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12 febbraio 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

Siamo alla Sezione Prima, Determinatezza (Qualità), a pag. 69. L’essere è l’Immediato indeterminato. Cosa vorrà dire con questo? Bisogna tenere conto che per Hegel l’essere è il fenomeno, ciò che appare, l’immediato, e questo è indeterminato. Come faccio a determinare ciò che appare? Se comincio a determinare ciò che appare mi trovo preso in un rinvio senza fine. Esso è scevro della determinatezza rispetto all’essenza, com’è ancora scevro da ogni altra determinatezza che possa conseguire dentro se stesso. Essendo indeterminato, è un essere privo di qualità; ma in sé il carattere dell’indeterminatezza non gli compete che per contrapposto al determinato, ossia al qualitativo. Se parliamo di indeterminatezza paliamo già di determinazione, di qualcosa che è determinato contrapposto a qualcosa di indeterminato. Ora all’essere in generale viene a contrapporsi l’essere determinato come tale, ma con questo è la sua indeterminatezza stessa, quella che costituisce la sua qualità. Si mostrerà quindi che il primo essere è un essere in sé determinato, e che per ciò in secondo luogo, passa nell’esser determinato, è esser determinato; ma che questo, come essere finito, si toglie, e nell’infinito riferirsi dell’essere a se stesso, passa, in terzo luogo, nell’esser per sé. Abbiamo l’indeterminato; abbiamo la sua contrapposizione, che è la sua determinatezza; questa determinatezza si toglie, e allora succede che dall’indeterminato passiamo al determinato, che ritorna all’indeterminato determinandolo. Se vi ricordate il funzionamento della Fenomenologia dello spirito, è la stessa cosa: c’è l’in sé, l’immediato, il primo momento, ma c’è l’esser per sé che lo significa, che dice che cos’è; questo per sé si toglie e torna all’in sé, ma a questo punto l’in sé non è più quello di prima. A pag. 70, Capitolo Primo, A. Essere. Essere, puro essere, - senza nessun’altra determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza esso è simile soltanto a se stesso, ed anche non dissimile di fronte ad altro; non ha alcuna diversità né dentro di sé, né all’esterno. Con qualche determinazione o contenuto, che fosse diverso in lui, o per cui esso fosse posto come diverso da un altro, l’essere non sarebbe fissato nella sua purezza. Sarebbe l’essere parmenideo, per intenderci. Esso è la pura indeterminatezza e il puro vuoto. Essendo privo di qualunque determinazione è assolutamente vuoto. Nell’essere non v’è nulla da intuire, se qui si può parlare d’intuire, ovvero esso è questo puro, vuoto intuire stesso. Così non vi è nemmeno qualcosa da pensare, ovvero l’essere non è, anche qui, che questo vuoto pensare. L’essere, l’indeterminato Immediato, nel fatto è nulla, né più né meno che nulla. E adesso parla del nulla. B. Nulla. Nulla, il puro nulla. È semplice simiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto; indistinzione in se stesso. Per quanto qui si può parlare di un intuire o di un pensare, si considera come differente, che s’intuisca o si pensi qualcosa oppur nulla. Intuire o pensare nulla, ha dunque un significato. I due si distinguono; dunque il nulla è (esiste) nel nostro intuire o pensare, o piuttosto è lo stesso vuoto intuire e pensare, quel medesimo vuoto intuire e pensare ch’era il puro essere. Il nulla è così la stessa determinazione o meglio assenza di determinazione, epperò in generale lo stesso, che il puro essere. Il nulla e l’essere sono la stessa cosa. Chiaramente, qui il nulla non è inteso nell’accezione del nihil absolutum, che, come dicevamo l’altra volta, corrisponde all’assenza di linguaggio. Solo allora è nihil absolutum, ma già il dire questo lo pone come qualcosa: il nihil absolutum è l’essere fuori dal linguaggio, quindi, è qualcosa. Quindi, non possiamo non convenire che del nihil absolutum non possiamo né dire né pensare alcunché. Pertanto, quando si parla di nulla si parla sempre di qualcosa, ed è in questo senso che Hegel lo intende, come di un qualche cosa, e cioè del negativo di ciò che è. A pag. 71. La verità dell’essere e del nulla è pertanto questo movimento consistente nell’immediato sparire dell’uno di essi nell’altro: il divenire; movimento in cui l’essere e il nulla son differenti, ma di una differenza, che si è in pari temo immediatamente risoluta. Cioè: sono lo stesso. Nota I. Il nulla si suol contrappore al qualcosa. Chi non sarebbe d’accordo con questo? Tuttavia, se voi fate attenzione, in questo enunciato c’è qualcosa che ci interroga. Dice Il nulla si suol contrappore al qualcosa, e tutta l’argomentazione che segue è sorretta da questo, ma non lo dimostra: si suol, cioè si pensa così. È qualcosa che Peirce, per es., chiamava l’abito, la verità pubblica, e che Heidegger chiamava la chiacchiera, la doxa, l’opinione pubblica: si suole pensare così. Questo è