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12 gennaio 2022

 

Il sofista di Platone di M. Heidegger

 

I sofisti sono stati i primi a porre la priorità del linguaggio, ad accorgersi che di qualunque cosa parli, se ne parlo, è perché ho determinato qualcosa. Ma se ho determinato qualcosa vuole dire che l’ho inserito nel λέγειν, nel dire e che, quindi, è necessariamente nel linguaggio. Qualunque cosa io pensi, dica o tratti in qualunque modo, per poterlo fare devo determinarlo. Determinarlo significa inserirlo in una combinatoria, in un rinvio: ogni determinazione è una trasposizione da una cosa a un’altra. Ciò di cui si sono accorti è che non posso determinare qualche cosa da sé, che era ancora l’idea di Platone e di Aristotele, trovare qualche cosa da contemplare in assenza di linguaggio, θεωρέιν. Sì, certo, ma questo qualcosa, perché sia qualcosa, devo determinarlo, sennò è niente. Anche se dico che è indeterminabile, per potere affermare questo devo averlo determinato, sennò non so di che cosa sto parlando dicendo che è indeterminabile; quindi, per potere dire che è indeterminabile devo averlo determinato. Per determinare, come stavo dicendo prima, occorre un rinvio, posso determinare qualcosa solo in relazione ad altro, non in relazione a sé, perché se non è determinato, se non rinvia ad altro, è nulla. È esattamente il discorso che faceva Aristotele rispetto alla potenza e all’atto: una qualunque cosa, perché possa dirne… lui parlava anche della materia e della forma: la materia è indeterminata, ma per potere dire che è indeterminata devo determinarla come forma, sennò non posso fare niente. I sofisti si sono accorti di una cosa del genere. Certo, hanno inventato la retorica, l’eristica, ecc., ma queste sono l’effetto collaterale di tutto ciò; non era questo il loro obiettivo, anche se con questo si facevano pagare, il loro lavoro teoretico andava ben oltre, andava nella direzione del linguaggio, nell’accorgersi che ciascuna cosa, per essere, deve essere linguaggio. Ecco tutta l’insistenza, così come sottolinea qui Heidegger, anche se a lui sfugge la questione, l’insistenza sul λόγος: tutto torna al λόγος, tutto arriva lì e senza il λόγος non si va da nessuna parte. Proprio per questo motivo, che è semplice in un certo senso: per potere considerare qualche cosa devo determinarlo e la determinazione è un rinvio, è linguaggio. È relazione, e il linguaggio è relazione. Ma vediamo che cosa ci dice qui Heidegger. Per la comprensione del nostro dialogo dobbiamo tenere fermo il senso che il sofista assume nella delimitazione rispetto alla dialettica e alla filosofia. La sofistica è caratterizzata dall’irrealismo … Dicevamo forse l’altra volta che al sofista non interessava la realtà, perché se questa realtà devo determinarla diventa già un’altra cosa. L’irrealismo è da intendersi qui in un senso ben determinato, non si tratta di un irrealismo dovuto al caso, all’arbitrio e all’occasione, bensì di un irrealismo di fondo, che però non può essere concepito come se nei sofisti fosse una meditazione intesa a travisare e a occultare le cose... Certo che no, non gliene importava niente. …come se essi volessero soltanto ingannare. Si tratta di un irrealismo che possiamo meglio determinare… Qui la parola “determinare” continua insistentemente: tutto deve essere determinato per essere qualcosa. Il qualcosa è qualcosa quando lo determino, sennò è nulla. Se non è determinato diventa il nulla, non nel senso del non-ente ma di un nihil absolutum. Il nihil absolutum non è altro che l’assenza di linguaggio, cioè, qualcosa fuori del linguaggio. Io non posso pensare qualcosa che è fuori del linguaggio; se lo penso sono già nel linguaggio, ovviamente. Posso formulare questa cosa ma, in realtà, non la posso pensare in nessun modo: questo è il vero non-ente o non-essere. Come diceva Parmenide: se essere e pensare sono lo stesso, allora è chiaro che il non-essere è essere fuori del linguaggio ed è per questo che non c’è. Si tratta di un irrealismo che possiamo meglio determinare come incuranza della realtà, dunque, appunto un irrealismo che si fonda però su un elemento positivo ovvero su un peculiare apprezzamento del predominio del discorso e dell’uomo che discorre. La parola detta, per il predominio che esercita sul singolo come pure sulla comunità, è per il sofista ciò che costituisce l’aspetto decisivo. Ebbene, nella misura in cui questa ostinazione sulla parola e sulla parola detta bene ed efficacemente, comporta per il discorso un obbligo di discorrere sempre di qualcosa. Ciò che per i sofisti era ovvio ed evidente sembra qui quasi una sorpresa, cioè, se discorro, discorro di qualcosa. Posso discorrere di nulla? Se discorro del nulla anche il nulla diventa qualcosa. …questo discorrere fine a