta di trovare il mezzo, il centro della questione, che è la più lontana dagli estremi – se consideriamo gli estremi come ciò che altera la situazione, cioè, la sottrae al controllo. Sappiamo che cosa si vuole dominare: l’ente. Ma l’ente è una parola, un discorso, e lo dirà qui tra poco. L’essere, in fondo, non è altro che le passioni, le emozioni, i modi in cui io sono situato, in una determinata situazione. Controllare gli enti, cioè, controllare le parole, significa una cosa soltanto, almeno teoreticamente: togliere alla parola tutti gli infiniti rinvii in cui si disperde, tutti quei rinvii che mi impediscono di dominare la parola. Questo è il problema del linguaggio: ogni parola, per potere essere quella che è, necessita, come sappiamo, di rinvii che dicono che cos’è, ma se tolgo i rinvii tolgo la parola stessa. Ora, l’essere situato, come dice Heidegger, la situatività, è il modo in cui ciascuno si trova nei confronti dell’ente che intende dominare. È emblematico il modo che, riprendendo da Aristotele, descrive per persuadere qualcuno: occorre fare in modo che questo qualcuno si trovi come a casa sua. Si trovi preso in una situazione familiare e allora è ben disposto, soddisfatto, quindi, pronto ad accogliere ciò che gli dirò. Buona parte della retorica ha questa funzione: fare sentire l’altro padrone della situazione. Uno degli artifici retorici è anche questo, lo è tuttora naturalmente, e Aristotele ne parla nella Poetica a proposito della tragedia, ma anche nei Topici: creare un disaccordo, come direbbe Anassimandro, creare una situazione che sfugge al controllo e che, quindi, mette in agitazione, per poi, lungo il racconto, giungere a ricondurre questo momento di agitazione in qualcosa di familiare. Sarebbe il lieto fine: e tutti vissero felici e contenti. Ne parlerà quando tratterà della paura. La paura è uno strumento straordinario: creare la paura e poi dissolverla. La paura è uno strumento fondamentale della tragedia. Creare la paura e poi mostrare il rimedio. Certo, sono artifici retorici ma indicano qualche cosa di più, cioè, indicano il modo in cui funziona il linguaggio in ciascuno. Ciascuno deve ricondurre qualche cosa di ignoto al noto, cioè, deve ricondurre qualcosa che nel proprio discorso gli appare non gestibile a qualche altra cosa, che è sempre nel proprio discorso ma che invece gli appare gestibile, noto, familiare, ecc. Dirà a breve Heidegger che le emozioni sono, in effetti, ciò di cui ciascuno vive. Ma le emozioni che cosa sono? Sono nel mio discorso, sono un effetto del mio discorso. Se il mio discorso riesce a dominare qualcosa sono soddisfatto, sennò sono insoddisfatto. Ci sta dicendo qui qualcosa cui abbiamo accennato e che è troppo importante da trattare così rapidamente, e cioè che ciascuno percepisce ciò che percepisce unicamente perché ciò che percepisce appartiene al suo discorso, e il fatto che appartenga al suo discorso è la condizione perché possa percepire qualcosa. Ma ne parleremo andando avanti. A pag. 191. Prendendo le mosse dal contesto del parlare l’uno con l’altro, dobbiamo intenderci brevemente circa l’ἦθος (comportamento) dell’oratore e il πάθος dell’ascoltatore, precisamente riguardo a come l’oratore, e colui al quale egli si rivolge, si relazionano alla δόξα di cui si sta parlando, nonché alle δόξαι a partire dalle quali si parla. Sta dicendo che sia l’oratore sia l’ascoltatore sono interessati all’opinione, alla δόξα, a partire da altre opinioni che sono date come acquisite, che sono ciò da cui si parte. Nel far questo avremo modo di porre in particolare evidenza il πάθος della “paura”, del φόβος, di cui tratta il libro II, capitolo 5, della Retorica. Qui riprende una questione. L’elemento dell’aporia si riferisce in sé a un πορεῖν, “percorrere”: parlare nel senso del mostrare, essere in cammino nel mostrare. Il πορεῖν ha come meta l’εύπορεῖν (εύ sta per “bene”), il “passare in modo corretto” pervenendo a ciò che si sta cercando. Il πορεῖν/άπορεῖν è quindi un προαπορεῖν che precede un εύπορεῖν. È