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11 dicembre 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel – Volume Secondo

 

Siamo a pag. 63. L’unità del concetto, nel quale ancor risiede il potere statale e al quale la coscienza è giunta purificandosi, diviene effettuale in questo movimento mediatore, il cui esserci semplice, come medio, è il linguaggio. Qui coglie benissimo la questione: il linguaggio è il medio, cioè, la relazione. Tuttavia quell’unità non ha ancora ai suoi lati due Sé dati come Sé,… Questi due lati non sono ancora posti in quanto tali, come esistenti per sé. …perché qui il potere statale viene soltanto spiritualmente avvivato ad esser Sé; onde questo linguaggio non è ancora lo spirito com’esso pienamente si sa e si esprime. Cioè: non è ancora arrivato al Sé, perché il linguaggio si esprime con il Sé: diventa il Sé, l’intero, l’essere, lo Spirito assoluto, il vero del linguaggio. A pag. 72. Ma il vero spirito è appunto questa unità degli assolutamente separati; e, più precisamente, mediante la libera effettualità di questi estremi privi di Sé… “Privi di Sé” vuole dire non sono ancora posti come un intero. …giunge anch’esso, come loro medio, all’esistenza. Il suo esserci è l’universale parlare e il disgregante giudicare… L’esserci è l’universale parlare. Anche per Heidegger, dopo tutto: l’esserci, il Dasein, è la persona in quanto parlante. …al quale si dissolvono tutti quei momenti che debbono valere come essenze e come effettuali membri dell’intiero, e il quale è altrettanto siffatto dissolventesi gioco con se stesso. Questo intero è fatto di questi momenti che si dissolvono integrandosi gli uni con gli altri. Questo giudicare e parlare è quindi il Vero e l’Incoercibile, mentre esso tutto a sé sottomette; - è ciò di cui soltanto e davvero ci si deve occupare in questo mondo reale. Ciascuna parte di questo mondo arriva dunque a tal resultato: che il suo spirito viene espresso; che cioè e di essa parlasi con spirito e dicesi ciò che essa è. Ciò di cui occorre occuparsi è il linguaggio, il vero, non c’è altro di cui occuparsi a questo mondo, salvo distrarsi rispetto a cose che di tanto in tanto compaiono e che come chimere attirano l’attenzione illudendo… illudendo che cosa? Illudendo il superpotenziamento, cioè di potere raggiungere un maggiore potere. La quale cosa è complessa perché il superpotenziamento, di cui ci parla Nietzsche, in realtà è un’illusione, poiché se tutto ciò che ha da esserci è qui e adesso, cioè l’intero, il linguaggio, allora è chiaro che l’idea di superpotenziarmi, cioè di aggiungere cose, è un’illusione, perché queste cose che io credo di aggiungere, in realtà, sono già qui, adesso, tutte; quindi, di cosa mi potenzio? È un’illusione, illusione che, però, funziona perché è il modo con cui il linguaggio procede. Il linguaggio procede attraverso relazioni, il linguaggio non è che relazione, e ogni volta che compare una relazione compaiono altri elementi. È questo che dà la sensazione di superpotenziarsi, cioè di avere aggiunto cose sulle quali è possibile esercitare il proprio potere. Il che è anche vero in parte, ma queste cose sono sempre state qui. A pag. 77. In tale linguaggio questo Sé, come questo puro Sé non appartenente alle determinazioni effettuali o pensate… Il puro Sé non appartiene a delle determinazioni, è l’intero. …diventa a sé lo Spirituale che ha veramente una validità universale. Il Sé è la disgregantesi natura di tutte le relazioni e la loro consapevole disgregazione;… Cioè: il Sé, l’intero, è queste relazioni che si fanno e si disfano continuamente. …ma solo come autocoscienza ribelle sa la sua propria disgregatezza, e, in questo saperla, si è immediatamente sollevato al di sopra di lei. In quella fatuità ogni contenuto diventa un negativo che non può più venire colto positivamente; l’oggetto positivo è soltanto il puro Io stesso, e