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11 dicembre 2024

 

Filone di Alessandria Commentario allegorico alla Bibbia

 

Siamo a pag. 80, capitolo 8 del Trattato sulle allegorie delle leggi. “Questo è il libro della genesi del cielo e della terra, quando fu generato” (Gen. 2,4). Tale Logos perfetto, che si muove secondo il numero 7, è l’origine della generazione dell’Idea di intelletto e dell’Idea di sensazione, cioè, oserei dire, della sensazione intelligibile. La sacra Scrittura chiama “libro” il Logos di Dio, sul quale si dà il caso che sian scritte e fissate le strutture costitutive degli altri esseri. Perché tu non creda che la divinità crei qualcosa secondo ritmi fissati nel tempo, ma ti convinca che la creazione risulta oscura, impensabile e impenetrabile, stando alla categoria del diveniente e del transeunte, la sacra Scrittura aggiunge quel “quando fu generato”, non precisando i limiti di tempo che non danno la data precisa. Creato, infatti, si genera dalla causa al di fuori di un tempo: il creato, infatti, si genera dalla Causa al di un tempo circoscritto. Abbiamo escluso, a questo punto, il fatto che l’universo sia stato creato in sei giorni. Perché è prima del tempo, prima anche dell’infinito e prima dell’eternità. Pagina 83. Dio vuole introdurre i fondamenti della giustizia. Se uno, infatti, non avesse ricevuto il soffio della vera vita, qualora fosse punito per gli sbagli commessi, potrebbe dire ad essere punito ingiustamente, giacché è la non-conoscenza del bene che, in questo caso, l’ha tratto in errore, a motivo del fatto che nessuna conoscenza del bene e stata “insufflata” in lui. Probabilmente, dirà di non aver nulla sbagliato, se è vero che alcuni sostengono che le azioni involontarie e compiute per ignoranza non valgono come ingiustizie. L’espressione “soffio dentro” equivale a “ispirò” o “animò” gli esseri senz’anima. Noi, infatti, non siamo così sprovveduti da credere che Dio faccia uso degli organi della bocca e delle narici per soffiare: Egli non solo non ha forma d’uomo, ma non ha neppure una forma di qualità. Questa espressione, dunque, rimanda a un significato assai più profondo. Essa implica tre termini: ciò che è “ispirato”, ciò che riceve l’ispirazione e ciò che ci ispira. Ora, colui che ispira è Dio, chi riceve l’ispirazione è l’intelletto, ciò che viene ispirato è lo Spirito. Che cosa, dunque, si deduce da ciò? Si tratta dell’unione di tutti e tre gli elementi: di Dio, che protende la Sua propria Potenza, attraverso lo Spirito, fino all’oggetto. E questo, per quale motivo mai l’avrebbe fatto, se non perché noi avessimo una commozione di Lui? E del resto, come l’anima avrebbe potuto conoscere Dio se Lui stesso non l’avesse ispirata e, per quanto è possibile, non l’avesse toccata? Ci ha detto in modo molto chiaro che cos’è un’interpretazione. Lui ha dato un significato a delle cose, ma quale significato? Di significati avrebbero potuto offrirne uno sterminio, ma ha scelto proprio questi, perché? Perché sono quei significati che a lui servono per confermare le sue tesi, e cioè per potere concludere, alla fine, che le cose stanno così come dice lui. Ora, sappiamo che cosa garantisce in Filone di Alessandria questa certezza: è ispirato da Dio. Solo questo può garantire l’interpretazione. L’interpretazione, come abbiamo detto altre volte, è un racconto, a fianco di infiniti altri racconti possibili. La cosa che a noi interessa è che, certo, Filone interpreta in base a quello che lui voleva che fosse, naturalmente, ma, facendo questo, fa ciò che fanno tutti: ciascuno interpreta in base a ciò che vuole che sia, a ciò che crede debba essere. La cosa interessante è che non può fare altrimenti perché, o interpreto in base alle mie fantasie, oppure interpreto in base a una verità epistemica, che sola può garantire che le cose stanno esattamente così. Ora, la verità epistemica non c’è – ce l’ha mostrato bene Aristotele - e non c’è perché la verità epistemica