un andare verso qualche cosa che precede il raggiungere la meta. Riferito al λέγειν si tratta di un δηλοῡν, un “manifestare” ciò che si sta cercando. Abbiamo già detto che la retorica è basata quasi tutta sul manifestare, su quella figura nota come ipotiposi, cioè il far vedere ciò che dico. Se riesco in questo sono a buon punto, perché la persona vede ciò che io voglio che veda e, se lo vede, è immediatamente persuasa. Riferito al domandare stesso, è un modo di dare forma in maniera corretta alla domanda in quanto tale. Ponendo in evidenza determinati caratteri effettivi della cosa oggetto d’indagine diviene manifesta la fine dell’indagine stessa, e viene così fornita la possibilità di darle il corretto indirizzo e di decidere… /…/ Il secondo modo di darsi di ciò di cui si parla è tale che si è abituati a deliberare intorno a esso, qualcosa che viene portato al linguaggio in un determinato contesto ontologico della vita e non può essere sbrigato una volta per tutte mediante una riflessione oggettiva, poiché torna sempre di nuovo a proporsi a seconda delle circostanze e della situazione. Lui individua due modi. Il primo è quello scientifico, laddove è indifferente, almeno apparentemente, colui che parla e il modo in cui parla; cosa che, invece, è importante nel discorso deliberativo, quando si tratta di deliberare qualcosa, è importante il modo in cui mi pongo per far sì che chi mi ascolta sia del mio parere, mi dia cioè ragione e faccia, in definitiva, quello che voglio io. Qui il tema non è un identico stato di cose oggettivo che verrebbe trasmesso all’interno di una scienza; ma è piuttosto qualcosa che cambia a seconda delle circostanze dell’esserci: faccende che emergono, di volta in volta, a seconda delle condizioni dell’esserci stesso, mutamenti dello stato d’animo e, quindi, dell’opinione. Muto lo stato d’animo e simultaneamente cambio l’opinione. Per questo è fondamentale nella retorica, potremmo quasi dire, imporre un certo stato d’animo, perché se avrà quello stato d’animo allora avrà quell’opinione. È emblematico per questo aspetto quel bellissimo e famosissimo scritto di Shakespeare, il Giulio Cesare, e mi riferisco al discorso di Antonio, che cambia innanzitutto l’opinione che i Romani hanno di Cesare, opinione che in qualche modo è stata trasmessa da Bruto, che aveva parlato prima di lui, per cui avevano una opinione sulla situazione. Lo stato d’animo voluto da Bruto che dice che, sì, certo, Cesare era una grande persona, però ha tradito Roma. Il discorso di Antonio, invece, porta in tutt’altra direzione, mostra altre cose, mostra che Cesare non ha tradito Roma ma ha amato tantissimo i Romani e, quindi, cambiando la situazione cambia l’opinione, cioè Cesare non è più un personaggio che ha tradito Roma ma un personaggio che voleva il bene dei Romani, per cui chi l’ha ucciso è un assassino. C’entra la situazione contingente delle cose e degli uomini. È per questo che qui l’“assunzione delle premesse” avviene altrimenti. Le premesse che vengono assunte sono quelle che serviranno a determinare una certa situazione. Con determinate premesse si crea una certa situazione, così come accade in matematica: date certe premesse si crea una certa situazione, cambi le premesse e cambi la situazione. Nel caso della premessa bisogna prendere in considerazione altri fattori, è necessario tenere conto dello stato d’animo di coloro a cui si parla, della situazione contingente delle cose e del modo specifico in cui c si atteggia personalmente nei confronti della faccenda. Perciò è doveroso considerare concretamente: 1. l’ἦθος, l’“atteggiamento” del parlante; 2. il πάθος, la “situazione emotiva” dell’ascoltatore. E qui niente di nuovo per noi. Andiamo a pag. 196. Il πάθος, il secondo elemento da prendersi in considerazione per la πίστιςIl primo elemento era l’ἦθος, la condotta di chi parla. L’espressione πάθος è un’espressione polisemica, che ha nel contempo un’importanza fondamentale all’interno della filosofia aristotelica. Si può parlare di tre significati