interessante anche perché ci mostra come a fondamento di qualunque teoria c’è questo: si suole pensare così, e da qui partiamo. Si suole pensare così, è un’abitudine. Posso dimostrare che al nulla si contrappone qualcosa? Sì e no. Sì, perché posso costruire un’argomentazione logica, ma questa argomentazione logica avrà sempre come presupposto che al nulla si contrapponga qualcosa, e cioè che se costruisco una variabile, questa variabile sia qualcosa e non sia nulla. Ma come so che è così? Tecnicamente dovrei dire che non lo so. L’unica cosa che possiamo dire è che, come dicevamo la vota scorsa, se qualcosa è posto allora non è non posto, così come dice il principio di non contraddizione, e cioè qualcosa nel linguaggio non è non nel linguaggio. Ma oltre questo non possiamo andare, non posiamo andare oltre il funzionamento del linguaggio. Quindi, detto questo, e cioè che il nulla si suol contrapporre al qualcosa, Hegel prosegue. Ma qualcosa è già un ente determinato, che si distingue da un altro qualcosa, e così anche il nulla contrapposto al qualcosa è il nulla di un certo qualcosa, un nulla determinato. Una volta che abbiamo accolto la premessa possiamo andare via tranquilli. Qui però il nulla è da intendere nella sua indeterminata semplicità. Quando si volesse riguardar come più esatto di contrapporre all’essere il non essere, invece che il nulla, non vi sarebbe niente da dire in contrario, quanto al resultato, poiché nel non essere è contenuto il riferimento all’essere… Furono gli Eleati i primi ad enunciare il semplice pensiero del puro essere, soprattutto Parmenide, che lo enunciò come l’Assoluto e come l’unica verità, e ciò, nei frammenti di lui rimastici, col puro entusiasmo del pensiero, che per la prima volta si afferra nella sua assoluta astrazione: soltanto l’essere è, e il nulla non è punto. Nei sistemi orientali, essenzialmente nel Buddismo, il principio assoluto è, com’è noto, il nulla, il vuoto. Contro cotesta semplice e unilaterale astrazione il profondo Eraclito mise in rilievo il più alto concetto totale del divenire, e disse: L’essere è tanto poco, quanto il nulla, o anche: Tutto scorre, cioè tutto è divenire. Le sentenze popolari, specialmente orientali, che tutto quel che è abbia nella sua nascita stessa il germe del suo perire, e che viceversa la morte sia l’ingresso in una nuova vita, esprimono in sostanza cotesta medesima unione dell’essere col nulla. Ma queste espressioni hanno un substrato, in cui avviene il passaggio; l’essere e il nulla vengono tenuti separati uno dall’altro nel tempo, vengono immaginati come avvicendantisi in esso, non già pensati nella loro astrazione, epperciò nemmeno pensati come tali che siano in sé e per sé lo stesso. Fa una critica al buddismo, che è poi una critica alla religione. Non aveva torto nella Fenomenologia a dire che la religione è una, con tante piccole varianti, ma l’impianto fondamentale è sempre lo stesso. A pag. 73. Dell’essere e del nulla è il caso di dire lo stesso che dianzi fu detto dell’immediatezza e della mediazione … che cioè in nessun luogo, né in cielo né interra c’è qualcosa che non contenga in sé tanto l’essere quanto il nulla. Vedete com’è risoluto nell’affermare una cosa del genere. A pag. 74. Essere e non essere sono lo stesso; dunque è lo stesso che io sia o non sia, che questa casa sia o non sia, che questi cento talleri siano, o non siano, nel mio patrimonio. Questa conclusione o applicazione di quella proposizione ne cambia completamente il senso. La proposizione contiene le pure astrazioni dell’essere e del nulla; l’applicazione invece ne fa un determinato essere e un determinato nulla. Ma, come si è detto, qui non si parla di un essere determinato. Un essere determinato, finito, è un essere che si riferisce ad altro; è un contenuto che sta in un rapporto di necessità con un altro contenuto, col mondo intiero. Riguardo alla reciproca dipendenza dell’insieme la metafisica poté giungere all’affermazione (sostanzialmente tautologica) che se venisse distrutto un granello di polvere, rovinerebbe l’intiero universo. Se nelle istanze, che vengono fatte contro la proposizione in questione, qualcosa non si mostra indifferente, quanto al suo essere o non essere, ciò non è già a cagione dell’essere o non essere, ma a cagione del contenuto di questo qualcosa, per cui viene a connettersi con un altro qualcosa. Quando si presuppone un contenuto determinato, un qualche determinato esistere, questo esistere, essendo determinato, sta in una molteplice relazione verso un altro contenuto. Per quell’esistere non è allora indifferente che un certo altro contenuto, con cui sta in relazione, sia o non sia, perocché solo per via di tal relazione esso è essenzialmente quello che è. Lo stesso accade nel rappresentarsi (in quanto prendiamo il non essere nel senso più determinato del rappresentarsi come opposto della realtà). Nel contesto delle