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12 aprile 2017

 

Il lavoro che stiamo facendo con Heidegger ormai da tempo ci ha portati sempre di più vicini alla questione, di cui peraltro sta parlando anche in queste prime pagine, cioè, della mondità, dell’essere nel mondo, del fatto che ciascuna cosa, per essere quella che è, deve far parte del progetto di qualcuno. Tutto questo ci ha portati a una questione che potremmo dire nichilista, entro certi limiti. Nella concezione tradizionale di questo termine si intende la sovversione o la cancellazione di tutti i valori. Qui, in effetti, più che di sovversione si tratta di cancellazione, perché? Intanto, si può considerare che ciascun discorso, che viene fatto, è come se dovesse essere preso in tre, chiamiamoli così provvisoriamente, aspetti. Il primo è che quando si parla si assumono, si presuppongono una serie di cose, cioè si assume che le cose siano così come sto dicendo che siano. Il secondo elemento è che ciascuna volta che affermo qualcosa escludo che questo qualcosa sia il contrario di ciò che sto affermando, che è un corollario del primo aspetto: se io affermo una certa cosa, che lo sappia o no, che lo voglia o no, comunque questa affermazione esclude la sua contraria. Il terzo elemento è che per giungere ad affermare qualcosa, qualunque cosa sia, devo utilizzare un sistema logico inferenziale. Come dire che, ogni volta che parlo, faccio i conti con queste cose. Torno a dire, che lo sappia o no. Questo ha delle implicazioni, ovviamente, implicazioni che sono quelle su cui sta lavorando Heidegger e che stiamo leggendo in queste prime pagine, perché ciò che vi ho appena detto è come se portasse alle estreme conseguenze il discorso di Heidegger. Parlando muovo da assunzioni. Uno potrebbe dire che, sì, sono assunzioni ma sono giustificate da una serie di cose. Il fatto è che queste cose che giustificano le assunzioni, a loro volta sono costruite su altre assunzioni. Il che ci porta a considerare che tutto il discorso è sorretto da che, di fatto, non hanno una loro dignità se non in quanto costruite sempre dal discorso, cioè, si tratta di tenere conto che parlando si è totalmente vincolati a delle strutture, a delle istanze, che è come se continuassero a dire e a ripetere che tutto ciò che si dice è come se galleggiasse sul nulla. Certo, anche la semiotica, alcune frange almeno, non tutte, ovviamente, ha posto delle questioni molto simili. Tutto questo, come dicevo all’inizio, porta a una sorta di nichilismo assoluto. Quando Sandro diceva tempo fa: dopo la pars destruens quale pars construens proponiamo? Il fatto è che propriamente non c’è una pars construens…

Intervento: Necessiterebbe anche quella di assunzioni…

Esattamente. Quindi, la pars construens non sarebbe niente altro che quella che la pars destruens demolisce e non ci sono altre partes, cioè, non ci sono altri modi di parlare, non c’è un altro modo del linguaggio di funzionare. Queste assunzioni, di cui vi parlavo, Heidegger le pone in questo modo, e cioè ciascuna cosa che io ponga, ciascuna cosa da cui io muova per dire qualunque cosa, non esiste se non nel mio progetto. È questa la questione sulla quale insiste e che pone sempre in primo piano. Quindi, una qualunque assunzione significa che viene assunta in base al mio discorso e non importa che la prenda da altre cose, in ogni caso, anche se la prendo da altrove, la inserisco comunque nel mio discorso. Il nichilismo a questo punto potrebbe configurarsi in questo modo, e cioè che non c’è nessuna pars construens da costruire o su cui appoggiarsi. Sì, già Nietzsche l’aveva posta, non in termini così radicali, mentre il modo in cui Heidegger pone la questione del nichilismo, vi ricorderete, è differente, per lui il nichilismo è la deiezione dell’essere, cioè, la dimenticanza dell’essere, il non tenere conto, quindi, della differenza ontologica. Questo è per lui il nichilismo. Però, se pensata meglio, potrebbe dirci qualche cosa perché questa deiezione dell’essere, questo non tenere conto della differenza ontologica significa non tenere conto che un qualunque ente, cioè una qualunque parola, è quella che è in virtù del fatto che si trova nel mio progetto, in virtù del fatto che è prodotta dal parlante e che non esiste al di fuori di questo. È ciò che Heidegger continuamente dice quando afferma che non c’è qualcosa che sia una semplice presenza di per sé. Possiamo, certo, parlare di semplice presenza, che lui distingue dall’esistenza, ma non c’è una semplice presenza che non sia debitrice dell’esistenza, e cioè dal fatto che è prodotta dal parlante, dall’Esserci.