se stesso, già solo per il fatto di porre l’accento unicamente sull’aspetto formale del discorso e dell’argomentazione, questa è una forma di irrealismo. Vale a dire, si sono accorti che fuori del linguaggio non c’è niente. È per questo che Heidegger “accusa” i sofisti di irrealismo: si sono accorti che fuori del linguaggio non c’è niente. Ma questo non è irrealismo. Si sono accorti che l’unica realtà che possiamo concepire è quella che riguarda il λόγος. In quanto ogni discorso discorre di qualcosa, e poiché il sofista appunto discorre, è costretto a parlare di qualcosa, che questa cosa gli interessi oppure no, ma proprio per il fatto che questa cosa non gli interessa e quindi non vuole restare legato alla realtà di cui parla, riponendo il senso del suo discorso unicamente nella bellezza dello stesso, egli diventa un irrealista. Irrealismo è incuranza del contenuto reale di ciò che viene detto… Sì, questo sì, ma non è che il sofista sia irrealista per una questione estetica, non è che non gli importi della realtà, gliene importa nel senso che ci ha pensato: la realtà è nel λόγος e, quindi, non si cura di ciò che è fuori del λόγος, ecco ciò di cui non si cura. Ora, poiché il discorso è la modalità fondamentale di accesso e di relazione al mondo… Qui i sofisti avrebbero avuto qualche nota da rimarcare, perché non è la modalità di accesso a un mondo che, quindi, è fuori del λόγος. Già loro se ne erano accorti: se è fuori del λόγος, come vi accedo? È la domanda con cui finiva il precedente capitolo: se non è nel λόγος dov’è? Quindi, non è tanto che sia l’unico accesso a mondo, ma è perché c’è il λόγος che c’è il mondo, il che è un po’ diverso … ed è la modalità in cui è data innanzitutto la realtà del mondo e, anzi, non solo quella del mondo ma anche quella degli altri uomini e ciascuno di loro, l’incuranza della realtà da arte del discorso equivale all’inautenticità e allo sradicamento dell’esistenza umana. È come se accusasse i sofisti di non considerare l’esistenza umana per sé, ma anche quella è un effetto del λόγος, del fatto che parliamo. Non è che è incurante rispetto agli umani, ma sa che questi umani non esistono per sé, non esistono senza il λόγος che li determina. Questo è il senso vero e proprio dell’irrealismo che connota la sofistica come incuranza della realtà. A questo proposito bisogna considerare che l’esistenza è vista dai Greci come esistenza nella polìs. Il contrario di questa esistenza sradicata e in modo specifico in cui esso si esprime nella vita comunitaria; insomma, il senso proprio dell’esistenza sta nel realismo, nello scoprire ovvero nel comprendere fondamentalmente la realtà dell’ente. Consiste, allora nell’idea della filosofia scientifica, che prese vita innanzitutto con Socrate e si realizzò completamente in Platone e Aristotele. Ma questa ricerca della realtà dell’ente, di fatto, che cosa cerca se non un ente che sia fuori del λόγος? È solo a questa condizione che possiamo dire di avere reperito l’ente in quanto tale. Ma come lo trovo fuori del λόγος? E, soprattutto, con che cosa lo cercherò? Da dove partirò per cercarlo? Aristotele lo dice, poi in qualche modo lo sconfessa, ma lo dice: partiamo dalla chiacchiera, quindi, dal dire, dal λέγειν. Qualunque determinazione non fa che riproporre sempre il λόγος, ovviamente. È vero che i sofisti non si sono occupati di quella che Aristotele chiama filosofia scientifica, filosofia prima; non se ne sono occupati perché sapevano, non perché non sapessero, ma perché sapevano che quella ricerca intorno al vero ente non può approdare ad alcunché, può approdare soltanto ad altri enti e ad altri enti ancora e via di seguito, producendo quel cattivo infinito… Adesso dobbiamo naturalmente comprendere la semplice interrelazione di questi opposti: realismo e autentico realismo dell’indagine, nel senso cioè che ciascuno di noi capisca, per ciò che lo concerne, che cosa significa tale realismo. La difficoltà di questo dialogo non risiede nella specifica trattazione ontologica sul non-essere, la negazione e simili aspetti, e nemmeno nella complessità delle partizioni, ecc.; invece, consiste nel cogliere correttamente l’interconnessione del tutto e, quindi, quella realtà di cui in definitiva e propriamente si ragiona, di modo che la comprensione di ciascun passaggio sia alimentata da tale realtà come da un’unica sorgente unitaria. L’interconnessione del tutto. Il tutto, όλον, dunque. Ma qui torniamo alla questione da cui siamo partiti: posso determinarlo oppure no? Se non posso determinarlo non posso dirne niente e, quindi, non c’è. Posso credere che ci sia, certo, ma non c’è, perché non lo posso determinare. Se lo determino, come lo determino? Attraverso i molti. Questo tutto, che è uno, lo determino attraverso i molti. Ecco, quindi, che