rappresentazioni, l’essere o l’assenza di un contenuto, che viene immaginato come tale che stia in una determinata relazione verso altro, non è indifferente. Naturalmente si potrebbero qui opporre delle obiezioni. Hegel fa una distinzione fra essere come concetto e essere come determinazione, ad es. i cento talleri, perché i cento talleri valgono in quanto sono in relazione con qualcosa, però anche l’essere è essere in quanto è in relazione con il non essere, con il nulla. E, infatti, a un certo punto, quando parlerà della qualità in modo più specifico, si accorgerà che anche la qualità, cioè la determinazione dell’essere, ha sempre la necessità di avere comunque un qualche cosa che gli si oppone, un suo negativo. In effetti, alla fine è vero che qualcosa sia o non sia è lo stesso. Però, andiamo per gradi. A pag. 77 c’è una nota di A. Moni, il traduttore. La fora del semplice riferirsi a sé, ossia dell’essere indipendentemente da altro, è la forma del concetto vero e proprio. Il concetto, cioè, non dipende, per il suo essere, altro che dal concetto, vale a dire da se stesso. Cento talleri sono invece cento talleri, soltanto per un altro; il loro essere, come cento talleri, dipende da chi li valuta, senza la qual valutazione non sono che tanti dischi di metallo. Mentre quindi per la loro essenza (il loro valore) i cento talleri dipendono dalla differenza che un altro pone fra possederli o non possederli (cioè fra a loro esistenza o non esistenza nel suo patrimonio), l’intelletto può però anche prescindere da questa loro essenziale relatività, e prestar loro la forma dell’essere indipendentemente da un altro o del riferirsi a sé. Ma solo in quanto si dimentichi che questa è una forma prestata loro dall’intelletto si può supporre che il non essere per me indifferente di possedere o non possedere cento talleri significhi qualcosa contro l’identità dei puri essere e non essere. Cosa ci sta dicendo qui Moni? …solo in quanto si dimentichi che questa è una forma prestata loro dall’intelletto, come dire che è una deviazione in quanto attribuisco a un qualche cosa una proprietà che propriamente non ha, che io gli ho attribuito ma che è non è questa proprietà in quanto tale, gliel’ho attribuita io, io posso attribuirgli tutto ciò che mi pare. Perché se non mi dimentico, come dice il Moni, che questa è una forma prestata dall’intelletto, allora non posso che concludere, come dice lui, che è indifferente significhi qualcosa contro l’identità dei puri essere e non essere; l’essere e il non essere sono lo stesso, posso però credere che non lo siano. A pag. 78. Il rinvio dall’essere particolare finito all’essere come tale nella sua universalità affatto astratta è da riguardare non solo come la prima esigenza teoretica, ma anche come la prima esigenza pratica. Quando cioè si tolga, a proposito dei cento talleri, che faccia una differenza ne mio patrimonio di averli o non averli, anzi perfino che io sia o non sia, che qualcos’altro sia o no, allora … si può rammentare, che l’uomo si deve innalzare nell’animo suo a questa astratta universalità, nella quale non solo gli sia di fatto indifferente che i cento talleri … siano o non siano, ma gli sia anche indifferente ch’egli sia o no, sia cioè o non sia nella vita finita, ecc. Poi cita Orazio, le Odi: …si fractus illabatur orbis, impavidum ferient ruinae, (se anche il mondo dovesse crollare, mi troverà impavido di fronte alle sue rovine). Occorre tenere che pensando così rovina tutto, nel senso che crolla tutto quanto, non c’è più nulla che abbia un valore di per sé, cosa che avverrà in parte in Freud un secolo dopo. Rovina tutto nel senso che non c’è più nulla su cui appoggiare il piede, che non dilegui mentre appoggia il piede. Lui si rende conto che è una cosa spaventosa per gli umani, è per questo che si definisce impavidus, senza paura, di fronte a queste rovine. Eppure, questo suo pensiero è straordinariamente potente: una potenza che si mostra nel momento in cui mostra in atto il funzionamento del linguaggio, e cioè che mentre dico qualcosa ciò che dico mi si dilegua davanti, mi scompare, muta, si trasforma in altro, non è più quella cosa lì. Ma è mai stata quella cosa lì? C’è mai stato un cominciamento? Ecco che di nuovo Hegel ci dice: questo cominciamento, sì, c’è stato ma posso deciderlo solo dopo, non prima. Solo alla fine posso dire che quello è stato il cominciamento; lo dico dopo, il cominciamento lo costruisco letteralmente dopo: è una costruzione a posteriori. Questo può apparire paradossale, però per Hegel non lo è; anzi, è il funzionamento stesso del linguaggio. È lo stesso anche per noi, nel senso che ciò che dico, ciò che pongo, è quello che è soltanto a posteriori, soltanto dopo questa cosa mi torna come lo in sé. La cosa è se stessa ma è se stessa perché nel frattempo è diventata altra, ha fatto quel percorso, descritto nella Fenomenologia, per cui