la coscienza disgregata è in sé questa pura eguaglianza con sé dell’autocoscienza ritornata a sé. È il movimento della dialettica, ovviamente. A fine pagina. Ma essendo il pensare anzitutto l’elemento di questo mondo, ecco che la coscienza questi pensieri li ha soltanto, ma non li pensa ancora, o non sa che sono pensieri; anzi essi sono per lei nella forma della rappresentazione. Qui parla della religione. Infatti, questo capitolo si chiama La fede e la pura intellezione e lo leggiamo perché pone una questione interessante. Distinguendo tra fede e intellezione in realtà sta ponendo l’antica questione tra fede e scienza, scienza come sapere, come intellezione. A pag. 80. Anche tale pura coscienza… Sta parlando della fede. …è altrettanto semplice, proprio perché la sua differenza non è una differenza. Ma questa coscienza come questa forma della semplice riflessione in sé è l’elemento della fede… Semplice riflessione in sé, dice. Cosa fa la fede, secondo Hegel? La fede coglie l’intero, cioè, in qualche modo lo avverte, solo che lo pone nell’al di là, e a questo punto quasi si immedesima in questo al di là, come dire: se nell’al di là c’è questo intero, allora se io mi rivolgo a questo al di là ne traggo in qualche modo anche una mia certezza, anche se ovviamente questa certezza è sempre molto limitata. Ma qual è la questione interessante? È che Hegel dice che la religione e la scienza sono lo stesso. Parlando di religione alcune volte sembra alludere alla questione del mito, altre volte ne parla come di una istituzione. Per Hegel, entrambi questi momenti pongono l‘intero come qualche cosa che c’è, ma per l’intellezione, per la scienza, questo è da trovare attraverso un processo che prosegue sempre in una direzione, che è quella dell’analisi; mentre la religione, anche lei sa che c’è un intero ma lo pone nell’al di là. La critica che la religione fa all’intelletto è di essere menzognero, perché ogni volta che l’intelletto trova qualche cosa lo trova falso in quanto questo qualche cosa rinvia a un’altra cosa, la quale rinvierà a un’altra cosa, ecc. C’è questo movimento, questo spostamento continuo, che rende falsa ogni affermazione dell’intelletto, che non può essere determinata assolutamente; è semplicemente il momento di un percorso che rinvia a un altro. Invece, ciò di cui l’intelletto accusa la religione è di non usare i concetti, di essere aconcettuale, cioè, di non fare uso dell’intelligenza, ma di starsene lì quieta, immobile, in una certezza che di fatto non ha un argomento a suo sostegno. A pag. 81. …accade che l’essenza della fede ricade dal pensiero nella rappresentazione, diventando un mondo ultrasensibile il quale è essenzialmente un Altro dell’autocoscienza. Cioè: pone nella rappresentazione l’immagine – ad esempio, il culto, le immagini di Dio ecc. – rappresentazione che è messa al posto dell’autocoscienza, cioè, del significato. A pag. 92. Per ricordare brevemente queste parti secondo la determinazione esteriore della loro forma, come nel mondo della cultura il potere statale o il bene era il primo, così anche qui il primo è l’essenza assoluta, è lo spirito in sé e per sé essente, in quanto esso è la sostanza semplice ed eterna. Ma questa nella realizzazione del suo concetto, di essere cioè spirito, passa nell’essere per altro;… Perché ogni volta che accade lo spirito, questo spirito si manifesta come essere per altro, perché è la sua natura. …la sua eguaglianza con sé diventa un’essenza reale assoluta che fa sacrificio di sé; questa essenza diventa Sé, ma Sé transeunte. Perciò il terzo è il ritorno del Sé estraniato e della sostanza umiliata nella loro primitiva semplicità; soltanto in tal guisa la sostanza è rappresentata come spirito. Questo è ciò che accade, nel senso che questo ritornare in sé in quanto essere altro per l‘intelletto costituisce, da una parte, un problema, nel senso che