Intervento: mi sembra di aver capito che le cose semplicemente presenti siano come il significante senza significato. Ora, è il parlante che attribuisce un significato a questi significanti. Possiamo, pertanto, dire che il significato è il progetto?

Esatto, è così. È ciò che diceva Sini che quando ci si riferisce all’essere e all’ente in realtà ci si riferisce al significato e al significante. Ci eravamo arrivati anche noi ma, in effetti, è di questo che sta parlando. Le cose che dicevano Sini e Heidegger sono state poste in modo molto più semplice da de Saussure. L’essenza della semplice presenza come un qualche cosa che è per sé, cioè, che esiste per virtù propria, ci dice proprio ciò che stava dicendo lei, cioè che il significato del significante, quindi, l’esistenza di un qualunque significante, è un prodotto del parlante, quindi, quando parlo di una qualunque cosa, questa cosa di cui parlo per me è una certa cosa ma in virtù del fatto che questa cosa, di cui parlo, per me è “per” qualcosa, questo è il progetto, cioè, è “per” qualche cosa, non è mai per sé. Questo in Heidegger è fondamentale, lo ripete ovunque, è per qualcosa, quindi, è presa in un rinvio. C’è qui un capitolo dove parla proprio del rinvio. A pag. 100. Nell’interpretazione preliminare della struttura dell’essere dell’utilizzabile (il “mezzo”) venne in luce il fenomeno del rimando, ma in modo così sommario da farci sottolineare la necessità di risalire successivamente all’origine ontologica del fenomeno, dapprima semplicemente abbozzato. A pag 101. Prendiamo di nuovo l’avvio dall’essere dell’utilizzabile… quindi, qualcosa che è per qualche cos’altro. … questa volta con l’intento di cogliere più a fondo il fenomeno del rimando. A tal fine tentiamo un’analisi ontologica di un mezzo in cui si possono rintracciare “rimandi” in vari sensi. Questo “mezzo” è il segno. Il segno è mezzo, dice. Con questo termine si intendono molte cose: non solo diverse specie di segni, ma anche l’esser segno di… che può a sua volta essere formalizzato in un genere universale di relazione, sicché la struttura stessa del segno può offrire il filo conduttore ontologico per una “caratteristica” dell’ente in generale. Sta soltanto dicendo che il segno una relazione e che questo concetto di relazione va inteso meglio. I segni sono in primo luogo anch’essi mezzi, il cui specifico carattere di mezzo consiste nell’indicare. Sono segno di questo genere: i segnavia, le bandiere, i segni di tempesta per la navigazione, i segnali, le bandiere, i segni di lutto e così via. L’indicare può essere definito come una “specie” del rimandare. Il rimandare, estremamente formalizzato, è un porre in relazione. La relazione non funge però da genere per “specie” diverse di rimandi, che si differenzierebbero in segno, simbolo, espressione, significato. La relazione è una determinazione formale che, per via di “formalizzazione”, è direttamente riscontrabile in ogni genere di connessione di qualsiasi contenuto e modo d’essere. Dicendo che la relazione è una determinazione formale dice che questa relazione è come quella forma entro la quale è riscontrabile ogni genere di connessioni. Come diceva prima, però, non è che la pone come genere rispetto alla specie, qualcosa che sta sopra e sotto ci sono tutte le varie determinazioni; no, è qualcosa che contiene in sé ogni forma di connessione. Ogni rimando è una relazione, ma non ogni relazione è un rimando. A pag. 102. Fa l’esempio dell’automobile e della freccia mobile. Questo segno è intramondanamente utilizzabile nell’ambito dei mezzi di circolazione