è andata nel per sé, nel significato, ed è tornata nel significante. Il significato, il per sé, a questo punto scompare, non nel senso che non se ne parla più, ma dilegua in quanto negativo del positivo che ho posto, il suo contrario, ma è soltanto perché c’è il suo contrario che il positivo è quello che è. Per dirla più semplicemente: è soltanto perché c’è il non essere che l’essere è quello che è, perché io pongo il non essere e poi lo tolgo, ma devo fare questa operazione perché solo così io escludo che l’essere possa essere non essere, e cioè che qualcosa che io dico possa essere altro da ciò che dico, possa non essere ciò che dico. A pag. 80. Nel giudizio si prescinde da ciò che il soggetto ha altre determinatezze oltre quella del predicato, come vi si prescinde da ciò che il predicato è più esteso del soggetto. Il predicato è più esteso del soggetto: ciò che dico va molto oltre ciò che penso di dire. Anche pensando il soggetto filosoficamente come la persona, come il parlante, ciò che dice il predicato è molto più ricco di quanto lui immagini. È su questo che Freud ha costruito la psicoanalisi, ché se non ci fosse questo debordamento tutta la sua teoria dell’inconscio, della rimozione, ecc., crollerebbe come un castello di carte. Invece, già Hegel diceva che c’è molto di più. Perché c’è molto di più? È semplice, perché qualunque cosa io ponga, dica, è quello che è perché ha il suo negativo, perché c’è il nulla, il suo opposto, il suo negativo. Questo instaura il movimento per cui il suo opposto ritorna una volta tolto… devo toglierlo, non posso lasciare i due momenti stare per conto loro, come fa la religione che li lascia entrambi: io peccatore penitente e di là Dio onnipotente. Questo movimento, integrando il negativo, aggiunge qualcosa, cioè aggiunge quel in più al primo elemento, per es. facendo diventare il cominciamento, ma soprattutto ponendolo come altro rispetto a se stesso. Prima non era altro rispetto a se stesso; diventando altro rispetto a se stesso, ecco che è più di quanto si pensava che fosse. A pag. 81. Non si può allora negare, che questa proposizione venga affermata. Quanto ciò che si dichiara è esatto, altrettanto esso è falso; perché una volta che dallo speculativo si sia presa una proposizione, bisognerebbe almeno tener conto insieme anche dell’altra, e dichiararla. Questa cosa è così ma è anche altro rispetto a così, sempre e necessariamente: non si dà una cosa che non sia anche il suo contrario. Dice che occorre dichiararla; ma se la dichiaro pongo il negativo a fianco del positivo, e allora mi trovo nella posizione o religiosa, per cui li mantengo entrambi, oppure, come fa Hegel, li integro in un’unità, nell’intero, cioè nel linguaggio. A questo proposito è specialmente da ricordare quella parola, diciamo così, infelice, di “unità”. L’unità indica ancor più che l’identità una riflessione soggettiva. Essa viene soprattutto presa come quella relazione che sorge dalla comparazione, dalla riflessione estrinseca. In quanto questa riscontra lo stesso in due oggetti diversi, si ha così una unità, di fronte alla quale si presuppone in pari tempo la perfetta indifferenza degli oggetti stessi che vengono comparati, per modo che questo comparare e l’unità che ne risulta non riguardano per nulla gli oggetti stessi, ma sono anzi un’attività e un determinare ad essi estrinseci. L’unità esprime perciò la medesimezza affatto astratta, ed appare tanto più dura e sorprendente, quanto più quelli, di cui viene pronunciata, si mostrano assolutamente diversi. Invece di unità si direbbe perciò meglio inseparazione e inseparabilità. Ma così non è espresso l’affermativo della relazione dell’intiero. Dice che se si parla di unità questo dovrebbe presupporre che questi oggetti rimangano quelli che sono per poterne valutare la differenza, ecc.; mentre, come sappiamo, per Hegel questi due oggetti scompaiono nell’unità. Così l’intiero, vero resultato, che qui si è ottenuto, è il divenire, che non è soltanto l’unilaterale o astratta unità dell’essere e del nulla. L’astratta unità, cioè, fanno unità ma li mantiene in quanto separati: questo è l’astratto. Ma consiste in questo movimento, che il puro essere è immediato e semplice, che perciò esso è parimenti il puro nulla, che la differenza loro è, ma insieme anche si toglie e non è. Il resultato afferma dunque anche la differenza dell’essere e del nulla, ma come una differenza solo opinata. Io penso che siano differenti, quindi, li penso astrattamente. Certo, pensandoli li posso astrarre; anzi, li devo astrarre per poterli pensare, ma facendo questo, che cosa succede? Mi dimentico che questi due elementi formano un concreto, fanno parte dell’intero, sono l’intero. Qui ci sarebbe naturalmente da dire che pensando, parlando, non posso evitare questa cosa, cioè non posso evitare l’astrazione. Se io voglio prendere in considerazione questa penna, se