tutto ciò che incontra lo disgrega. Facevo prima l‘esempio della scoperta scientifica, che mano a mano viene soppiantata da un’altra, poi da un’altra, e così via, cioè, disgrega tutto ciò che incontra. D’altra parte, però, con tutto questo pensa di arrivare alla fine all’intero. Che è quello che dice Popper, né più né meno: possiamo soltanto camminare per raggiungere la verità; presupponendo che sia raggiungibile, sennò non avrebbe alcun senso questo andare verso… verso che cosa? A pag. 84. Noi abbiamo visto che cosa sia la pura intellezione in sé e per sé; come la fede è la tranquilla pura coscienza dello spirito come essenza,… La coscienza dello spirito, diciamola così, è il sapere che c’è un intero, e questo sapere che c’è l’intero diventa l’essenza, diventa la cosa più importante. È un sapere che non è il risultato di una concettualizzazione ma è posto per se stesso. …così la pura intellezione è l’autocoscienza di questa essenza; perciò la pura intellezione non sa l’essenza come essenza, ma come Sé assoluto. Essa quindi si accinge a togliere ogni indipendenza che sia diversa da quella dell’autocoscienza, si tratti dell’indipendenza dell’effettualità, oppure di quella dell’in-sé essente; e ne fa dei concetti. Essa non soltanto è la certezza della ragione autocosciente, di essere ogni verità; ma sa di essere ciò. Ecco perché funziona, perché sa di essere la certezza della ragione autocosciente, immaginando che la certezza della ragione autocosciente, cioè di me che so quello che sto facendo, sia la garanzia di essere nella direzione giusta, in quanto so che sto facendo il percorso giusto verso la verità. A pag. 85. Se peraltro il concetto della pura intellezione è sorto, tuttavia non è ancora realizzato. La coscienza di esso appare quindi tuttora come accidentale, come singola, e ciò che le è essenza appare come fine ch’essa ha da realizzare. Ecco qui Popper. Essa coscienza ha per ora da rendere universale l’intenzione, la pura intellezione, ossia da rendere concetto tutto ciò che è effettuale, e da renderlo un concetto in tutte le autocoscienze. Questo è l’intendimento di Hegel, cioè portare l’intellezione alla sintesi con il mito, con la religione. Secondo Hegel, hanno la stessa posizione, entrambe si accorgono, come dicevo prima, che esiste un intero, solo che in un caso, nell’intellezione viene eliminata quella parte che non le è conveniente rispetto a questa ideologia, e cioè quella parte che dice che l’intero c’è già, come dice la religione che dice che c’è ma nell’al di là. Dall’altra parte, la religione coglie, sì, l’esistenza dell’intero, ma cogliendolo nell’al di là non ne può dire, non lo può concettualizzare, non può costruire un’argomentazione che lo sostenga. Questi sono i due momenti, i due estremi, che naturalmente vanno integrati. E adesso lo farà. A pag. 86, Capitolo II, Il rischiaramento o l’illuminismo. L’oggetto peculiare contro il quale la pura intellezione dirige la forza del concetto, è la fede intesa come la forma della pura coscienza, forma che alla pura intellezione in quel medesimo elemento è contrapposta. Fede e intellezione, o scienza, si contrappongono. A pag. 87. Di sopra si fece menzione alla coscienza quieta, come essa contrappongasi a questo vortice che si dissolve in se stesso e in se stesso si riproduce;… La coscienza quieta della religione; invece, la intellezione è un vortice continuo. …la coscienza quieta costituisce il lato della pura intellezione ed intenzione. Ma in questa quieta coscienza, come noi vedemmo, non cade alcuna particolare intellezione circa il mondo della cultura. Cioè, non si pone nessun problema: in questo senso è quieta. Non si pone il problema perché l’ha già risolto, anche se lo pone in un al di là. Piuttosto questo mondo ha esso stesso il più doloroso sentimento e la più vera intellezione circa se stesso; - il sentimento, di essere centrifugato