fondamentali dell’espressione e, quindi, di tre contesti oggettivi che essa designa: 1. il significato medio, più immediato, dice “stato mutevole”; 2. un significato specificatamente ontologico, importante per la comprensione della κίνησις, intende il πάθος in rapporto πάσχειν (patire), che si traduce per lo più con “patire”; 3. un significato accentuato: stato mutevole in relazione a un determinato contesto oggettivo, stato mutevole in un determinato ambito ontologico della vita: “passione”. È in quest’ultimo significato che il πάθος è a tema nella Retorica e nella Poetica. Ci sta dicendo qui come questo πάθος corrisponda a qualcosa di mutevole, a qualcosa che si subisce, ma questo qualcosa che si subisce è qualcosa di cui non si ha il controllo, sennò non lo si subisce, lo si agisce. Sta, quindi, insistendo su questo aspetto, sul fatto che il πάθος, l’emotività, è qualcosa che altera uno stato di quiete. Perché gli umani cercano continuamente questo πάθος, quelle che chiamano le emozioni? Per ricondurle allo stato di quiete, per ricondurre l’ignoto al noto. È lo stesso motivo per cui si fanno le parole crociate. È per questo che gli umani cercano le emozioni forti, per poterle dominare, cioè, per ricondurle a qualcosa di noto. È un aspetto del superpotenziamento. Una volta che sono diventate note inizia il depotenziamento (Nietzsche), quindi, bisogna trovarne subito un’altra, in modo da rimettere la cosa in movimento. Questo perché tutta questa operazione richiede il movimento continuo, perché il ricondurre qualche cosa al noto sarebbe come determinare la parola per quella che è, e la parola è quella che è per via di infiniti rinvii che la mandano alla deriva, ma non posso fare nulla senza questi rinvii, perché sennò non c’è neanche la parola. Quindi, l’idea è quella di fermare un qualche cosa, la parola, significandola e, una volta fermata, finalmente stabilire come stanno veramente le cose, ma è lo stabilire cosa ho detto effettivamente, che cos’è quella cosa lì. Ma sappiamo bene che per dire quella cosa lì devo dire ciò che quella cosa non è e, quindi, mi trovo in quella bizzarra situazione per cui sono alla continua rincorsa delle parole. Parole come enti, naturalmente. Sono gli enti che io voglio dominare, ma gli enti sono parole, sono discorsi, e li voglio dominare perché sfuggono. Perché sfuggono gli enti? Perché, essendo parole, sono determinati da questa deriva infinita di rinvii che non controllo. Ecco, dunque, il πάθος, l’emozione. L’emozione è qualche cosa che deve essere ricondotta alla quiete. Ma immediatamente, appena è quiete, ecco l’immediata ricerca di un’altra emozione da dominare. Esattamente come si fa con gli enti, anche le emozioni sono enti, non sono altre cose. Teniamo presente anzitutto l’ultimo significato… L’ultimo significato era quello che diceva prima: stato mutevole in relazione a un determinato contesto oggettivo… Tale contesto emerge nel libro II, capitolo 4, dell’Etica Nicomachea, là dove Aristotele dà avvio all’indagine su che cosa sia propriamente l’άρετή (virtù, il saperci fare con le cose). Il compito più immediato di un’indagine avente come meta il carattere ontologico dell’άρετή è mettere in luce che cosa in genere si debba intendere per άρετή, cioè da quali contesti ontologici essa derivi: γένεσις dell’άρετή. Aristotele introduce tale indagine con una localizzazione per noi importante. Il πάθος rientra quindi in ciò che “avviene nell’anima”. La ψυχή (psiche, anima) è l’ούσία (essere) di uno ζῶον (vivente), essa costituisce l’essere di quell’ente che è caratterizzato in quanto “essere nel suo mondo”. L’essere ha dunque tre differenti modi del suo divenire: πάθη (stati d’animo), δυνάμεις (possibilità verso qualche cosa), ἔξεις (l’essere pronto a qualche cosa). Quest’ultimo lo vedremo più avanti: l’essere pronto a qualche cosa, anche se lui non lo dice esplicitamente, è l’essere pronto al cambiamento, in modo da ricondurlo il più rapidamente possibile a uno stato di quiete. È importante lo stato di quiete