voglio parlarne, devo astrarla dal concreto, dal fatto cioè che questa sia qui in questo momento, insieme a me e a voi, ecc., dal fatto, quindi, che questa penna è inserita nel mondo in cui la sto considerando in questo momento. È la famosa “lampada che è sul tavolo”. Severino, prendendo un enunciato che dice “questa lampada che è sul tavolo”, diceva che questo enunciato è il concreto, perché questa lampada che è sul tavolo, se io la considero per sé in quanto lampada, la astraggo dal suo contesto, cioè non è più “questa lampada che è sul tavolo” in questo momento, in questa situazione, con cose che la circondano, tutte queste cose scompaiono e rimane la lampada. Ma questa lampada, che io considero astrattamente, non è più la lampada di prima, perché la lampada di prima era quella che era in relazione al fatto di essere inserita in un certo mondo. Quindi, se la tolgo di lì, certo, la inserirò in un altro contesto, in un altro mondo, ma non è più quella di prima.

Intervento: quindi, sostanzialmente, c’è un arbitrio nella determinazione…

È inevitabile, non posso non farlo; posso, però, tenerne conto. Nel momento in cui prendo in considerazione qualche cosa, e lo determino arbitrariamente, lo tolgo dal concreto. Quindi, ciò che sto considerando in questo momento è altro da ciò che volevo considerare inizialmente. Io fingo che siano la stessa cosa e devo farlo, perché sennò non posso fare niente; però, posso naturalmente tenerne conto, perché questo ha delle implicazioni. Una di queste è considerare che la cosa che sto considerando astrattamente sia necessariamente quella che è per virtù propria. Qui mi trovo nelle grane perché non è quello che è per virtù propria, è quello che è in quanto inserita nel concreto. Se io la astraggo dal concreto, non c’è più nessuna ragione che la faccia essere quella che è, e allora mi devo inventare una legge che dice che quello che è quello che è, e basta. A pag. 82. …il terzo… La relazione. …in cui l’essere e il nulla hanno la loro sussistenza, si deve presentare anche qui; e si è presentato anche qui: è il divenire. Il divenire, cioè il movimento tra questi due momenti. Questo movimento tra i due momenti possiamo anche considerarlo come il concreto, di cui parla Severino. È nel divenire, che l’essere e il nulla sono come diversi: il divenire è solo in quanto essi son diversi. È nel divenire che l’essere e il nulla sono diversi, e il divenire c’è in quanto sono diversi. Un tal terzo è un altro che l’essere e il nulla. Non è più né una cosa né l’altra. Peirce ha ripreso da Hegel, anche se non lo cita mai. E cioè, nell’espressione A è B, nella reazione fra questi due, questi due non ci sono più, c’è la relazione; ma la relazione senza questi due non c’è; quindi, c’è la necessità di entrambi simultaneamente. Dir che questi sussistono solo in un altro, è dire insieme che non sussistono per sé. Sta parlando sempre dell’essere e del nulla. Il divenire è il sussistere tanto dell’essere, quanto del non essere. Senza questa relazione non sussistono questi elementi. Vale a dire che il loro sussistere non è che il loro essere in uno. È appunto questo loro sussistere, che toglie insieme la loro differenza. Perché sussistono esattamente nella loro relazione, e nella relazione questa differenza scompare; ma deve esserci. A pag. 83, Nota III. L’unità, i cui momenti, l’essere e il nulla, sono come inseparabili, è in pari tempo distinta da quei momenti stessi, e costituisce così contro di essi un terzo, che nella sua più particolare forma è il divenire. Passare è lo stesso che divenire, salvo che in quello i due, dall’uno all’altro dei quali si passa, vengono immaginati piuttosto come quieti uno fuori dell’altro, e il passare, a sua volta, viene immaginato come tale che accada fra loro. Ora, dovunque e comunque si parli di essere o di nulla, vi dev’essere sempre questo terzo; perocché quelli non sussistono per sé, ma son soltanto nel divenire, in questo terzo. È esattamente lo stesso discorso che facevamo a proposito di Severino: la lampada che è sul tavolo. Questa lampada esiste nella relazione che ha con altro, con altro da sé, sennò non sussiste. Questa lampada che è sul tavolo: c’è una lampada, che potrebbe anche apparirci come la stessa, ma nel momento che la considero non è più quella lampada che è sul tavolo, è un’altra cosa. Mi trattengo dunque dal prendere in considerazione varie sedicenti obiezioni e confutazioni che furono mosse contro l’affermazione che né l’essere né il nulla son qualcosa di vero, ma la loro verità è solo il divenire. Questa è la verità per Hegel: il divenire. Quindi, il divenire, la verità, è un movimento, non è un qualcosa di fisso, di statico, di fermo, di determinato, è il movimento stesso. Questa per Hegel è la verità, non ce n’è un’altra, perché se io determino qualcosa, questo determinato ha una sua controparte, e quindi è vero a condizione che non