questa insistenza dell’uno e dei molti, che c’è anche nei sofisti, è la condizione della determinazione perché l’uno lo definisco attraverso i molti e i molti li prendo come un uno, come un monoblocco. Il colloquio ha inizio quando Teodoro presenta a Socrate lo straniero. A questo punto apprendiamo che questo ξένος (straniero) proviene da Elea, che è compagno e amico degli allievi di Parmenide e Zenone, la qual cosa ne denota la provenienza spirituale e scientifica, che è un uomo assai filosofico, e questo è riferito alla sua esistenza. Dunque, viene introdotto un filosofo della scuola di Parmenide. Ciò conferisce già all’atmosfera spirituale del dialogo la sua connotazione. Abbiamo a che fare con un eleate. Il confronto vero e proprio e la discussione sulla realtà delle cose si muove nell’orizzonte della problematica istituita dalla filosofia eleatica, da Parmenide di Elea /…/ un cenno preliminare al contenuto reale del dialogo, vale a dire la domanda se anche il non-essere sia. /…/ La parola θεόν (dio) significa semplicemente il riferirsi nel proprio conoscere a quell’ente che nell’ordine della realtà possiede il rango più elevato. Questo sarebbe il dio. È, in definitiva, qualcosa che ha a che fare con la conoscenza. Il chiarimento del λόγοςQuesto è l’avvio della parte dedicata alla retorica …costituiva per i Greci un compito fondamentale e per giunta tale che essi procedettero con difficoltà e lentamente e in un certo senso rimasero bloccati. Si può anche capire. Infatti, il λόγος, il linguaggio, scappa da tutte le parti, come lo fermo? Questo momento coincide con ciò che viene comunemente tramandato come logica aristotelica, poiché in ultima istanza la dottrina del λόγος è maturata presso i Greci in un senso teoretico. Il fenomeno primario del λόγος fu la proposizione, l’asserzione teoretica su qualcosa. Poiché il λόγος viene determinato primariamente a partire da questa, tutta la logica successiva, come è venuta evolvendosi nella filosofia occidentale, è diventata logica proposizionale. I tentativi elaborati successivamente per riformare la logica sono sempre orientati alla logica proposizionale e devono essere concepiti come modificazione di quest’ultima. Quello che abitualmente conosciamo come la logica è soltanto lo sviluppo di un ben preciso indirizzo di indagine all’interno della filosofia greca, ma non è affatto la logica e sono ben lungi dall’essere poste le questioni fondamentali che si legano al fenomeno del λόγος. Poiché la logica proposizionale è così orientata, assumendo come fondamento esemplare la proposizione teoretica, ha dominato nel contempo tutte le altre forme di pensiero volte all’esplicazione in senso lato del λόγος come linguaggio. Tutta quanta la linguistica, e in un’accezione più ampia anche la filosofia del linguaggio, sono state viste in dipendenza da tale logica proposizionale. Tutte le nostre categorie grammaticale e anche tutte le nostre odierne grammatiche scientifiche, lo studio delle lingue indoeuropee e così via, sono determinate nella loro essenza da questa logica teorica, a tal punto che appare pressoché disperato il tentativo di comprendere il fenomeno del linguaggio prescindendo da questa logica tradizionale. Sussiste, tuttavia, il compito di concepire una buona volta la logica in senso più radicale di quanto non sia riuscita ai Greci e di elaborare lungo questa via una comprensione più radicale del linguaggio stesso e, quindi, anche delle discipline linguistiche. Forse gli antichi non l’hanno formalizzato ma i sofisti e gli eleati ci sono andati molto vicino. Tenete sempre conto che il punto cruciale di questo dialogo, Il sofista, è la necessità di stabilire che il non-ente è qualcosa, è uno scritto “contro” Parmenide e, quindi, in questo dialogo si deve mostrare che anche il non-essere comunque è. L’esistere di un ente diventa perspicuo in ciò da cui deriva. Lo ξένος sottolinea ancora una volta la difficoltà di questa indagine e propone intanto di provare a esercitare la modalità di tale indagine ovvero di tale approccio analitico. A tutti noi viene insegnato da lungo tempo, è un’antica regola, una vecchia regola comune: tutto ciò che è, a proposito delle cose importanti, deve essere studiato a fondo... Lui traduce Καλός con “a fondo”, cioè, studiato bene. Generalmente, si traduce con bello …in modo appropriato, deve essere esercitato anzitutto nell’ambito di ciò che è banale e vi è identità, perché ci si possa poi cimentare direttamente con essi oggetti più importanti. Questo è interessante perché in fondo è ciò che poi dirà molto dopo con Heidegger: si parte dalla chiacchiera, da cose banali, non si può partire da concetti astratti, astrusi. Per poterli trattare, determinare, devo cominciare a dire qualche cosa che conosco, quindi, cose