e delle regole del traffico. In quanto mezzo, questo mezzo di indicazione è costituito dal rimando. Esso ha il carattere del “per”, ha la sua determinata utilità; è un mezzo per indicare. Questo indicare, proprio del segno, può essere inteso come un “rimandare”. … Il “rimandare” in quanto indicare si fonda invece nella struttura di essere del mezzo, nella utilità a… Il “rimando” come indicazione è la concrezione ontica dell’a-che di un’utilità e determina un mezzo in vista di ciò. Quindi, il rimando è qualcosa che attiene all’ente, una concrezione ontica, cioè attiene all’a che cosa è utile un qualche cos’altro. A pag. 102. Che significa l’indicare di un segno? La risposta si può ottenere soltanto determinando la adeguata modalità del commercio col mezzo-indicazione. Cioè, del modo in cui si utilizza. Si potrà così cogliere in modo genuino anche la sua utilizzabilità. Qual è la modalità dell’avere-a-che-fare con un segno? Ritornando all’esempio della freccia, possiamo dire: il comportamento (essere per) corrispondente all’incontro col segno sarà quello di “spostarsi” o di “fermarsi” rispetto alla vettura in arrivo che espone la freccia. … Il segno si rivolge alla visione ambientale preveggente del commercio prendente cura, in modo tale che lo sguardo che segue la sua consegna abbia in tal modo un esplicito “colpo d’occhio” sul rispettivo ambiente nel suo carattere circostante. Diciamola con Peirce, che è più semplice: il segno è un segno per un altro segno. È questo che sta dicendo. È il colpo d’occhio che fa vedere immediatamente qualche cosa che so che mi rinvia a qualcos’altro. Tutto questo che sta dicendo Heidegger è per sottolineare il modo in cui si incontra l’utilizzabile e per mostrare il commercio prendente cura che non è altro che il modo di rapportarsi a qualche cosa per ottenere qualcos’altro, che è sempre ovviamente il progetto. A pag. 104. Il segno non è una cosa che stia con un’altra cosa nella relazione dell’indicare; esso è invece un mezzo che, nella visione ambientale preveggente… cioè, nel trovarmi all’interno del mondo. …fa emergere esplicitamente un complesso di mezzi, in modo tale che, nel contempo, si annuncia la conformità al mondo propria dell’utilizzabile. Questa cosa diventa utilizzabile, quindi, diventa qualcosa per qualcos’altro, perché c’è un mondo che mi consente di pensare a qualche cosa come un qualche cosa che è per qualche cos’altro. Ora, questo qualche cosa è il linguaggio, ovviamente, senza il linguaggio non ci sarebbero segni. …il commercio prendente cura del mondo-ambiente abbisogna di un mezzo utilizzabile che, in virtù del suo carattere di mezzo, assuma il “compito” di far sì che l’utilizzabile desti sorpresa. Cioè, che possa essere colto, come la freccia che si accende e che si spegne; ecco, questo desta sorpresa. Nella pagina successiva 105 dice Si potrebbe tuttavia obiettare che ciò che è assunto come segno deve essersi reso accessibile già prima in se stesso ed essere colto prima della sua funzione di segno. Infatti, diceva prima che perché qualche cosa sia segno occorre che ci sia un ambiente, un linguaggio per cui questo segno è conosciuto come tale, che era il problema che si sono posti tantissimi sulla nascita del linguaggio, su come è possibile imparare a parlare se uno non sa già parlare. Certamente, in linea generale deve essere in qualche modo già dato. Ma il problema da risolvere è quello di stabilire come si sia scoperto in questo incontro preliminare, se in quanto cosa puramente presente o piuttosto in quanto mezzo incompreso, in quanto utilizzabile del quale