lo sia; che ci sia il nulla rispetto all’essere: l’essere è essere in quanto c’è il nulla. E, quindi, dove sta la verità, nell’essere o nel nulla? Ci sta dicendo che non sta da nessuna delle due parti, sta nel movimento, nel divenire l’uno continuamente l’altro. Parmenide teneva fermo l’essere, ed era perfettamente conseguente, per ciò ch’egli diceva insieme del nulla, ch’esso non è affatto; soltanto l’essere è. L’essere, preso così assolutamente per sé, è l’indeterminato, epperò non ha alcuna relazione ad altro. L’essere di cui parla Parmenide è assolutamente irrelato; se fosse in relazione con qualche cosa d’altro non sarebbe più il puro essere. Sembra quindi che da un cominciamento come questo non si possa andare innanzi… Questo è il problema di Parmenide che, posta la cosa come la poneva lui, non si poteva in nessun modo spiegare il movimento, che è sotto gli occhi di tutti continuamente, le cose si muovono, cambiano, ecc. Ma se l’essere è l’immutabile, assoluto ed eterno, allora non divengono, non c’è nessun movimento, non c’è nessuna possibilità che sorga qualcosa. È la questione affrontata da Severino… partendo cioè dal cominciamento stesso, e che un progresso si possa avere solo in quanto all’essere si annodi dal di fuori qualcosa di estraneo. Il progresso, che cioè l’essere è lo stesso che il nulla, ha quindi l’aspetto di un secondo, assoluto cominciamento, - di un passare, che è per sé, e che sopravverrebbe all’essere dal di fuori. Questa è l’idea anche di Parmenide, cioè di un qualche cosa che si aggiunge all’essere, che non toglie nulla all’essere ma che si pone come un finto essere, una pura illusione. L’essere non sarebbe affatto il cominciamento assoluto, quando avesse una determinatezza; in cotesto caso dipenderebbe da un altro, e non sarebbe immediato, non sarebbe il cominciamento. Se invece è indeterminato, e quindi vero cominciamento, non ha nulla, per cui possa trapassare ad un altro: è in pari tempo la fine. Questa è la obiezione di Hegel al pensiero di Parmenide. Il cominciamento è l’inizio ma anche la fine, non c’è nessun movimento, e se non c’è movimento, potremmo dire, non c’è linguaggio; se non ci fosse il linguaggio tutte queste questioni non si sarebbero mai poste; in realtà, non esisteremmo perché nessuno ci avrebbe detto che esistiamo né noi potremmo stabilire una cosa del genere. A pag. 91. …ci si può rappresentare (o anche, come suol dirsi, spiegare e rendere intelligibile) il passaggio dall’essere al nulla come un che di facile e triviale, nel senso cioè che quell’essere, di cui si è fatto il cominciamento della scienza, sia correttamente il nulla, in quanto che si può astrarre da tutto, e quando si è astratto da tutto, non resta nulla. Se io astraggo, a forza di astrarre non rimane più nulla. Per parafrasare Hegel: si suole pensare così. Ma è così? E che cosa mi sto chiedendo quando mi chiedo se è così? Una verità che è fuori da ogni grazia di Dio, che sta da qualche parte? Se non che, si può soggiungere, il cominciamento non è così un affermativo, non è l’essere, ma appunto il nulla, e il nulla è allora anche la fine, per lo meno quanto l’essere immediato, anzi anche meglio di questo. La più breve è di lasciar andare simili ragionamenti, guardando invece di che natura siano i resultati che pretendono ottenere. Che il resultato di un tal ragionare, dunque, fosse il nulla, e che quindi si dovesse cominciare col nulla … è cosa per cui non varrebbe la pena di alzare un dito, perché prima che si fosse alzato, cotesto nulla si sarebbe dal canto suo cambiato in essere. È inutile parlare di questo nulla che dovrebbe essere fuori del linguaggio, è inutile che parliamo di qualcosa fuori del linguaggio; nel momento stesso in cui ne parliamo, lo pensiamo, ecc., siamo già nel linguaggio; quindi, è inutile perdere tempo, dice giustamente Hegel. A pag. 93. Lo stesso avviene per il nulla … al cui proposito questa riflessione è abbastanza nota, essendo stata di sovente ripetuta. Preso nella sua immediatezza, il nulla si mostra come tale che è; perocché secondo la sua natura esso è lo stesso che l’essere. Se il nulla è, è l’essere. Il nulla vien pensato, è oggetto di rappresentazione; del nulla si parla; dunque è. Il nulla ha il suo essere nel pensare, nel rappresentare, del parlare ecc. Questo essere vien però anche distinto dal nulla. Quindi si dice che il nulla è bensì nel pensiero, nella rappresentazione, ma che non per questo esso è, giacché l’essere non conviene al nulla come tale, ma soltanto il pensiero o la rappresentazione sono questo essere. Non possiamo porlo come tale il nulla, dobbiamo sempre porlo in relazione al linguaggio, in relazione a ciò che ci consente di parlarne. Nonostante cotesta distinzione non si può però negare che il nulla sia in relazione con un essere. Ora nella relazione, benché contenga anche la differenza, è data una unità coll’essere. In qualunque