che vengono dal luogo comune, dal pensare comune. È questo il metodo e, infatti, Platone da che cosa parte? Dal pescatore. L’intento è quello di riuscire a definire il sofista, chi è il sofista, che cosa fa esattamente, e comincia con il pescatore. Si può capire perché proprio il pescatore: perché attira, tira su con la lenza oppure irretisce le sue prede, venendo poi Platone a dire quello che secondo lui fa il sofista: irretisce i giovani e li travia. Si parte da qualche cosa che è ben noto e di poca importanza. Le due cose procedono in qualche modo di pari passo, qualcosa che si conosce bene per l’esperienza quotidiana, di cui tutti sanno che cos’è. Qui c’è anche Aristotele, quando dice che occorre trovare qualche cosa di vero: dove lo troviamo? Da quello che è vero per i più, da quello che è riconosciuto vero dai più: da lì partiamo, necessariamente. Nessuno gliene fa una colpa perché non è possibile fare altrimenti. Bisognerebbe solo tenerne conto, anziché a un certo punto dimenticarsi da dove si è partiti e immaginare di potere determinare come stanno veramente le cose, cioè, ricordarsi che si è partiti da qualche cosa che è creduto vero dai più, per lo più. Potremmo chiamarlo in modo appropriato: da un τόπος retorico. Le cose importanti della vita sono per lo più controverse su ciò che le riguarda, come è il caso di quanto si riferisce al filosofo, al sofista e al politico, sussiste γνοια, ignoranza /…/ Quello che si deve cogliere è innanzitutto ciò che in esso puramente si mostra. Potrà risultare che questo primo aspetto della cosa magari sia affetto da una concezione del tutto impropria, ma per l’apprensione e l’approccio più immediati è quello l’aspetto che più conta. Ed è proprio quest’ultimo che deve essere raccolto e messo al sicuro al fine di poter porre una domanda fondata circa la cosa in questione. Cioè: una cosa banale ma che è nota a tutti. Deve avere queste due caratteristiche. Cosa significa in fondo che deve essere nota a tutti? Se ci pensiamo bene: che non sollevi obiezioni. Se io dico che questo è un posacenere non andrò incontro a obiezioni. Dice rispetto all’ente: Nient’altro quel suo esser lì in esso stesso, la sua presenza e invero la sua piena presenza nel suo presentarsi senza contraffazione, così com’è. Husserl diceva “la cosa stessa”, andare alle cose stesse, in carne ed ossa. Nel conoscere e nel parlare viene appropriata la verità dell’ente, la sua svelatezza. Quindi, la sua svelatezza accade nel dire. Senza il dire non c’è svelatezza, cioè, non si mostra l’ente, non appare, non c’è il fenomeno, non c’è niente. Abbiamo così evidenziato due atteggiamenti fondamentali, due possibilità di approccio, alle quali può essere riferita la τέχνη... Che è quella che si cerca del sofista: qual è la sua tecnica? Che cosa fa esattamente un sofista? …produzione e appropriazione… Ha esaminato questi due aspetti: appropriarsi di qualcosa, una tecnica di appropriazione, per esempio rispetto alla pesca, come ci si appropria del pesce - lo si tira su con la lenza oppure lo si irretisce - e come ci appropria di qualcosa: l’appropriarsi di qualcosa comporta, invece, la forza, un’appropriazione energica, l’accaparrarsi di qualcosa. Questi sono atteggiamenti originari del vivere. In seguito, saremo costretti dalle domande reali del dialogo a ritornare più approfonditamente su questi fenomeni e a vederli in modo più originario. All’interno dell’appropriazione e della produzione possono essere evidenziati fenomeni identici che non sono riferiti alla τέχνη, alla dimestichezza in quanto tale… Heidegger intende con τέχνη anche la dimestichezza, l’aver dimestichezza con qualcosa. È abbastanza facile con il greco trovare altri significati. Questo dato di fatto fondamentale comune a entrambi ci è suggerito dal termine approccio, quello di un vivente, ovvero dell’uomo, al suo mondo. A partire da questo carattere la stessa τέχνη è stata fatta oggetto di un’interpretazione specifica, in base alla quale la vera-dimestichezza-con-qualcosa, sicché ne risulta una strana conseguenza, che cioè la τέχνη ποιητιχή, l’approccio produttivo, è guidata e accompagnata da una preliminare appropriazione di ciò che c’è, ovvero, di ciò che dev’essere fatto. È chiaro che anche nella tecnica c’è abilità nel fare ma nel fare qualche cosa: se io voglio produrre qualche cosa, parto da qualche cosa che c’è già. Tenete conto che questa è sempre una preparazione alla questione del λόγος, quindi, è sempre riferito al λόγος, cioè, se io voglio inventarmi qualche cosa parto da qualche cosa che c’è già. Questa è la questione della chiacchiera in Heidegger: parto sempre da qualche cosa che c’è già, che c’è già nel mio discorso, nel λόγος, è già presente. Ed è per questo che posso manipolarlo, perché c’è già. Sarà