fino non si “sapeva che fare” e che restava quindi celato alla visione ambientale preveggente. Anche qui non è lecito interpretare come mera cosità il carattere di mezzo proprio dell’utilizzabile che non è ancora stato ambientalmente scoperto, come se si trattasse della semplice-presenza. Sta dicendo in realtà una cosa molto semplice. Il segno non lo comprendiamo come semplice-presenza, non lo comprendiamo come un qualche cosa che ci viene incontro di per sé, una cosa puramente presente, in linea generale deve essere in qualche modo già dato. A pag. 107 dice La relazione tra segno e rimando è triplice: 1) L’indicare, in quanto possibile concrezione dell’a-che di un’utilità, è fondato nella struttura del mezzo in generale, nel “per” (rimando). Indica in quanto un ente mostra la sua utilità per qualche altra cosa, come l’accendino mostra la sua utilità per accendere le sigarette. 2) L’indicare proprio del segno appartiene, in quanto carattere di mezzo di un utilizzabile, a una totalità di mezzi, a un complesso di rimandi. È l’indicare in senso generale, l’indicare in quanto un qualche cosa comunque rinvia all’interno di un sistema a una serie di altre cose. 3) Il segno non è soltanto utilizzabile insieme ad altri mezzi, ma la sua utilizzabilità rende il mondo-ambiente esplicitamente accessibile alla visione ambientale preveggente. Dice che il segno non è soltanto utilizzabile per qualche cosa di specifico ma la sua utilizzabilità rende il mondo ambiente esplicitamente accessibile. Come dire che il segno è ciò che consente di avere accesso al mondo, che pure, ci diceva prima, questo segno, senza il mondo in cui è inserito, di per sé è niente. Dice in un corsivo che Il segno è un utilizzabile ontico che, in quanto è questo determinato mezzo, funge nel contempo da qualcosa che indica la struttura ontologica dell’utilizzabilità, della totalità dei rimandi e della mondità. Il segno che utilizzo è un ente, ovviamente, però allo stesso tempo mostra un qualche cosa che trascende, e cioè ci fa riflettere sul concetto stesso di utilizzabilità, quindi, sull’essere dell’ente, su ciò che rende questo ente quello che è, e cioè in questo caso la sua utilizzabilità. Quindi, è sempre quel qualcosa che è quello che è per via di qualche altra cosa, per via di un rimando. È qui che si fonda la peculiarità di questo utilizzabile all’interno del mondo-ambiente di cui ci si prende cura nella visione ambientale preveggente. Il rimando, in quanto fondamento ontologico del segno, non può quindi essere concepito esso stesso come un segno. Il rimando non è la determinazione ontica di un utilizzabile, visto che è ciò che costituisce l’utilizzabilità stessa. Ecco, il rimando che è il fondamento ontologico del segno, cioè, ciò che fa del segno quello che è, non è lui stesso un segno. Perché? Lui deve mantenere la differenza ontologica. Se dicesse che il rimando diventa un segno sarebbe come dire che l’essere dell’ente diventa un ente. Ripeto quel che dice Il rimando, in quanto fondamento ontologico del segno, non può quindi essere concepito esso stesso come un segno. Perché? Perché, dice, È qui che si fonda la peculiarità di questo utilizzabile all’interno del mondo-ambiente di cui ci si prende cura nella visione ambientale preveggente. La peculiarità di questo utilizzabile, cioè, dell’ente, è il fatto di trovarsi all’interno di un prendersi-cura, cioè, di un progetto. Quindi, ciò che sta dicendo è che il segno ha sì nel rimando il suo essere, la sua trascendenza, ma questo rimando, non essendo lui un segno, non è niente altro che il progetto.