attraverso tutti i momenti del suo esserci, di essere maciullato in ogni osso; similmente essa è il linguaggio di siffatto sentimento; è il linguaggio che con scintillio di spirito giudica di tutti i lati della sua condizione. Qui la pura intellezione non può quindi avere alcuna propria attività né alcun proprio contenuto;… Perché disgrega tutto ciò che incontra. …e può perciò comportarsi soltanto come un formale fedele cogliere di questa propria scintillante intellezione del mondo e del suo linguaggio. Essendo questo linguaggio disperso, essendo il giudizio una sciocchezza momentanea, una pappolata che ben tosto si oblia, ed essendo un intiero solo per una terza coscienza, questa si può distinguere come pura intellezione solo raccogliendo insieme in una universale immagine quei tratti disperdentisi e rendendoli poi una intellezione di tutti. Questo come obiettivo. A pag. 88. Le diverse guise del comportamento negativo della coscienza, da una parte lo scetticismo, dall’altra l’idealismo teoretico e pratico, sono figure subordinate rispetto a quelle della pura intellezione e della di lei propagazione; il rischiaramento o illuminismo; la pura intellezione infatti è nata dalla sostanza, sa come assoluto il puro Sé della coscienza, e lo accoglie con la pura coscienza dell’assoluta essenza di ogni effettualità. Poiché fede e intellezione sono la medesima pura coscienza... Quando parla della coscienza parla della persona in quanto sapere: la persona è il sapere. …mentre si oppongono secondo la forma; e poiché alla fede l’essenza è come pensiero, non come concetto, e tale essenza è perciò un che di senz’altro opposto alla autocoscienza,… Opposto a tutto ci che si pone come significato, quindi, come concetto. …mentre alla pura intellezione l’essenza è il Sé;… L’intellezione immagina che io possa conoscere l’intero, non che io faccia parte dell’intero. Sta qui la questione, perché nel momento in cui il Sé è parte dell’intero, cioè è l’intero, allora la questione si integra e non c’è più questa dicotomia, questa divisione, i due momenti non sono più separati ma si integrano. …così esse sono reciprocamente l’una il mero negativo dell’altra. – Per il modo con cui esse sorgono l’una di contro all’altra, alla fede conviene  ogni contenuto; infatti nel suo tranquillo elemento del pensare ogni momento guadagna sussistenza;… Ogni cosa è creata da Dio. …ma la pura intellezione è dapprima senza contenuto; è anzi puro dileguare del contenuto;… Lo abbiamo visto: il contenuto dilegua continuamente, mano a mano che vado avanti lo disgrego, perché lo metto in discussione ponendolo come concetto, come significato, dilegua in infiniti concetti, in infiniti significati. …ma, mediante il movimento negativo contro lo a lei Negativo, l’intellezione si realizzerà e si darà un contenuto. Cioè, quando si integrerà con ciò che lui chiama la fede, con il mito. A pag. 93. È perciò da vedere come la pura intellezione e intenzione si comporti negativamente verso l’altro a lei opposto, cui essa trova. La pura intellezione e intenzione che si comporta negativamente, essendo il suo concetto ogni essenza e nulla trovandosi fuori di lei, può essere soltanto il negativo di lei stessa. La scienza immagina che ogni concetto possa essere raggiunto, possa essere provato, possa essere elaborato, analizzato, ecc. Ma, trovando questo concetto, lo trova sempre fuori di lei, è sempre qualcosa di esterno, è l’oggetto, da cui la famosa obiettività scientifica. Essa quindi, come intellezione, diventa il negativo dell’intellezione pura… Che vorrebbe invece arrivare all’intero. …diventa non verità e non ragione; e, come intenzione, il negativo dell’intenzione pura, diventa menzogna e disonestà del fine. Questa è l’accusa che la fede rivolge all’intellezione. Dice “tu menti continuamente, sei disonesta, sai di non potere arrivare all’intero e, nonostante questo, illudi le persone che un bel giorno, finalmente, arriveremo al tutto. Ma menti.”