poi Aristotele a definire come εδος ciò di cui ci si deve appropriare primariamente nella τέχνη, come abbiamo cercato spiegare con l’esempio della scarpa. Εδος è una parola che generalmente viene tradotta con immagine, anche forma, anche essere. Qui εδος diventa ciò di cui ci si deve appropriare. Nell’interpretazione tradizionale di Platone queste cose sono passate inosservate in quanto, certo, esse sono diventate troppo primitive e ovvie al cospetto di una così alta scienza qual è la filosofia odierna. C’è una certa ironia in tutto questo. La vera importanza di questa interconnessione si può in realtà vedere solo se ci si è preventivamente appropriati dei fenomeni, vale a dire, se si indagano fenomeni originari come il prendersi cura, l’essere del mondo circostante, e così via. Qui sottolinea questi aspetti perché sono quelli di cui parla in Essere e tempo. Questo è il senso autentico del cosiddetto lavoro sistematico della filosofia. Noi non facciamo sistematica per ottenere un sistema ma per comprendere noi stessi nei fondamenti dell’esistere. Quindi, non facciamo una sistematica per costruire un altro sistema, ma per comprendere noi che costruiamo questo sistema: è questo l’obiettivo. La determinazione della τέχνη κτητική /…/ Usa due termini: uno viene da μεταβάλλω, cambiare, nel senso di scambiare qualcosa con qualcos’altro, l’altro è il χειρωτικόν, mettere mano senz’altro, non farsi dare qualcosa e, soprattutto, non dare assolutamente nulla a propria volta ma soltanto prendere. Qui sta ancora indagando sulla definizione del pescatore e su tutte le varie possibilità. Nelle varie definizioni delle varie tecniche del pescatore c’è appunto il prendere in questo modo, prendere in quest’altro, dove lui fa tutte distinzioni infinite che lasciano il tempo che trovano, utilissime per lui, certo, ma… Abbiamo scoperto in tutto e per tutto a sufficienza quello che volevamo e invero attraverso il λόγος. La discussione del nostro esempio ci ha offerto una visione preliminare del metodo di base, col quale una cosa viene resa presente secondo il suo contenuto essenziale. Se si vuole determinare tale metodo, in base al suo aspetto immediato, attenendosi alla terminologia utilizzata da Platone, bisogna chiamarlo con il nome di dicotomia, che è ciò che Platone chiama διαίρεσις (divisione). Si tratta dell’atto di tagliare, τέμνεïν, tranciare da cima a fondo qualcosa che in precedenza risultava indiviso. Il termine appropriato per questo τέμνεïν è διαίρειν. Spesso Platone usa anche σχίζειν, scindere. /…/ Non bisogna dimenticare che questo διαίρειν, questo dividere, viene specificato come un λέγειν, come un dire, e che dal canto suo il λόγος possiede il carattere del δηλών, del manifestare. È il λόγος che ha questo carattere. Le cose non si manifestano da sole. Qui incomincia a essere evidente, le cose non appaiono da sé. È questo il messaggio del sofista: le cose non appaiono da sé, inutile cercare qualche cosa che si mostri da sé, senza essere previamente determinato, cioè, senza che sia nel λόγος. Sicché il τέμνεïν, il tagliare, non è un’operazione arbitraria che possa essere identificata con l’arte di tagliare e sminuzzare in senso fisico. Siamo invece tenuti a considerare questo stesso τέμνεïν e διαίρειν possiede la funzione di mostrare, di rendere manifesto. Entrambi questo tagliare e questo separare, questo dividere continuo, è un qualche cosa che ha la finalità di mostrare qualche cosa, quindi, è un qualcosa che avviene nel dire, nel λέγειν. L’ente viene tagliato da cima a fondo in quanto esso si mostra nel suo contenuto reale /…/. le sue forme, nei suoi aspetti. A partire da questo stato di fatto metodologico il λέγειν è inteso come τέμνεïν e precisamente come τέμνεïν dell’εδος. Qualcosa che divide l’immagine, la forma. La divide per scomporla e per poterla dominare. Emerge un’espressione che in seguito avrà un certo ruolo anche in Aristotele: τομον εδος, immagine indivisa… Τέμνεïν è dividere, τομον con alfa privativa è indiviso, da cui atomo …ovvero quell’aspetto di una cosa che non può essere ulteriormente sezionata. L’atomo sarebbe questo. Naturalmente l’hanno poi sezionato, ma in origine, etimologicamente, atomo sta per non diviso, per indivisibile …quel contenuto di fronte al quale il λέγειν si ferma, a proposito del quale il λέγειν non è più in grado di far vedere una realtà ulteriore. Qui la fa lunga solo per dire che in tutte queste operazioni, per cercare di sapere che cos’è il sofista, cominciamo a dividere tutto finché arriviamo a qualche cosa che non può più essere diviso, che se continuiamo a volerlo dividere ripete sempre la stessa cosa. In quel caso, quindi, saremmo arrivati all’essenza. È significativo il fatto che lo ξένος (straniero) inviti Teeteto a decidersi per l’una