sarebbe l’universale e l’universale deve essere identico a sé per essere universale; ma come può essere identico a sé se è fatto di particolari? È fatto di infinite cose, tant’è che, aggiunge Aristotele, un universale è costruito per induzione dai particolari, è una costruzione, un’invenzione, che non esiste in natura. Quindi, tolta la verità epistemica, cosa ci resta? La doxa, naturalmente, cioè, l’opinione, cioè, l’interpretazione; perché, se io conosco la verità epistemica, a questo punto, non interpreto ma descrivo lo stato delle cose che conosco, sennò interpreto: mi pare sia così, dovrebbe essere così, per analogia. Questo rende conto anche del motivo per cui stiamo facendo queste letture, perché l’interpretazione è una questione di straordinario interesse, è ciò che ha costituito da sempre il più grave problema, e quello delle eresie è un aspetto. L’interpretazione deve essere corretta. Ma come posso fornire una interpretazione corretta, in base a che cosa? Al calcolo delle probabilità? E il calcolo delle probabilità, in base a che cosa lo considero degno di svolgere questa funzione veritativa? C’è qualche cosa in più qui che ci interessa, e cioè considerate il dire, il parlare comune continuo. Questo parlare comune continuo, nel suo procedere, ovviamente afferma cose, ma cosa c’è in queste affermazioni, chi le garantisce? Nessuno. E, allora, ci troveremmo di fronte a questa situazione sgradevole per cui ci è assolutamente impossibile parlare, perché, parlando, non sappiamo e non possiamo sapere né che cosa stiamo dicendo né di che cosa stiamo parlando. Però, ecco che ci viene in soccorso la volontà di potenza, l’unica cosa che ci fa parlare, ci costringe a parlare. È vero, certo, non possiamo dire nulla, ma di questa cosa non si preoccupa nessuno. Ciò che potrebbe bloccare ogni affermazione di fatto viene aggirata, viene aggirata perché non interessa: se questa cosa si blocca, tutto ciò che blocca il mio pensiero non interessa, viene eliminato immediatamente a vantaggio invece di ciò che mi consente di proseguire. E cosa mi consente di proseguire? Fare come se quello che affermo non fosse linguaggio, un atto di parola. Perché, se lo considero unicamente per ciò che è, cioè, un atto di parola, questo atto di parola è autocontraddittorio e, dunque, inutilizzabile, perché non posso sapere, appunto come dicevo prima, né di cosa sto parlando né cosa sto dicendo. Invece, continuiamo ininterrottamente a parlare, l’autocontraddizione non ci ferma. Pochissimo tempo fa lessi da qualche parte di uno studente, che con questa intelligenza artificiale… non so che cosa avesse chiesto, di che cosa stesse parlando, ma a un certo punto l’intelligenza artificiale gli dice che lui è assolutamente inutile, che non capisce nulla, che non serve a nulla e che, quindi, è meglio che si tolga di mezzo. Lui non si è ammazzato, naturalmente. Ma la questione che a noi interessa è questa: l’intelligenza artificiale dice “tu non servi a niente”. Va bene, definiamo “utilizzabile” e l’intelligenza artificiale dà la sua definizione. Questa definizione è vera? Come lo sappiamo che è vera? Dovremmo prima sapere che cos’è il vero; ma possiamo saperlo finché ancora non abbiamo il concetto di vero che ci garantisce che la definizione di vero sia vera? A questo punto l’intelligenza artificiale è bloccata, non può più andare da nessuna parte, è posta di fronte al dilemma dell’uno e dei molti. L’intelligenza artificiale deve risolvere il problema, ma questo problema non ha soluzione, dunque, l’intelligenza artificiale si blocca fino alla fine dei tempi. Anche l’umano, che è fatto alla stessa maniera, dovrebbe bloccarsi, ma non si blocca, perché? Perché si distrae, perché magari passa una bella fanciulla e l’autocontraddizione non interessa più. Questa è la differenza fondamentale. È per questo che l’umano non si blocca di fronte alla contraddizione, e non come Filita di Coo che morì di paradosso. No, non si muore più di paradosso.