perché è l’unica condizione, l’unica situatività in cui è possibile l’idea di sapere come stanno le cose, devono essere fermate, devono essere in quiete; se si muovono continuamente non so come stanno, ora sono qui, ora sono là, non stanno mai dove voglio io. Ecco perché la quiete è importante. Ma al tempo stesso la quiete impedisce il superpotenziamento, diventa immediatamente un depotenziamento, perché questa cosa la so, è acquisita, e non posso cessare di parlare, se continuo a parlare mi si pongono immediatamente e continuamente davanti agli occhi nuovi enti da dominare, che io mi precipito naturalmente a volere dominare. Invece la ἔξις è anzitutto qualcosa che caratterizza il nostro modo peculiare di essere in un tale πάθος. È il modo in cui ciascuno propriamente si trova in questo stato d’animo. La ἔξις è quell’alcunché in riferimento a cui veniamo lodati o biasimati. Al contrario, in riferimento alle passioni – dunque, per esempio, in riferimento al fatto che siamo in collera – “non veniamo né lodati né biasimati”. Il modo peculiare in cui sono in collera, in quale situazione, in quale circostanza, contro chi – tutto ciò è oggetto di lode o di biasimo, il “come”, il πῶς. La ἔξις riguarda il “come ci comportiamo”, “come manteniamo il controllo” nel caso di un πάθος così inteso. Il πάθος è un determinato “perdere il controllo”. Questa è la passione: una perdita di controllo, momentanea, provvisoria, non ha importanza. Possiamo intendere, come dice lui, la ἔξις come il mantenere il controllo. Per mantenere il controllo devo essere pronto a reagire a ciò che accade, in modo che le cose stiano sempre in quiete. Sappiamo, però, che le cose non possono stare sempre in quiete, e questo Nietzsche lo diceva bene, sarebbe il depotenziamento immediato, rimane lì e dice “E adesso che cosa faccio?”. Come disse quella fanciulla tantissimi anni fa: se non sto male cosa faccio? Deve stare male per forza, sennò si depotenzia immediatamente; quindi, è necessario che almeno qualcun altro stia male, in modo da poter agire per poterlo fare stare bene; quindi, è importante che l’altro non stia sempre bene, perché solo se sta male io posso agire, posso intervenire. È importante l’essere implicitamente dati dei πάθη in quanto modi dell’essere stesso… Qui lui individua gli stati d’animo come modi dell’essere. Quindi, non sono una cosa che si aggiunge ma sono modi dell’essere, in cui l’essere accade, si dà. …nella misura in cui viviamo, modi del divenire, riguardanti l’“essere in un mondo”, così com’è importante che i πάθη abbiano una possibile relazione con la ἔξις. Che abbiano, cioè, una possibile relazione con il modo di arginare questa deriva, che è provocata dalla passione. Quando c’è una passione, si usa anche dire, si è travolti dalla passione, si perde il controllo. In base alla comprensione più precisa di ciò che si intende con ἔξις comprenderemo anche l’analisi dei πάθη, vedremo in che senso ciò che designiamo con πάθος determini in un senso fondamentale l’“essere nel mondo”,… Questa affermazione di Heidegger è importante. È il fatto che io sia soddisfatto oppure no che decide del mio essere nel mondo e anche di come sono nel mondo. L’ἦθος dell’oratore deve avere caratteristiche del tutto particolari, in modo tale che colui che parla stia di fronte all’ascoltatore come uno che di fatto si esprime come persona a favore della cosa che sostiene. /…/ L’ἦθος non è altro che il modo peculiare in cui si manifesta ciò che l’oratore vuole, il volere nel senso della προαίρεσις (intenzione) nei confronti di qualcosa. A pag. 199. Nei discorsi in cui, in base al loro senso, non ne va né di essere risoluti nei confronti di qualcosa né di portare gli altri a una determinata decisione, non vi è alcun ἦθος. Cioè, non è necessaria nessuna condotta particolare. Se devo dimostrare un teorema, che io sia contento o triste, il teorema rimane lo stesso, almeno apparentemente. Dico apparentemente perché non è comunque così sicuro. A pag. 200. Il modo specifico in cui si dà la