o per l’altra ipotesi… L’ipotesi era quella che nella caccia, per esempio, si cacciano animali selvatici o domestici. Ma non erano tanto gli animali che interessavano, perché tra gli animali domestici lui ci mette l’uomo e, quindi, la caccia all’animale domestico che è l’uomo. Questo per indicare un altro degli aspetti del sofista: cosa fa? Va a caccia di che? Di animali domestici umani. L’uomo è un animale domestico, ma la sua decisione ha luogo senza accompagnarsi ad alcuna considerazione di fatto, ηγούμαιChe significa: io reputo così. …in base alla conoscenza naturale dell’uomo di cui dispongo. Vedete come insiste continuamente quando si arriva all’origine delle cose, al da dove vengono le cose: io ritengo così, io penso così, si crede così, è ritenuto essere così. Questo è ciò che si trova alla fine di tutto. L’ente in quanto tale, quello che si va cercando a tutti i costi, alla fine si riduce a un “io reputo così”. È questo che si trova quando si cerca l’ente assoluto, diciamola così. Anche questo uso linguistico… Cioè, l’esprimere questo genere di convinzioni: io reputo così, ecc. …sta a testimoniare che l’esplicazione del sofista si compie a partire dalla dimensione intuitiva delle conoscenze naturali su di lui… Che è ciò da cui si parte sempre: conoscenze naturali, quella da cui si parte per andare oltre. Questa caccia agli uomini, nel senso della tendenza a ridurre gli uomini in proprio potere, a impossessarsi di loro in modo da poterne disporre, ha due possibilità che ci sono già state prefigurate dalle precedenti considerazioni. Fa poi una distinzione tra la caccia violenta, che pertiene alla guerra. Ma anche una maniera di condurre gli uomini in proprio possesso, così da disporne, che passa attraverso il λόγος, si serve del λέγειν e invero secondo diversi indirizzi. Fa qui l’elenco dei vari tipi di discorso, che sono tipici della retorica: il discorso tenuto in tribunale, il discorso nell’assemblea popolare e il parlare insieme nelle frequentazioni quotidiane, cioè, il dialogo. Occorre procurarsi un certo seguito pronunciando sermoni e acquisendo discepoli, riuscendo inoltre a persuadere gli δια, i singoli. Per di più facendosi pagare. Questo non gli andava proprio giù. Con questo richiamo alle peculiari possibilità di accattivarsi gli uomini tramite il λόγος, la caratterizzazione del sofista viene collocata entro l’orizzonte generale del tenere discorsi, cioè della retorica. Di cui si occuperà nel capitolo successivo. Questo passo è importante al fine di maturare la comprensione del λόγος e dell’elaborazione della retorica, in quanto qui Platone presenta un elenco completo delle possibili modalità del discorso pre-teoretico: il discorso giudiziario, il discorso davanti all’assemblea popolare, o discorso epidittico, e in generale il parlare gli uni con gli altri. /…/ Si tratta di un χειροσθαι, di un mettere mano che si rivolge ad altri uomini, più precisamente di un andare a caccia di essi. E il mezzo, in un certo senso la rete o trappola con cui il sofista cattura gli uomini, l’attrezzo del sofista è il λόγος, un persuadere gli uomini, e tale persuasione ha il senso di stringere relazioni, di riuscire a entrare in contatto con l’altro, di attirarlo a sé. Potremmo dire letteralmente di sedurlo. Questo è il fenomeno che viene considerato in questa prima descrizione, l’atteggiamento di un uomo che per mezzo di determinati discorsi attira a sé gli altri, facendo credere loro che ciò che gli preme è offrire ρετή (virtù), termine che qui equivale a παιδέια (insegnamento, formazione) … Anche ρετή vuol dire tantissime cose: virtù, fine, ecc. …come giusta formazione culturale, intesa come possibilità di condurre se stessi all’esistenza autentica all’interno della πόλις. Il sofista non vuole offrire agli altri un qualche divertimento, la sua τέχνη non è un δυντικ. Egli la pone piuttosto al servizio di precise esigenze, rivolgendosi agli interessi altrui nei confronti di un compito positivo, l’ρετή, e lo fa persuadendo gli altri che essi potranno apprenderla presso di lui. Quindi, quello che cerca di fare è una formazione, una formazione che avviene attraverso il discorso ma che nel sofista punta al discorso, al λόγος fine a se stesso. Non vuole insegnare come stanno le cose, vuole insegnare – lo diceva lui prima – a dire bene, ma il dire bene significa il dire tenendo conto che tutto ciò che accade non è altro che qualcosa che accade nel dire. In effetti, è esattamente il contrario di quello che pensa Platone, per cui sarebbe il filosofo a questo punto l’ingannatore, perché fa credere che esista qualcosa fuori dal λόγος. Il sofista no, il sofista gioca con le parole perché sa che non c’è altro al di fuori delle parole. Il filosofo, inteso nell’accezione platonica, è invece colui che