modo venga enunciato o mostrato, il nulla si mostra collegato, o se si vuole, si mostra in contatto con un essere, inseparabile da un essere, e ciò appunto in un essere determinato. Potremmo indicare l’essere determinato come l’atto di parola: del nulla ne parlo, ne sto parlando, il nulla è nel dire; non c’è un altro nulla che non sia questo. A pag. 94. Intorno alla determinazione del passaggio dell’essere e del nulla l’uno nell’altro si può ancora notare che cotesto passaggio è parimenti da intendere senza alcuna ulteriore determinazione riflessiva. Esso è immediato e del tutto astratto, a cagione dell’astrattezza dei momenti che passano, vale a dire in quanto in questi momenti non è ancora posta la determinatezza dell’altro, pel cui mezzo dovrebbe passare: il nulla non è ancora posto, nell’essere, benché l’essere sia essenzialmente il nulla, e viceversa. Ora, c’è una nota interessante di Moni. In generale il passaggio di un momento in un altro si opera per ciò che nel primo viene a mostrarsi come implicitamente contenuto il secondo. Il passaggio dal primo al secondo momento non è allora che un’esplicazione di ciò che nel primo momento si trovava come soltanto implicito. Hegel vuol dire ora questo, che, trattandosi dell’essere e del nulla puri, non si può nemmeno parlare, a rigore, di un passaggio di quello in questo. Perché dall’essere si potesse effettivamente passare al nulla, bisognerebbe infatti che nell’essere fosse già implicitamente contenuto il nulla. Ma per essere contenuto nell’essere, sia pure in maniera soltanto implicita, occorrerebbe al nulla di esser distinto, in pari tempo, dall’essere;… Questo è un problema, che poi Hegel risolve: se il nulla è contenuto, dovremo allora pensare che sono distinti, mentre per Hegel non lo sono affatto, l’essere è il nulla. …e così l’essere dovrebbe racchiudere in sé la distinzione di sé e del suo opposto. Ora invece è il concetto stesso dell’essere ch’esso sia l’indifferente (l’indistinto) tanto dentro di sé quanto rispetto ad altro. Se è indistinto non ci sono determinazioni. Quindi il passaggio dall’essere al nulla non può, a rigor di termini, aver luogo come passare, ma soltanto come esser già passato: quando noi vogliamo cogliere il passaggio, il passaggio è già avvenuto. Questo è quel che Hegel vuol fare intendere dicendo che cotesto passaggio è immediato e affatto astratto. L’essere non va al nulla, ma è … il nulla. Qui c’è una cosa interessante che dice Moni quando dice che non passa ma l’unica cosa che possiamo cogliere è il già passato, il fatto che sia già passato l’essere nel nulla, e viceversa: non possiamo cogliere il passaggio. Questo ci rinvia al prossimo libro che leggeremo, L’attualismo di G. Gentile. Se pensiamo alla distinzione che pone tra il pensare e il pensato, il pensare è ciò che è in atto – da qui l’attualismo –; il pensato in teoria no; ma se io penso qualche cosa, quando penso a ciò che ho pensato, appunto penso al pensato, non penso il pensare. Questo ci rinvia immediatamente al fatto che ciò che avviene nell’atto non ha modo di essere colto se non nel suo opposto, come dice Hegel: soltanto nell’opposto posso cogliere il cominciamento. Questo è un altro modo interessante di porre la questione del cominciamento: non lo posso porre mentre comincia, nell’atto, lo posso porre solo dopo, perché solo dopo mi accorgo che lì c’è stato il cominciamento, mentre comincia non lo so, non lo posso sapere. Non lo posso sapere così come Gentile parla del pensare e del pensato: non posso sapere il pensare, perché se considero il pensare lo considero già come pensato. Naturalmente, poi c’è la questione che quando penso il pensato anche questo è un pensare, che ha un altro pensato. Vedete come la questione hegeliana è continuamente presente anche in Gentile: questo cominciamento, questo passare da l’in sé al per sé, che poi torna a l’in sé, sì, certo, come cominciamento, ma questo cominciamento non è più l’atto di prima, non è più l’atto del pensare, è già il pensato, ma questo pensato, quando lo penso, di nuovo ricomincia il circolo, rimette in movimento tutto. A pag. 99, punto 3, Togliere il divenire. Ciò si potrebbe esprimere anche così: Il divenire è lo sparire dell’essere nel nulla, e del nulla nell’essere, e lo sparire, in generale, dell’essere e del nulla; ma nello stesso temo riposa sulla loro differenza. Il divenire si contraddice dunque in se stesso, poiché unisce in sé quello che è contrapposto a se stesso; ma una tale unione si distrugge. Unisce ciò che è contrapposto a se stesso, ma una tale unione si distrugge. Ma non è quello che diceva prima? Lo indicavo anche rispetto all’attualismo: questo unire, nel momento in cui unisce, fa scomparire i due elementi, ma questi due elementi devono esserci necessariamente. Il fatto che ci sia il divenire comporta che ci siano questi elementi, sennò non c’è nessun divenire tra l’uno e