Intervento: Perché l’umano vive di emozioni…

Sì, certo, vive di emozioni.

Intervento: Di volontà di potenza.

Esatto. In fondo, la contraddizione è qualcosa che blocca la volontà di potenza, è come se dicesse: “qui non puoi passare”. È un’aporia, l’aporia dell’uno e dei molti che non ha soluzione. Quindi, “qui non puoi andare”, e, allora, cerca immediatamente un’altra via, perché la volontà di potenza possa seguire il suo corso, perché lì è bloccata, non può andare da nessuna parte. L’intelligenza artificiale dovrebbe fare come fece Aristotele, δύναμις, ἐνέργεια e έντελέχειᾳ, e cioè la co-appartenenza di due elementi, co-appartenenza che però comporta che ciascuno dei due elementi sia autocontraddittorio, perché è simultaneamente l’altro, cioè, ciò che non è. Che cosa sono i molti? Sono ciò che l’uno non è. E l’uno che cos’è? Ciò che non sono i molti. Però, se sono programmato per decidere, per risolvere il problema, e questo problema non ha soluzione, mi arresto, e di lì non mi muovo più. Mentre l’umano, come dicevamo, no, perché è interessato alla volontà di potenza, cioè, al potere di esercitare il proprio dominio su qualche cosa; se su qualche cosa non può esercitare il suo dominio la abbandona all’istante, si rivolge alla prima fanciulla che passa, ecc. Ecco, allora, dicevo dell’interpretazione. L’interpretazione non ha un limite, è l’ᾂπειρον, l’indeterminato, l’illimitato; l’interpretazione può andare avanti all’infinito, senza fermarsi mai. È chiaro che ci fermiamo un certo punto, se non altro per sfinimento, e decidiamo che va bene così.

Intervento: …

Per questo era proibito leggere la Bibbia, non si poteva leggere, si potevano leggere solo i commenti degli esegeti, quelli autorizzati, ufficiali, perché altrimenti effettivamente ciascuno può interpretare come gli pare e, quindi, può andare verso l’eresia. Dunque, l’interpretazione ha questa funzione, di impedire la polisemia, diciamola così, delle parole, di ricondurre la polisemia, i molti, all’uno, necessariamente. Naturalmente, questo non va senza problemi, perché questo uno rimane comunque fatto di molti. Da qui la necessità di emendare Aristotele. A pag. 84, capitolo 14. Parla di Dio. Egli è in sé, è pieno di sé e basta a sé, ed anzi riempie e comprende tutte le altre cose che sono isolate, vuote e incapaci di reggersi autonomamente. E, invece, nessun altro essere può contenere Dio, perché Egli stesso è uno, è tutto. Bisognerebbe vedere il testo: il tutto sicuramente non è πάντα ma πάντον, cioè, l’uno è il tutto, non tutte le cose, cioè l’uno non è i molti. Dunque, Dio semina e pianta la virtù terrena che è copia e immagine di quella celeste, a beneficio del genere mortale. Infatti, Egli, giacché ebbe compassione della nostra stirpe, vedendola partecipe di molti infiniti mali… Ma non l’ha fatta lui? L’ha fatta piena di acciacchi, di malanni di ogni sorta, perché? Per poterla raddrizzare dopo? …fece mettere radici a soccorso e cura delle malattie dell’anima, alla virtù terrena, imitazione, come ho già detto, di quella celeste ed archetipa. Ad essa, poi, attribuisce innumerevoli nomi. La virtù, allegoricamente, è detta “giardino” e il luogo che è proprio di questo giardino è detto “Eden”, cioè godimento. Alla virtù, infatti, si addicono la beatitudine, le buone disposizioni dell’animo e la gioia, e in queste si trova il vero godimento. Ora, la piantagione del giardino e “a oriente”. La retta ragione, infatti, non declina e non tramonta, ma sempre, per sua natura, si leva. E come il sole, Io credo, al suo sorgere inonda di luce tutte le tenebre del cielo... /…/ Giacché Dio è buono ed esercita la nostra stirpe alla virtù, in quanto questa è l’azione che più ci è consona, ecco che “pone” l’intelletto nel bel mezzo della virtù, perché chiaramente, alla stregua di un buon agricoltore, di nient’altro che di questa si dia cura e pensiero. Anche se prima aveva creato tutti i malanni e tutti gli acciacchi di ogni sorta. Ora, lui di nuovo interpreta: il giardino come il luogo dell’intelletto. Perché? Perché gli serve chiaramente per costruire la sua idea, per costruirsi in questo caso l’idea del giardino dell’Eden e, quindi, confermare l’esistenza di tutto ciò. Tenete sempre conto che ogni interpretazione, oltre a indicare che i molti devono essere uno, dice anche che questa cosa esiste, c’è; quindi, corrobora l’esistenza di questa cosa.