cerca quell’ente, che è quello che è indipendentemente dal λόγος e di questo inganna. E così di nuovo, il sofista non commercia in musica, immagini o altre buffonate, bensì ciò che egli introduce e vende sul mercato è in vista di qualcosa di serio, ne va dell’educazione all’esistere autentico, all’esistenza nella πόλις; egli non vende cose per la δονή (piacere, divertimento) ma fa incetta di μαθήματα (conoscenze), di conoscenze nel più ampio senso del termine, in vista delle possibilità più elevate della vita dell’anima e dello spirito. Quindi, le cose importanti per l’anima e la vita, per l’autentica vita psichica che egli coglie e vende, non le mette in mostra lui stesso e non si tratta nemmeno di cose possono essere messe ufficialmente in mostra, bensì hanno a che fare con la πρξις di coloro ai quali egli vende questi χρήματα (cose, oggetti, in genere di valore). Dunque, ha a che fare con la πρξις, con l’agire delle persone. Ciò che il sofista insegna è qualcosa che si ripercuote nel modo in cui le persone agiscono, in quanto ciascuno agisce in base a ciò che pensa, potremmo dire, in base alle sue fantasie, che sono ciò che pilotano tutto quanto. Tale commercio riguarda ancora una volta un determinato discorso ovvero i risultati di certi ragionamenti che il nostro mercante… Qui lo paragona a un mercante perché vende discorsi. Egli però non è un τεχνοπωλικν, cioè, non vende conoscenze legate a τέχναι, cioè nel campo delle diverse professioni pratiche. Lui non insegna a costruire un violino, per esempio. Mette in vendita il μαθήμα, la conoscenza, riferita all’ρετή (virtù), alla παιδέια (formazione). Alla formazione, potremmo dire, intellettuale. Lui fa commercio di logoi, di cose dette, fabbricate da altri o reperite da lui stesso, come di una merce, e cioè il λόγος non è più soltanto il mezzo per conquistare gli altri ma è anche ciò che egli stesso mette in vendita. È già chiaro che in tal modo passo dopo passo l’intero atteggiamento del sofista si concentra sul λόγος e che tutta la sua esistenza si risolve nel λέγειν. Il sofista ha capito che non c’è altro fuori da questo, che è tutto lì. Il filosofo no, il filosofo, come dicevo prima, è ancora quello che immagina di trovare quell’ente che se ne sta lì tranquillo, fuori del linguaggio. L’appropriazione attraverso la lotta consente ora a sua volta determinazioni più approfondite. Infatti, per i Greci γών significa propriamente contesa, il misurarsi con altri; pertanto, la determinazione originaria di questa lotta è lo μιλλσθαι, in latino contendere, la contesa. Pertanto, questo lottare ha il senso di assalire, fare cadere, ecc. Ma questo lottare non è altro che una differente posizione rispetto al λόγος e, in particolare, alla retorica, perché qui si riferisce alla eristica, cioè il contendere con l’altro e vincerlo a tutti i costi. Naturalmente, per il filosofo, sempre platonicamente inteso, l’eristica è un non senso perché vincere sull’altro non porta alla verità. È vero, assolutamente vero, ma lo sapeva bene anche il sofista che non porta alla verità. La differenza fondamentale è che il sofista non crede che ce ne sia una, il filosofo sì. Questo tipo di contesa, denominato ριστικόν, il vero e proprio contenzioso, che essendo essenzialmente teorico ha funzione di mirare a conoscenze teoriche. Anche all’interno di questo modo di discutere, per domande e risposta, cioè della competizione, della discussione teorica e scientifica in senso ampio, c’è una tipologia che Platone denomina δολεσχικόν, mera chiacchiera culturale. Certo, per Platone è solo chiacchiera, così come la retorica, con la quale ce l’aveva a morte, e anche l’eristica, perché non hanno come obiettivo – ma questo già con Socrate – il trovare la verità. Con Socrate sì e no perché lui, di fatto, termina tutti i suoi dialoghi senza una conclusione definitiva, praticamente li lascia tutti aperti, però l’intendimento è quello di raggiungere una verità, è un intendimento morale che era assente nei sofisti. I sofisti, arrivando dagli eleati, perché in fondo erano molto vicini, sanno che non c’è questa verità, almeno da Parmenide e Zenone in poi. Come la raggiungo questa verità? Devo determinarla, ma se la determino non è più quella cosa immobile, statica e identica a sé per l’eternità. Determinandola la verità diventa un’altra cosa, ma se diventa un’altra cosa è non-verità, perché ciò che è diverso da verità è non-verità. Quindi, determinando qualcosa, questa cosa si muta nel contrario, perché per determinarla devo dire cose che quella cosa non è: per dire che cos’è la verità devo dire altre cose; determino la verità dicendo ciò che la verità non è. Queste questioni sono passate totalmente inosservate per millenni. I sofisti, e prima di loro gli eleati, hanno posto l’impossibilità