l’altro. È come in una relazione: i due termini della relazione scompaiono, ma se non ci sono i due termini, che relazione c’è? Questo resultato è l’essere sparito, ma non come nulla. Il divenire fa sparire i due elementi ma non come nulla, non sono nulla perché devono continuare a sussistere, ma in quanto dileguati. Così sarebbe soltanto un ricadere nell’una delle determinazioni già tolte, non un resultato del nulla e dell’essere. Se io dico che sono diventati nulla, questo nulla è uno dei termini dell’essere e del nulla e, quindi, di nuovo ricado nel prendere in considerazione uno dei due capi della questione. Esso è l’unità dell’essere e del nulla, in quanto è divenuta una quieta semplicità. Ora la quieta semplicità è essere, però non più per sé, ma come determinazione dell’intiero. Il divenire, il passare così in quell’unità dell’essere e del nulla, che ha la determinazione dell’essere, ossia ha la forma dell’immediata unilaterale unità dei due momenti, è l’esser determinato. Il divenire è questo movimento tra l’essere e il nulla, il nulla si toglie, torna all’essere, ma a questo punto l’essere è determinato. Il che è esattamente ciò che dice Severino rispetto all’essere e al non essere: l’essere è in quanto c’è il non essere, lo metto a fianco ma devo toglierlo, devo dire che l’essere è in quanto non è non essere, in quanto non è questa cosa che gli ho messo a fianco; se non gliela metto a fianco anche l’essere rimane indeterminato; si determina come essere quando ho posto il suo opposto e l’ho tolto. Capite, quindi, anche l’importanza del movimento che Hegel fa di toglimento continuo della negazione. Lui distingue fra la prima e la seconda negazione: la prima negazione è l’opposto dell’elemento, cioè quello che lo nega; la seconda negazione è il toglimento dell’opposto per tornare al primo elemento, è la negazione della negazione. A pag. 101. Il senso e l’espressione più precisa che l’essere e il nulla ricevono, in quanto ormai son momenti… Ormai sono momenti e non più figure o istanze a sé stanti, ma sono momenti di un intero. …ha da risultare dalla considerazione dell’esser determinato, in quanto è quell’unità in cui l‘essere e il nulla son conservati. Non è che scompaiono, sono conservati. È l’Aufhebung, un sollevamento, un superamento, un’integrazione, ma integrando gli elementi dell’integrazione permangono, anche se non più quelli di prima. L’essere è essere, e il nulla è nulla, solo nella loro diversità uno dall’altro. Ma nella loro verità, nell’unità loro, essi sono spariti come queste determinazioni, e sono ormai qualcos’altro. Qui c’è tutto Peirce: gli elementi della relazione, quando sono nella relazione, non sono più quello che erano prima, sono qualche cos’altro, sono una relazione. L’essere e il nulla sono lo stesso. Appunto perché sono lo stesso, non sono più l’essere e il nulla, ed hanno una determinazione diversa. Nella relazione sono elementi differenti. Nell’esser determinato, come unità altrimenti determinata, sono di nuovo momenti altrimenti determinati. Questa unità rimane ora la loro base, dalla quale non escono più per prendere il significato astratto di essere e nulla. Nel momento in cui sono considerati come concreti, nel momento in cui vengono presi nel linguaggio, non è più possibile astrarli. Non è possibile nel senso che devo pensare come se non fossero nel linguaggio. Torniamo all’esempio della lampada sul tavolo. Quando io astraggo la lampada dalla proposizione “questa lampada che è sul tavolo”, è come se io la astraessi dall’atto linguistico in cui esiste; è come se in un certo senso la togliessi dal linguaggio, per reperirla immediatamente dopo in un’altra storia, ovviamente; ma è come se dovessi compiere questa operazione: astraendola, immaginare di portarla fuori dal concreto, ma il concreto è il linguaggio, è l’intero, è il tutto. Quindi, per potere considerare qualcosa devo, in un certo qual modo, considerare questo qualcosa come fuori dal linguaggio. Solo così posso determinarlo, posso manipolarlo, posso farne quello che mi pare. Ho detto “in un certo qual modo” considerarlo come se fosse fuori dal linguaggio; dire che lo astraggo è un po' la stessa cosa. Quando mi metto a disquisire sulla lampada (quanto è alta, quanto pesa, ecc.), tutte queste operazioni posso farle nel momento in cui la astraggo dalla proposizione che l’ha fatta esistere come “questa lampada che è sul tavolo”. E, allora, a questo punto è inserita in un altro concreto, in un’altra storia, in un altro racconto, in un’altra narrazione, che è quella che mi dice che questa lampada è misurabile, ha un peso, ecc.: è un altro racconto. Non posso non inserirla in un racconto. La astraggo per poterla considerare, sì, certo, ho dovuto astrarla, ma per poterne parlare mi ritrovo di nuovo a doverla porre in un concreto, in una storia in cui la lampada ha una certa consistenza, ha una sua storia, ecc.