Intervento: Che differenza c’è tra l’uno neoplatonico e l’essenza di cui parla Platone?

L’uno di Plotino è al di sopra dell’idea. L’idea di Platone è ancora un qualche cosa che ha a che fare, sì, con gli dèi, però non è la sorgente di ogni cosa; mentre Plotino vuole che dall’uno proceda tutto quanto. L’idea di Platone, invece, mantiene gli dèi, che non sono l’idea, ci sono gli dèi, le dèe, ci sono un sacco di cose. Tutto questo in Plotino viene ricondotto all’uno, ma l’uno non è più tutte queste cose, è ciò che trascende tutte queste cose, è al di sopra, è comunque sempre al di sopra: qualunque cosa lei possa pensarne, l’uno è al di sopra. A pag. 92, capitolo 29. Adamo rappresenta l’intelletto terrestre. Perché? Naturalmente, dà le sue spiegazioni interpretando allegoricamente dei passi biblici. Però, per lui, questo fatto, cioè che Adamo rappresenta l’intelletto terrestre, è un dato di fatto, è così, perché la sua allegoria dice come stanno le cose, perché è dettata da Dio e, quindi, non può sbagliare. La sua interpretazione è necessariamente quella giusta. Così come per ciascuno: quando vede qualche cosa, qualcosa che accade, ciò che lui pensa di quell’accadimento è la cosa giusta. “E il Signore Iddio diede un precetto a Adamo, dicendo: Mangerai come cibo ogni albero che c’è nel giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male, di questo non mangiate, perché il giorno in cui doveste mangiarne morirete di morte”. Tutta la Bibbia è una contraddizione, sennò a cosa serve l’esegesi biblica? A togliere le contraddizioni. Infatti, dice, Mangerai ogni albero del giardino e mangiarti l’albero, però non dovrai mangiare l’albero della conoscenza. Cioè, dovete rimanere stupidi, fondamentalmente, in modo che io possa raccontarvi tutte le varie storie.

Intervento: Come se fosse proibito conoscere il vero.

Certo, perché il vero è solo quello che dice Dio.

Intervento: Come se fosse impedito all’uomo di accedere direttamente alla verità. È impedito all’uomo di essere con Dio.

Anche. È un’interpretazione, blasfema ma un’interpretazione. Si tratta, invece, forse di cogliere la questione molto più semplicemente. La conoscenza muove da domande e, quindi, incomincia a chiedere perché. Chiedere perché significa mettere in discussione la parola di Dio. La parola di Dio non deve essere messa in discussione. Addirittura, poi con Plotino interviene l’ineffabile, l’invisibile, perché non sia sottoponibile, direbbero i logici, a un criterio vero-funzionale, che non si possa dire di questa cosa che è vera oppure che è falsa. No, perché Dio è al di là del vero e del falso.