di giungere a qualche cosa di stabile, di fermo, si sono accorti che questa impossibilità è un prodotto del dire, del λέγειν, e se si parla è così, non c’è scampo. Dopodiché è arrivato Platone che ha dato dei parolai ai sofisti perché non si occupavano della verità. Platone non si è mai interrogato, in effetti, sulla questione della determinazione; per lui, ma anche per Aristotele, la determinazione avveniva attraverso διαίρεσις, divisioni fino ad arrivare alla cosa stessa; per Aristotele erano le categorie, i vari praedicamenta della cosa, cioè ουσία. Ma che cosa significa dividere una cosa? Significa attribuirgli qualche cosa per poi toglierla e dire no, non è questo, e in questa operazione ciò che conta è il fatto che tutte queste divisioni possono avvenire all’interno del λόγος, del dire. È anche questo un modo di determinare, certo, ma anche in questo caso non ci si è accorti, Platone non lo ha visto che si determinava attraverso ciò che la cosa non è. Ce l’aveva sotto gli occhi: io la determino escludendo cose, dividendo, scotomizzando e, quindi, dicendo che quella cosa non è tutto ciò che non è, perché tolgo tutto ciò che quella cosa non è per potere stabilire che cos’è. Quindi, già la questione dell’ente e del non-ente poteva essere risolta immediatamente, ma ci si sarebbe dovuti accorgere che stava parlando. E, allora, il non-ente è ciò che definisce l’ente: l’ente è sì quello che è ma in quanto c’è il non-ente, perché, per determinare l’ente, devo dire cose che non sono quell’ente. È un po’ come l’essere di cui parlava Severino: per dire l’essere devo mettergli vicino il non-essere, per poi toglierlo. Severino non si è accorto che se toglie il non-essere toglie anche l’essere. Tuttavia, la questione era già lì. I sofisti non hanno proseguito il loro lavoro perché li hanno cacciati dalle città, ma erano arrivati alla questione: per dire che cos’è l’ente mi serve il non-ente, se non c’è il non-ente non c’è neanche l’ente. Non sono arrivati a dire propriamente questo, non ne hanno avuto il tempo, la forza, non so. Si parla comunque di duemilacinquecento anni fa, bisogna tenere conto anche di questo. Andavano contro tutti quanti, ma l’accusa che veniva rivolta loro non era mai un’accusa teoretica, non era mai una controargomentazione alle loro argomentazioni – ci ha provato Platone, dove nel Sofista a un certo punto conclude il dialogo lasciandolo in sospeso – non ci sono controargomentazioni, così come non ci sono mai state contro Zenone. C’è stato, invece, nei confronti dei sofisti l’allontanamento forzato, la cacciata dalle città, con l’accusa di prendere denaro, perché non potendo controbattere, quale accusa potevano rivolgere loro? Tutto questo ci porta alla questione della retorica, di cui parla qui alla fine. Si è inoltre sottolineato che il λόγος come chiacchiera nella sua naturalità determina in modo predominante l’esistere quotidiano. La retorica e la sofistica hanno orientato sul λόγος l’ideale formativo dei Greci, la παιδέια. Abbiamo visto altresì la trattazione positiva che ne dà Aristotele che ciascun singolo ληθεειν (ogni singolo ente che si svela), ogni singolo atteggiamento fatta eccezione per il νος, persino la stessa indagine teoretica, sono determinate dall’essere μετά λόγου (attraverso il discorso) dall’attuazione del λέγειν. In tal modo abbiamo fondamentalmente anticipato il significato del λόγος nell’esistere umano. Ora, però, ci troviamo di fronte al compito di intendere il fenomeno del λόγος, dal momento che proprio il nostro dialogo si va facendo via via più incalzante nell’ottica dello stesso Platone. In altre parole, dobbiamo accertarci di come Platone stesso si ponga nei confronti del λόγος e di quella cerchia di fenomeni che vi si raggruppano intorno, per capire se anche in lui trova espressione il predominio del λόγος nel novero dell’esistente oppure se questa caratterizzazione data in precedenza non rappresenti in fin dei conti nient’altro che una costruzione vaga. Volendo raggiungere tale orientamento non possiamo discutere nel dettaglio tutte le affermazioni che troviamo in Platone. In fondo, la questione che ci chiediamo è che posizione assume Platone nei confronti della retorica. La retorica è, infatti, la τέχνη che elabora, insegna il retto modo di parlare o, almeno, ne ha la pretesa. Dovrà dunque essere possibile, almeno per via indiretta, partendo dalla posizione di Platone sulla retorica, fare luce sulla sua concezione del λόγος. E qui, forse, ancora non lo sappiamo, potranno esserci delle indicazioni nella questione teoretica della retorica. E, cioè, non più la retorica come strumento, mezzo di persuasione ma come un qualche cosa che merita di essere pensato, merita di essere pensato il modo e il perché funziona, che cosa lo sostiene.