. essa s’impiglia in questa contraddizione, perché si getta nella contesa opinando di combattere qualcos’altro. Sta parlando dell’intellezione. Ma ciò essa opina soltanto, perché la sua essenza, come l’assoluta negatività… L’essenza dell’intellezione è l’assoluta negatività, in quanto ogni concetto che trova si dilegua in un altro concetto. Il concetto assoluto è la categoria; esso è questo: il sapere e l’oggetto del sapere sono la medesima cosa. Il sapere e l’oggetto del sapere sono la stessa cosa. Dicendo questo è come dire che l’oggetto del sapere, che io interrogo, non è qualche cosa che è fuori del sapere ma è il sapere stesso. Il sapere e l’oggetto sono lo stesso. Così come la coscienza: la coscienza è un sapere. Un sapere di che? Di se stessa. È qui che poi arriva: attraverso l’autocoscienza la coscienza viene a sapere di sé, ed è a questo punto che diventa il Sé, diventa l’intero, il tutto, diventa linguaggio. Linguaggio che parla di sé a sé: un sapere del linguaggio. Linguaggio è inteso qui sia come genitivo oggettivo che soggettivo: un sapere del linguaggio dove il linguaggio è l’oggetto del sapere, e un sapere del linguaggio dove è invece il linguaggio che sa. Ma ciò che il linguaggio sa è sempre e solo se stesso, non può sapere qualcosa che sia al di fuori di sé, perché fuori del linguaggio non c’è niente. Quindi, tutto ciò che sa è se stesso. Non può continuare a fare altro che sapere di se stesso. Quel che qui la pura intellezione esprime come il suo Altro, ciò che essa enuncia come errore e menzogna, non può essere se non lei stessa;… Ciò che l’intellezione pensa come errore, come l’Altro, l’altro da sé - se io sono il vero, qualcosa che è altro da me è falso – questo altro, dice Hegel, non è altro che se stessa; è la coscienza che nell’intellezione si scaglia contro se stessa, in definitiva; perché questa cosa, che immagina essere l’errore e, quindi, da eliminare, è ciò per cui lei stessa esiste. Ciò che non è razionale, non ha verità alcuna; ossia ciò che non è concettualmente concepito, non è; mentre dunque la ragione parla di un altro da ciò che essa è, in effetto parla solo di se stessa; essa perciò, così facendo, non esce fuori di sé. Questa lotta con l’opposto per Hegel scompare, scompare nel momento in cui questo opposto si integra con ciò a cui è opposto e diventa l’intero, cioè il Sapere assoluto, perché oltre l’intero non c’è niente, oltre il linguaggio non c’è altro da sapere. Il sapere è tutto lì; in questo senso, è il Sapere assoluto, non c’è qualcos’altro fuori che devo sapere. A pag. 94. Questa lotta con l’opposto assomma quindi in sé il significato di essere l’attuazione della ragione medesima; attuazione che consiste appunto nel movimento dello sviluppare i momenti e del riprenderli in sé; una parte di questo movimento è la distinzione nella quale l’intellezione concettiva si pone di fronte a se stessa come oggetto; finché indugia in questo momento essa è estraniata da sé. Come intellezione pura essa manca di qualsivoglia contenuto; il movimento della sua realizzazione consiste in questo: ch’essa stessa diviene a sé contenuto; infatti un contenuto diverso non le è possibile perché essa è l’autocoscienza della categoria. Possiamo dirla così: un significante preso di per sé manca di contenuto, è vuoto, in “attesa” di quel significato che lo renda quello che è. Soltanto a questo punto il significante diventa significante, e cioè soltanto attraverso l’integrazione con un contenuto diverso dal significante, cioè, attraverso l’integrazione con qualcosa che è altro da ciò che il significante è, con il suo altro. Talvolta, scrive Altro con la A maiuscola, intendendo il radicalmente altro. Ma il suo resultato non sarà perciò né la restaurazione degli errori che essa combatte… Gli errori come l’opposto del