disposizione d’animo nella quale ci troviamo determina anche il modo in cui ci atteggiamo nei confronti delle cose, come le vediamo, fino a che punto e da quali prospettive. Il “passare da una determinata disposizione d’animo a un’altra” riguarda propriamente il modo in cui prendiamo posizione nei confronti del mondo, cioè “siamo nel mondo”. Ciò implica la possibilità e il pericolo del mutamento delle circostanze. La giusta disposizione d’animo altro non è che il giusto “essere nel mondo” inteso come disporre di esso. Cioè, dominarlo. Questo è il giusto stato d’animo, quello che si cerca: avere il dominio sull’ente. Diceva Il “passare da una determinata disposizione d’animo a un’altra” è il modo in cui siamo nel mondo; siamo soddisfatti o insoddisfatti, siamo soddisfatti quando siamo nella giusta disposizione d’animo, cioè, quando dominiamo l’ente o pensiamo di dominarlo. Come dicevo prima, pensiamo di avere dominato l’ente quando escludiamo dall’ente le sue determinazioni, cioè, i suoi rinvii. Qual è il problema che sorge? Che se tolgo i rinvii tolgo anche l’ente e allora ecco la necessità di dire all’altro, a qualcuno, quello che penso. Dicendo all’altro, a qualcuno, quello che penso, mi attendo che mi ritorni quello che penso così com’è; cosa che naturalmente non succede mai, però l’idea è quella ed è il motivo per cui lo dico, per cui non posso non dirlo. Sono travolto da questa necessità di imporre all’altro quello che io penso in modo che lui mi rimandi il mio pensiero così com’è, in modo da poterlo fermare, in modo da potere pensare che ho detto proprio questo, cioè, le cose stanno proprio così. Il mondo “ci” è innanzitutto e per lo più nella πρᾶξις, nel carattere dell’ένδεχόμενον λλως (svariate opinioni, opinioni che mutano) e, insieme, nella determinazione del “più o meno”. Dell’approssimazione, della δόξα, della chiacchiera. Il mondo “ci” è in quanto άγαθόν (bene) oppure συμφέρον (utile), e ciò nel “più o meno”. Più o meno bene, più o meno utile, ma non abbiamo mai la certezza che sia veramente bene o veramente utile. Quindi anche il nostro comportamento al suo riguardo è “più o meno”, all’interno di queste oscillazioni ci comportiamo “più o meno”, muovendoci nel mondo in un modo medio. Il “più o meno” è importante. È come oscillare tra due estremi che non sono gestibili, non sono controllabili. Sono quei due estremi dove c’è il πάθος, dove c’è la passione, dove qualche cosa accade ma non è gestito; per gestirlo devo ricondurlo alla quiete. La quiete qui è descritta come “più o meno”, che è la δόξα naturalmente, è il si dice, il si pensa sia così. Questo è l’unico modo per potere affermare come stanno le cose: fermarle al “più o meno”, al si dice, al si pensa, al si crede, al si immagina, ecc. Questa è l’unica certezza che possiamo avere. La modalità stessa della perspicuità del mondo è “più o meno”. Se ne deduce che “pervenire alla disposizione d’animo autentica” significa pervenire al mezzo… Lo dicevano anche i latini: in medio stat virtus. …passare dagli estremi delle oscillazioni al mezzo. Dove sta la quiete. È come una sorta di bilanciamento. Il mezzo altro non è che il καιρός, l’insieme delle circostanze, il come e il quando, l’“a che” e il “di che”. Con καιρός generalmente si intende il momento opportuno, il momento giusto per fare qualche cosa, quel momento in cui la cosa riesce, in cui la cosa è da fare. E questo ha a che fare con il mezzo, quel punto equidistante dagli estremi, quel punto di bilanciamento, di quiete. Come dire che il momento giusto è quello che riconduce alla quiete: agire nel momento giusto, agire nel momento in cui il mio agire porta dal movimento alla quiete. Non resta quindi che domandarsi come vada inteso più precisamente, secondo la sua struttura, il πάθος. Basandoci sulla definizione aristotelica di πάθος, dobbiamo prendere in esame le determinazioni ontologiche del πάθος stesso. In termini del tutto generali, il πάθος può essere caratterizzato come γινόμενον τῆς ψυχῆς (andare verso l’essere)… ψυχῆς a questo