Il rimando, nel modo in cui lo pensa Heidegger, appartiene al modo con cui mi rapporto al mondo. Certo, il modo con cui mi rapporto al mondo prevede l’uso di segni. Potrei rapportarmi a qualche cosa, essere in relazione con qualche cosa, se non ci fosse già un segno. Questo è un problema, anche qui nel testo di Heidegger, in effetti. Infatti, dice che il segno è qualche cosa che rende accessibile alla visione ambientale preveggente, al progetto. Quindi, sì, ha ragione ma fino a un certo punto. Proviamo a rileggere questa proposizione Il segno è un utilizzabile ontico che, in quanto è questo determinato mezzo, funge nel contempo da qualcosa che indica la struttura ontologica dell’utilizzabilità, della totalità dei rimandi e della mondità. Allude all’essere. La questione qui non è così chiara, perché questa distinzione che fa tra rimando e segno è piuttosto forzata, perché in realtà si potrebbe tranquillamente dire che il segno è un rinvio, quindi, è un rimando, ovviamente. La questione, posta nei termini con cui la pone Heidegger, è molto complicata perché sembra non lasciare la possibilità di intendere la differenza concreta tra il segno e il rimando. Dire che il segno e l’ente e il rimando appartiene al progetto va bene ma non è che questo ci porti molto lontano, oltre al fatto che appare una distinzione assolutamente arbitraria. Potremmo addirittura fare un passo in più. Tenendo conto di ciò che dicevo all’inizio, cioè che parlare di segno o di rimando, per fare questa distinzione, è possibile farsi questa distinzione se io assumo che il segno sia quella cosa lì e il rimando quella cosa là. Ora, non è che Heidegger la ponga proprio in questo modo però, se non la pone in questo modo, allora significa che ciò di cui parla, quando parla di segno o di rimando, sono soltanto elementi all’interno di un gioco linguistico, che non hanno nessun referente se non il progetto, se non la volontà di potenza, che è esattamente ciò su cui viene costruita ogni teoria. Intendo dire che questa distinzione ha un senso soltanto se serve ad Heidegger, in questo caso, a superpotenziare un suo pensiero, una sua teorizzazione e, quindi, avallare alcune affermazioni fatte anche in precedenza, ma la domanda è: ha qualche altro utilizzo oppure no? Perché se non ce l’ha, se serve soltanto a Heidegger per avallare quello che scrive, per confortare una sua teoria, che non ha nessun referente… sì, certo, può essere un gioco, piacevole e divertente, ma la di là di questo… Oppure, se non è così, si torna allora alla questione precedente, secondo la quale io assumo che il segno sia questa cosa che io dico che è, ma a questo punto questa cosa che io dico che è sarebbe se stessa per virtù propria, sarebbe, per usare le stesse parole di Heidegger, una semplice presenza avulsa dal mondo, cioè, dalla produzione linguistica, il mondo è questo. A pag. 99 c’è una frasetta molto significativa: …l’esser-in-sé dell’ente intramondano è comprensibile ontologicamente solo sul fondamento del fenomeno del mondo. L’esser-in-sé è la sostanza dell’ente intramondano, che è, è comprensibile ontologicamente… cioè un ente è comprensibile se comprendo ciò che fa sì che l’ente sia quello che è, quindi, l’esser-in-sé dell’ente intramondano è comprensibile ontologicamente solo sul fondamento del fenomeno del mondo. Con “del mondo” possiamo intendere semplicemente ciò che appare nel mondo, cioè, il linguaggio, le cose che il linguaggio costruisce, quindi, per dirla in modo diverso, possiamo cogliere l’ente unicamente attraverso il linguaggio. Ma perché il mondo possa apparire, occorre che in generale sia già aperto. All’accessibilità dell’utilizzabile intramondano al prendersi cura della visione ambientale preveggente, il mondo è già sempre pre-aperto. Cioè, si è già da sempre nel linguaggio. Questa è l’apertura. Esso è quindi qualcosa “in cui” l’Esserci, in quanto ente, già sempre era, e in cui non fa altro che ritornare ogni qual volta va esplicitamente verso qualcosa. Ogni qual volta l’Esserci va verso qualcosa, cioè, è progettato, gettato in un progetto, ovviamente non può che ritornare da qualche cosa che lo costituisce, e cioè da quell’apertura, cioè, dal linguaggio. In base all’interpretazione finora data, essere-nel-mondo significa: immedesimarsi, in modo non tematico e secondo la visione ambientale preveggente, coi rimandi costitutivi