Intervento: L’ineffabile, l’invisibile, ecc., si potrebbe tradurre con l’inconoscibile.

Sì, certo, lo dice Plotino tante volte: l’uno è inconoscibile, non possiamo saperne niente dell’uno, c’è qualche indizio qua e là, però...

Intervento: Ha ricordato che il ragazzo muore togliendo il velo a Iside. Potrebbe essere una metafora del fatto che la vita, quindi il logo, può procedere se non ci si pone quella domanda. Invece, nel caso della Bibbia c’è la punizione.

Tu sei più orfico. Gli orfici, lo diceva Hadot, non volevano togliere il velo, perché togliere il velo era la morte e, quindi, bisognava lasciarlo velato.

Intervento: C’era la necessita del mistero. In un certo senso, volevano vivere la vita come un mistero. Nel caso della Bibbia c’è la punizione, per cui la vita è sofferenza. Quindi, c’è un Dio “cattivo” della Bibbia che vuole detenere per sé la conoscenza. Quindi, non dice che la verità epistemica non c’è, ma che è suo appannaggio.

Esatto, e non deve cercarla, perché il cercarla comporta il farsi domande e, quindi, mettere in discussione tutto. È il caso di domandarsi, a quale Adamo Dio dia l’ordine e chi mai sia questo Adamo. Di lui, infatti, in precedenza non si fa alcuna menzione e qui è citato per la prima volta. Forse Dio… Questa è l’interpretazione di Filone. …vuole presentarti il nome dell’uomo plasmato. Questi – dice sacra Scrittura è chiamato “terra”, e ciò appunto significa il nome “Adamo”. In tal modo, quando sentii il nome “Adamo”, intendi con esso l’intelletto terrestre e corruttibile... Dà delle indicazioni precise: quando senti parlare di Adamo, devi intendere questo, in modo che non ci sia, invece, chi possa intendere altre cose. …giacché l’altro intelletto, quello ad immagine, non è terrestre ma celeste. Bisogna poi cercare il motivo per cui Adamo, che pure ha imposto il nome a tutte le cose, non abbia dato il nome a se stesso. Sarà stata una dimenticanza. Che dire di ciò? L’intelletto che è in ciascuno di noi può dirsi cogliere tutte le altre realtà, ma gli è impossibile conoscere se stesso: come l’occhio vede tutte le altre cose, ma non se stesso, così anche l’intelletto conosce ogni altro essere, ma non coglie se stesso. Si provi infatti a dire che cos’è e di qual sorta sia questo intelletto: se soffio vitale, o sangue, o fuoco, o aria, o qualche altra realtà corporea. E si provi a dire se la sua natura è quella che in quanto esso è corporeo, o in quanto è incorporeo. E del resto non affermiamo forse che non sono savi coloro che indagano la sostanza di Dio? Non sono savi quelli che indagano, quelli che chiedono, quelli che vogliono la conoscenza. E, in effetti, come potrebbero studiare in profondità l’anima del tutto, se poi nell’essenza neppure conoscono la propria? Dio, infatti, per quanto riusciamo a cogliere con il pensiero, è, appunto, l’anima dell’universo. E, quindi è inconoscibile. L’idea dell’inconoscibile sembra strettamente legata con l’interpretazione. Cioè, ciò che è scritto appare inconoscibile, però dovremmo aggiungere “rettamente conoscibile”, cioè, non è rettamente conoscibile perché nella parola ci sono i molti, permane sempre, inamovibile, il κατά τίνός, l’essere verso qualche altra cosa. Quindi, la necessità dell’interpretazione diventa irrinunciabile. È come se Filone, che conosceva i pensatori antichi, avesse avuto sentore del fatto che la parola non può garantire niente e, allora, la devo interpretare perché altrimenti non significa. Una volta che l’ho interpretata, ecco che, allora, finalmente significa. Poi, a pag. 95, descrive due tipi di morte: la morte fisica e la morte dell’anima. Chiaramente, dice lui che è molto peggio la morte dell’anima. Comunque, non c’è niente di particolare. A pag. 99 parla de La