punto è l’essere dell’ente. Ne parlava prima proprio come l’essere dell’ente, come ciò che dà al vivente il suo essere. …dove l’“anima” è intesa come ούσία. Sappiamo che generalmente ούσία viene tradotta con sostanza, è la prima delle dieci categorie aristoteliche, ma sappiamo in seguito alla lettura attenta di Heidegger che ούσία non è altro che uno dei modi per dire l’essere. Anche λόγος è stato posto talvolta come l’essere. Μεταβολή (mutamento) e γένεσις vengono utilizzati nel medesimo significato: πάθος è un “mutamento repentino” e quindi un determinato “divenire qualcos’altro” a partire da una situazione precedente – non però un mutare che avrebbe di per sé un suo proprio decorso, ma un modo del sentirsi-situati nel mondo che sta nel contempo in un possibile rapporto con la ἔξις. Questo πάθος è un mutamento repentino dello stato d’animo, qualcosa di non controllato. Ecco, allora, la ἔξις, l’essere pronti di fronte all’imprevisto. Potremmo anche dire che il πάθος è l’imprevisto. Il passare repentinamente a una diversa disposizione d’animo, e l’essere nella nuova disposizione a partire da quella vecchia, implicano in sé la possibilità del venire afferrati e colti di sorpresa. Ecco il momento della perdita di controllo. Il modo peculiare in cui “perdiamo il controllo”, “ci viene fatto perdere il controllo”, è da intendersi nel senso che il controllo può essere ripreso: posso riprendere il controllo, dominarmi – in un determinato momento, nel pericolo, in un attimo di spavento, mantengo il controllo, mi domino. Dunque, il πάθος come la perdita di controllo. Qui sta facendo un gioco interessante, perché sta mostrando come “ci” si è nel mondo, continuamente presi dal πάθος, dalla passione e dalla ἔξις, dall’essere pronti a ricondurre questa passione al dominio: dalla perdita di controllo alla ripresa del controllo. Sono in grado di riferire il sentirmi-situato caratterizzato dallo spavento a un possibile essere-pronto per esso. La ἔξις è questo essere pronto per esso. Il πάθος implica quindi già di per sé il rifermento alla ἔξις. Sulla scorta di Aristotele entrambi i concetti possono essere definiti concetti fondamentali dell’essere. Perdita del controllo, ripresa del controllo: aspetti fondamentali dell’essere, non cose che accadono così, ma ciò di cui è fatto l’esserCi stesso. Quando Heidegger parla di essere parla dell’esserci, dell’uomo, il vivente provvisto di linguaggio, ζῶον λόγον ἔχον. Il πάθος può essere indicato come concetto ontologico già per il fatto che il πάσχειν (subire), nella sua contrapposizione al ποιεῖν, rappresenta un elemento fondamentale per l’analisi della κίνησις (movimento)… Movimento tra agire e subire. Subire e agire potremmo anche indicarlo come il movimento del linguaggio: agisco nel senso che dico qualcosa, subisco nel senso che questo qualcosa che dico svanisce in infiniti rinvii e lo patisco nel senso che non lo controllo, non lo gestisco. ἔξις rinvia a ἕκειν, “avere”. Aristotele riconosce nell’ἕκειν un modo dell’essere, e non è poi così incomprensibile che tra le sue dieci categorie compaia anche l’ἕκειν. A pag. 202. Tutti i vari significati di ἕκειν. “Eκειν nel senso dell’ἂγειν, cioè in quanto “agire conformemente alle possibilità proprie, compiutamente determinate, dell’esserci… Poi fa un esempio. “Il bronzo ha l’aspetto di una statua (ha l’aspetto, è una statua), il corpo ha la malattia (è malato)”. La definizione più precisa di questo avere è: essere in modo tale che “in esso è presente qualcosa alla cui presenza l’ente in questione ha di per sé la predisposizione ricettiva. Altro significato di ἕκειν. “Il contenente ha ciò che è contenuto (nel modo del racchiudere, dell’essere tutt’intorno); ciò in cui qualcosa è in quanto in esso contenuto… /…/ “Le colonne sostengono, hanno i pesi sovrastanti, e – come dicono i poeti – Atlante sostiene la volta celeste”... Sono tutte definizioni, tutti significati di questa parola greca ἕκειν, che significa avere, ma in tante accezioni. Queste quattro specie di ἕκειν contrassegnano