vero, che vanno eliminati. …né soltanto il suo primo concetto; anzi sarà un’intellezione che conosce l’assoluta negazione di se stessa, come sua propria effettualità, come se stessa; o sarà il suo concetto che riconosce se stesso. Come si riconosce il concetto? Si riconosce attraverso il negativo. Severino scriveva “l’essere è, il non essere non è”, e fin qui apparentemente non ci sono problemi, però, senza questa seconda parte dove dice che il “non essere non è” neanche l’essere è, perché se io non tolgo dall’essere ciò che l’essere non è, cioè il non essere, in questo essere permane la possibilità che sia anche non essere, e cioè che sia e che non sia simultaneamente. Quindi, devo porlo necessariamente il non essere, devo porre il negativo assoluto, ciò che io pongo non è assolutamente; devo porlo per poterlo togliere. Devo toglierlo ma lo integro – anche Severino fa la stessa operazione, perché questo non essere non è che scompare, rimane come l’assoluta certezza dell’essere dell’essere, che l’essere è soltanto a condizione che il non essere non sia. Il non essere non è qui inteso come nihil absolutum ma come niente, letteralmente come non-ente. Quindi, è l’essere se non è niente – adesso mettiamo insieme Severino e Heidegger – quindi, l’essere è niente, perché questo non essere è il niente, che però è l’essere, è l’essere in quanto essere dell’essere, perché questo non essere che fa diventare necessariamente l’essere quello che è, incontrovertibilmente, direbbe Severino. Quindi, l’essere è niente. E, in effetti, è quello che dice Heidegger: l’essere è il niente, cioè il non ente, che lui pone come un orizzonte, che è la condizione che consente agli enti di apparire. Ora, se noi consideriamo questo essere come niente, niente nel senso che non ha propriamente contenuti determinati, come linguaggio, il linguaggio allora diventa quell’orizzonte che consente a qualunque cosa di apparire, di manifestarsi. A questo punto, ciò che si pone, si pone perché si è tolto ciò che necessariamente occorreva porre, e cioè il suo negativo, l’altro da sé. Questo è ciò su cui Hegel insiste nella sua dialettica, e cioè la necessità che ci sia il negativo per potere porre il positivo, che il non essere ci sia perché l’essere sia l’essere, perché sia l’essere dell’essere. Tale natura della lotta del rischiaramento contro gli errori, combattere cioè in essi se medesimo ed esecrare ciò ch’esso afferma,… Combatte l’errore ripetendolo all’infinito, nel senso che ogni volta che va avanti commette un errore rispetto a ciò che sarà più avanti; sarà sempre un errore, per un motivo o per l’altro. …è per noi. Questo “per noi” interviene spesso in Hegel: per noi che sappiamo. Il “per noi” lo pone come Sapere assoluto: noi adesso sappiamo per quale motivo sono successe quelle cose storicamente; allora, quando sono successe non potevano saperle, e quindi solo “per noi” è tutto chiaro. …ovvero, è ciò ch’esso e la sua lotta sono in sé. È questo che sappiamo: l’intelletto e la sua lotta sono in sé, sono la stessa cosa. Ma il primo lato della lotta, vale a dire il contaminarsi del rischiaramento con l‘accogliere nella propria purezza eguale a se stessa il comportamento negativo, rappresenta il modo in cui esso è oggetto per la fede, la quale lo vede perciò come menzogna, come scervellatezza e mala intenzione, così come la fede è per il rischiaramento errore e pregiudizio. Rispetto al suo contenuto esso è anzitutto l’intellezione vuota, alla quale il proprio contenuto appare come un altro; in questa figura dove il contenuto non è ancora quello suo proprio, se lo trova perciò davanti come un esserci completamente indipendente da sé; lo trova nella fede. Questo intero lo trova nella fede come un qualche cosa che è totalmente indipendente da sé. Il rischiaramento dunque coglie da prima e in generale il proprio oggetto in modo da prenderlo come