dell’utilizzabilità propria della totalità dei mezzi. Questo significa: essere nel mondo, immedesimarsi con tutti i segni che sono presenti nella totalità dei mezzi, perché ciascuna cosa è un mezzo per qualche cos’altro, ma che sono presenti nel mondo. Questo è essere nel mondo: è essere in mezzo a un sacco di cose che sono segni, come diceva tra l’altro anche Peirce. Passiamo al paragrafo 18. Appagatività e significatività. La mondità del mondo. Da che cosa è appagato un segno? Dall’elemento cui rinvia. Questo è il concetto di appagatività. L’utilizzabile è incontrato come intramondano. Cioè, un segno non può essere colto se non all’interno di una rete di segni. L’essere di questo ente, l’utilizzabilità… Badate bene, dice che l’essere dell’ente è l’utilizzabilità, come dire che l’essere dell’ente è l’essere per qualcosa, quindi, l’essere dell’ente non è altro che la volontà di potenza, perché l’utilizzabilità di questo ente è la volontà di potenza, cioè, è fatto di essere sempre per un’altra cosa e questo ci rimanda ancora alla questione della tecnica. L’essere di questo ente, l’utilizzabilità, sta perciò in qualche rapporto ontologico con il mondo e la mondità. L’essere dell’ente è all’interno della tecnica, è la tecnica, cioè la volontà di potenza, che mostra qual è l’utilizzo dell’ente. Qual è, infatti, l’utilizzo? Il superpotenziamento, sempre e comunque. Il mondo “ci” è già sempre in ogni utilizzabile. Ovviamente, ogni utilizzabile non può essere fuori dal mondo perché, come diceva prima, non è una semplice presenza, non è un segno avulso da una rete di segni in cui è inserito. Il mondo è già scoperto preliminarmente, anche se non tematicamente, in tutto ciò che in esso si incontra. (pag.108) Dice non tematicamente, cioè, anche se uno non ci fa caso esplicitamente, ma in tutto ciò che si incontra… il mondo è già scoperto, è già lì presente, perché è costituito da una relazione di segni, da una concatenazione di segni. Dicevo prima che il mondo è ciò che il linguaggio produce, ciò che produce che cos’è di fatto se non una concatenazione di segni? Il mondo è ciò in base a cui l’utilizzabile è utilizzabile. Se poniamo il mondo, come dicevo prima, come una rete, una combinatoria di segni, allora è questa rete di segni che è la condizione dell’utilizzabilità di qualcosa che è utilizzabile. L’utilizzabilità di questo aggeggio è per Heidegger il suo rimando, l’essere; questa utilizzabilità è utilizzabile perché questo aggeggio è all’interno di una rete di segni, perché, in quanto ente, è un ente intramondano e non può essere fuori del mondo, in nessun modo. Heidegger si ripete abbondantemente. La costituzione di mezzo-per… propria dell’utilizzabile fu indicata come rimando. Come può il mondo rilasciare nel suo essere un ente che abbia questo modo di essere? Perché si incontra questo ente per primo? Quali esempi di rimandi abbiamo elencati: l’utilità a…, l’inopportunità, l’impiegabilità e così via. L’a-che di un’utilità e il per-che di un’impiegabilità designano rispettivamente la concrezione possibile del rimando. Il “significare” di un segno, il “martellare” del martello non sono però le proprietà di un ente. Aveva fatto la distinzione del rinvio di un ente che rinvia a un altro ente e, invece, di un ente che rinvia a qualche cosa che si pone come un essere, e cioè il rinvio come segno, da una cosa all’altra, mentre il rinviare del martello al martellare non è un rinviare semplicemente a un qualcos’altro ma è un rinviare all’utilizzo concreto del martello, al suo essere, alla sua essenza. L’ente è scoperto in modo che, in quanto è l’ente che è, è rimandato a qualcosa. Quindi, è un ente in quanto è un rimando, sennò non è un ente. Esso ha con sé presso qualcosa il suo appagamento. Il carattere d’essere dell’utilizzabile è l’appagatività. L’appagatività implica l’appagamento con qualcosa presso qualcosa. Il rapporto espresso dal “con… presso…” deve essere indicato mediante il termine di rimando. Quindi, l’appagatività è il fatto che un elemento è appagato dal rinviare a quell’altra cosa. L’appagatività è l’essere dell’ente intramondano, a cui esso è già sempre innanzi tutto rilasciato. Qui sta dicendo che questa appagatività, e cioè il fatto che non ci sono se non relazioni, è l’essere dell’ente intramondano, cioè il modo in cui l’essere è nel mondo, e cioè come rinvio, come segno.