l’ente sempre nel carattere ontologico del tendere a una determinata possibilità di essere o alla sua negazione, il che però, nel senso della negazione, è la stessa cosa: trattenere qualcosa dall’essere propriamente come vuole essere. Controllare la situazione, per dirla in due parole. Non è un caso che alla fine Aristotele dica: “Il termine avere viene usato come equivalente dell’espressione “essere in qualcosa”. Nel termine “avere” è già contenuto implicitamente il significato dell’“essere in qualcosa”, tanto il carattere dell’avere e dell’essere-avuto quanto il carattere dell’“essere in qualcosa”. Si giustifica così il fatto che, tra le categorie, l’ἕκειν compare accanto al κεῖσθαι (stare). Tutto questo per mostrare, anche se Heidegger non lo mette mai a tema, che c’è sempre questo movimento che potremmo riassumere, come dice lui, tra l’agire e il patire. Agire e patire, essere e non-essere, uno e molti. A pag. 205. …l’avere è una τάξις (disposizione), una ripartizione delle parti da punti di vista diversi, ripartizione avente il carattere della θέσις (posizione), dunque una ripartizione tetica, che non è un mero insieme raccogliticcio e casuale, ma un essere-posto. La ἔξις in quanto διάθεσις e τάξις scaturisce dalla προαίρεσις: il giusto sentirsi-situato nell’essere ripartito dell’attimo. Compare sempre questo sentirsi giusto situato. Questo sentirsi giusto situato ha, sì, certo, a che fare con il tempo, in quanto in questo momento mi sento di avere agito bene, bene nel senso che sono riuscito a dominare l’ente, ma il sentirsi situato è sempre qualcosa che ha a che fare con la soddisfazione. Io mi sento ben situato quando sono soddisfatto, e sono soddisfatto quando le cose stanno andando come voglio io, perché se vanno all’opposto è difficile che io sia soddisfatto. La ἔξιςἔξις come l’essere pronto a ricondurre la passione alla quiete. La ἔξις è la determinazione dell’autenticità dell’esserci in un momento dell’essere-pronto per qualcosa: le diverse ἔξεις in quanto differenti modi dell’essere-pronto. La ἔξις è in modo fondamentale la determinazione ontologica dell’essere autentico, qui riferito all’uomo. È qualcosa di peculiare all’uomo questo essere pronto a ricondurre sempre l’ignoto al noto, l’infinito al finito, i molti all’uno. Essere pronti, stare pronti, perché la minaccia è sempre in agguato, la minaccia che le cose non vadano come voglio io, quindi, che sfuggano al mio controllo. La πρᾶξις è caratterizzata dall’άρετή, e l’άρετή è caratterizzata come ἔξις προαίρετική. Cioè, la capacità di reagire a qualche cosa, di fare in modo che io possa modificare le cose secondo ciò che io voglio. La πρᾶξις in quanto “come” dell’“essere nel mondo”, emerge qui come quel contesto ontologico che in un altro senso possiamo chiamare anche esistenza. Agire come esistenza: ciascuno esiste in quanto agisce, fa cose. Noi sappiamo quali cose fa: parla. Questa è la πρᾶξις, la prassi è il parlare. L’essere-pronto non è né generico né indeterminato, la ἔξις contiene implicitamente in sé l’orientamento primario nei confronti del καιρός: “Succeda quel che succeda, io ci sono!”. Cioè, io sono pronto, sono pronto di fronte all’imprevisto, qualunque catastrofe possa accadere, io ci sono, sono pronto! Questo esser-ci, questo “stare all’erta” nella propria situazione rispetto alla questione che ci riguarda, caratterizza la ἔξις. La ἔξις è quindi una possibilità di essere che si riferisce in sé a un’altra possibilità, cioè alla possibilità del mio essere – possibilità che, all’interno del mio essere, mi assalga qualcosa che mi fa perdere il controllo. Qui è stato riassunto in due righe tutto quanto, e cioè che il πάθος non è altro che la perdita di controllo, che devo ricondurre al rispristino del controllo. La ἔξις è il mio stare pronto a ricondurre la perdita del controllo al controllo, cioè, al dominio. A pag. 206. Nell’ultima lezione abbiamo illustrato uno dei concetti ontologici fondamentali di Aristotele, la ἔξις, che svolge un ruolo decisivo nell’analisi