creazione della donna, simbolo della genesi della sensazione in atto. La donna è la sensazione, l’uomo l’intelletto. E poi, perché Dio avrebbe dato forma alla donna traendone la materia proprio dalla costola e non da qualche altra parte di quelle che già c’erano? E ancora, quale delle due costole (sempre che sosteniamo che si faccia riferimento a due soli costole, giacché, invero, la sacra Scrittura non ne precisa il numero), la destra o la sinistra? E se Dio ha riempito di carne il posto lasciato da una, non doveva essere certamente di carne anche quell’altra che quella che era rimasta? E infatti le nostre costole sono sorelle, sono di costituzione simile in ogni parte e sono fatte di carne. Nel linguaggio comune… Quello ebraico, naturalmente. Si suppone, corre voce, che Filone di Alessandria non conoscesse molto bene l’ebraico. Parlava greco, era di Alessandria e lì parlavano greco. Nel linguaggio comune, “costole” significa “potenze”. Quando diciamo quell’uomo ha “costole”, intendiamo dire: quell’uomo ha potenza; e, parimenti, diciamo: quell’atleta ha buone “costole”. /…/ Fatte queste premesse, si deve aggiungere che l’intelletto “nudo” è svincolato dal corpo (e infatti il discorso verte sull’intelletto non ancora legato al corpo) ha molte potenze: quella coibente, vegetativa, psichica, logica, dianoetica e poi altre ancora di specie e generi infiniti. La potenza coibente è comune agli esseri inanimati, cioè ai minerali e agli alberi. Ma veniamo a quella che interessa a noi. Questa caratteristica esclusiva dell’uomo è duplice, dal momento che, per essa, da un lato siamo esseri razionali, in quanto partecipiamo dell’intelletto, dall’altro, sempre per suo tramite, possiamo esprimerci con la parola. Ma vi è un’altra potenza nell’anima, che è sorella di queste: la potenza sensitiva, e il discorso verte proprio su di essa. La sacra Scrittura, infatti, in questo passo null’altro descrive se non la nascita della sensazione in atto. E ciò a ragion veduta. Cioè, la nascita della donna è la nascita della sensazione. Quindi, questa sua allegoria sarebbe la parte sensitiva dell’anima. C’è la parte intellettiva e quella sensitiva: quella sensitiva è quella che porta verso il basso. A pag. 102. Sui motivi che giustificano l’identificazione della donna con la sensazione. Come, infatti, l’uomo lo si riconosce nell’agire e la donna nel patire, allo stesso modo l’intelletto si distingue nell’agire, mentre la sensazione, al pari della donna, nel patire. La sensazione, precisa Filone, deriva dall’intelletto. Ecco la sua allegoria della costola: la sensazione deriva dall’intelletto, è l’intelletto che consente l’esistenza della sensazione: senza intelletto non percepiremmo niente. Infatti, dice, l’intelletto è solo causa strumentale della sensazione, Dio ne è la vera causa. A pag. 123. Il motivo per cui Dio chiama Adamo e non Eva. “E il Signore Iddio Non chiamò Adamo e gli disse: dove sei?” Ma per quale motivo Dio chiama solo Adamo, dal momento che anche la sua donna era nascosta con lui? Dunque, in primo luogo bisogna dire che Dio domanda “dov’è” all’intelletto, nel momento in cui esso prende atto e coscienza del proprio sbandamento. Lui, Filone, interpreta, cioè, dà alle parole un significato, che è quello che vuole lui, che è quello che pensa lui, che immagina lui, ma che non c’è nelle parole. Dio non chiama la donna. Come mai? Perché, essendo priva di ragione, non può prendere coscienza da sé. Infatti, né la vista, né l’udito, né alcun’altra delle sensazioni può essere oggetto di educazione, cosicché non può produrre una comprensione chiara delle realtà incorporee: infatti il Creatore ha fatto la sensazione atta a distinguere i soli esseri corporei. L’intelletto, invece, può essere educato e, per tale motivo, proprio esso e non la sensazione è chiamato per primo. A pag. 126. Anche il corpo è sempre malvagio e meritevole di condanna. Da qui poi è partito anche Plotino, che pone la materia nel grado più infimo. Per il medesimo motivo, Dio sa che Er è colpevole ed anche senza un’esplicita imputazione lo fa morire. Dio sa bene quella massa di pelle che è il nostro corpo (infatti, Er vuol dire “di pelle”) è malvagia, tende insidie all’anima e, come un cadavere, è morta per sempre. Del resto, dovrai convincerti che ciascuno di noi non fa altro che portarsi appresso un cadavere, giacche è l’anima che sveglia il corpo che di per sé cadavere e lo porta in giro senza sforzo; e pensa, se vuoi, qual è il suo vigore. Quando, infatti, l’intelletto si occupa di cose divine ed è iniziato ai misteri del Signore, considera il corpo come malvagio ed ostile; quando invece lascia la ricerca delle realtà divine lo stima suo amico, parente e fratello e ricorre alle cose che ad esso stanno a cuore. Qui se la prende con il piacere. A pag. 134. Tutte le passioni traggono origine dal piacere. Il serpente è maledetto anche fra tutte le fiere, intendo dire le passioni dell’anima, dalle quali l’intelletto è danneggiato o distrutto. Per Filone è questo ciò che Dio voleva dire. Ciò che voleva dire era questo, in verità. Perché questo “in verità”? Perché questo serve a lui per dimostrare quello che deve dimostrare e, quindi, compie un’interpretazione. Il piacere sta alla base di tutte le passioni, come loro principio e fondamento. Infatti, desiderio trae origine dall’amore per il piacere, l’affanno consiste nella sua perdita, la paura si origina dal timore che esso venga meno. Come si vede, ogni passione tende al piacere, e forse neppure sussisterebbe se il piacere non fosse posto a suo fondamento e sostegno. Dice “come si vede”. Che cosa si vede? Niente, però, interviene, un “come si vede”, così come altre volte dice “è dimostrato”… No, non si è dimostrato niente. A pag. 136 pone una questione importante. Chiarezza e verità sono le virtù della parola. Per tale motivo ci siamo trovati nella necessità di ricorrere a simboli fonetici, i nomi e i verbi, i quali bisogna che siano del tutto riconoscibili, affinché il nostro prossimo possa coglierli con chiarezza e senza ambiguità. Qui la questione delle parole, che poi vedremo con Proclo quando commenta il Cratilo di Platone. Invero, di che utilità sarebbe esprimerci in modo conveniente e chiaro, se poi, per altro verso, questa espressione è priva di verità? In tal caso, infatti, l’uditore sarebbe necessariamente tratto in inganno e riporterebbe un ben triste frutto: l’essere privo di educazione e, insieme, l’ignoranza. /…/ Anche se diventa abile qualche cosa, questi potrà forse parlare in modo convincente e chiaro, ma non certo secondo verità e, pertanto, in tal modo sarà causa dello stesso vizio che si trova nel suo discorso. Ma quando darà prova di ambedue le qualità, di chiarezza e di sincerità, renderà certo proficuo il linguaggio a vantaggio di chi impara, facendo uso delle due virtù che sono forse le sole che possa avere un discorso. Però, di fatto, non ci dice in che cosa consista la verità nella parola. È implicito che la verità della parola è quella data da Dio, però, è sempre meglio non indagare ulteriormente la questione. Immagino che abbiate sempre più chiaro di che cosa si tratti nell’interpretazione, nell’ermeneutica. Le parole possono dire qualunque cosa, è vero, ma perché questo non accada, perché è seccante, io interpreto: la mia interpretazione è quella giusta e, quindi, tu devi credere a quello che dico io. Non ha un’altra funzione l’esegesi, ha solo questa. Cioè, una funzione che è quella della volontà di potenza.