aristotelica dell’essere dell’uomo, ma che diventa importante anche per un’altra definizione fondamentale, giacché nella controanalisi riferita alla ἔξις Aristotele discute la στέρησις (privazione), in particolare nel caso della κίνησις (movimento). Adesso ne sappiamo già abbastanza circa il fatto che anche il concetto di στέρησις ha una relazione fondamentale con l’essere. Non dobbiamo perdere di vista il contesto nel quale siamo giunti alla ἔξις, dobbiamo cioè comprendere i πάθη come determinazioni che caratterizzano l’ascoltatore. Lui lo riferisce alla retorica, ma è sempre più rivolto al dire stesso che alla retorica. Rispetto al parlante l’ascoltatore si trova in una determinata situazione, sicché la situazione stessa contribuisce implicitamente a determinare il modo in cui l’ascoltatore comprende. Partecipando alla discussione, e riprendendone le argomentazioni, l’ascoltatore si appropria di ciò che l’oratore, parlando, intende mostrare. Fa sua quella situazione che il bravo oratore gli ha messo davanti agli occhi, cioè, si situa in quella situazione. I πάθη sono a tema nella misura in cui contribuiscono implicitamente a decidere la specifica modalità del λέγειν, avendo il λόγος stesso il proprio terreno nei πάθη. Questa affermazione di Heidegger è importante. Il λόγος ha il proprio terreno nel πάθος, nello stato d’animo: il mio racconto, il mio dire, il mio parlare sorge dallo stato d’animo, cioè, dal fatto che io sia soddisfatto o insoddisfatto. Che è un altro modo ancora per dire che è possibile parlare perché c’è la δόξα, perché ci sono opinioni. C’è qualcosa da dire perché c’è qualcosa da ricondurre al “mezzo”, al medio: se qualcuno ha un’altra opinione, quell’altra opinione interviene rispetto al mio dire ovviamente come un disaccordo, cioè qualcosa che minaccia la stabilità del mio dire e, quindi, deve essere ricondotta a una stabilità, a una quiete; quindi, deve essere eliminato il più delle volte, in un modo o nell’altro, e questo avviene portando l’interlocutore alla ragione. Questo orientamento fondamentale, che viene indicato con il riferimento alla ἔξις, è importante per la comprensione a fronte della concezione tradizionale degli affetti, che si è soliti definire “stati psichici”, eventualmente connessi con “fenomeni corporei concomitanti”. Si è suddiviso il fenomeno in stati psichici e stati fisici, fra cui sussiste un nesso. A fronte di ciò bisogna tenere conto del fatto che Aristotele – coerentemente con l’orientamento che lo induce a trattare lo psichico come un modo dell’essere del vivente – sottolinea che i πάθη esprimono l’essere dell’uomo… Qui risponde alla domanda: qual è l’essere dell’uomo? Il suo stato d’animo. …sicché qui si ha a che fare sin all’inizio con un terreno del tutto diverso. L’unità originaria del fenomeno dei πάθη è implicita nell’essere dell’uomo in quanto tale. L’uomo è fatto di passioni, di emozioni, di sentimenti, di tutte quelle cose che prova in relazione al riuscire o meno a essere soddisfatto. Noi sappiamo quando è soddisfatto oppure no. La dottrina aristotelica dei πάθη, sia per il suo orientamento e la sua fondazione di principio, sia per la scelta dei fenomeni, ha esercitato un forte influsso sui filosofi e i teologi successivi (la dottrina degli affetti di Tommaso d’Aquino). /…/ Ne faccio menzione perché all’interno delle questioni fondamentali della teologia e della filosofia medioevale la dottrina degli affetti fu rilevante anche per Lutero. Nel Medioevo è soprattutto la paura a svolgere un ruolo particolare, giacché il fenomeno della paura è strettamente connesso con il peccato, dove il peccato è il concetto opposto alla fede. Anche Lutero si è occupato della paura nei suoi primi scritti, in particolare nel Sermo de pœnitentia. La discussione del φόβος (paura), del timor, si ricollega al timor servilis e al timor castus, poi al pentimento, dove vengono distinte attritio e intritio. Il timor castus è il timore puro al cospetto di Dio, il timor servilis è la paura della punizione, dell’inferno.