intellezione pura… L’oggetto di conoscenza… sarebbe il μάθημα (màthema) degli antichi. …e, non riconoscendo se stesso, da dichiararlo errore. Nella intellezione come tale la coscienza coglie un oggetto in modo che questo le si fa essenza della coscienza o un oggetto cui essa pervade, nel quale si mantiene, resta presso di sé e a se stessa presente; ed essendo essa così il movimento di quell’oggetto, lo produce. Cioè: senza accorgersene l’intellezione sta producendo l’oggetto, che immagina sia lì a disposizione per essere conosciuto, ma non sa, dice tra le righe Hegel, che lo conosce già. È per questo che lo può considerare: perché lo conosce già, e lo conosce già perché lo ha prodotto in questo movimento, in questa relazione. A buon diritto il rischiaramento caratterizza la fede come siffatta coscienza; poiché esso dice di lei che ciò che le è l’essenza assoluta è un essere della sua propria coscienza, un suo proprio pensiero, un alcunché prodotto dalla coscienza. L’intellezione, l’intelletto, accusa la fede della stessa cosa che fa l’intelletto. L’intelletto dice alla fede: “Tu ti sei creata da te la tua essenza, il tuo spirito”, ma anche l’intelletto fa la stessa cosa perché, ponendo l’intero, il vero, come il risultato del percorso, lo pre-suppone, cioè o crea esattamente come fa il mito, come fa la religione, la fede. Il rischiaramento che vuole insegnare alla fede la nuova saggezza, non le dice con ciò niente di nuovo; infatti, anche alla fede il suo oggetto non è che la pura essenza della sua propria coscienza;… La fede lo sa, non è che non lo sappia. …e questa non i pone, dunque, nell’oggetto come perduta o negata; ma confida piuttosto in esso; vale a dire, in esso trova sé come questa coscienza o come autocoscienza. Cioè: lo pone lì ma, ponendolo lì, immagina che questo garantisca di sé. La certezza di sé propria di colui nel quale confido è a me la certezza di me stesso;… Se io mi fido completamente di questo dio, allora ho anche la certezza di me stesso, perché questo dio è ciò che mi fa esistere. …io conosco il mio esser-per-me in lui, conosco che egli lo riconosce e che esso gli è fine ed essenza. Mi riconosco in Dio e Dio mi riconosce: in questo modo io sono certo della mia esistenza. A pag. 100. La pura intellezione è sì essa stessa il puro pensare mediato, cioè il pensare che media sé con sé; essa è il puro sapere; ma, essendo pura intellezione, puro sapere che non sa ancora se stesso,… Qui è il passaggio che l’intellezione deve fare, perché per Hegel l’intellezione è ciò che deve compiere questa operazione, che la fede non può fare, la fede si arresta lì, non pensa concettualmente. È l’intellezione che deve recuperare il mito e integrarlo nel suo sapere. …- sapere per il quale ancora non è ch’essa è questo puro movimento mediatore, - … È questo che ancora non sa. …il movimento mediatore, come tutto ciò ch’essa è, le appare come un altro. Il movimento mediatore è la relazione, è il linguaggio. Ecco perché il linguaggio appare come qualcosa di estraneo: perché ciò che media, il mio sapere, ciò che mi consente di sapere dell’oggetto. Questo nell’accezione comune; infatti, quando si pensa al linguaggio come strumento di conoscenza si pensa questo: il linguaggio è qualcosa di estraneo. Questo accade perché è un sapere che non sa ancora se stesso, cioè che sapere è linguaggio; non sapendo se stesso immagina che questo sapere sia qualcosa di estraneo, che il linguaggio sia un’altra cosa al di fuori di lui. A pag. 103. Se ogni pregiudizio e ogni superstizione sono sti messi al bando, si presenta allora la questione: che resta dunque? Qual è la verità che il rischiaramento ha divulgato in luogo di quelli? – Il rischiaramento nella sua caccia all’errore ha già pronunziato questo contenuto positivo, giacché quella estraneazione di se stesso è già la sua realtà positiva. Io tolgo gli errori, e allora che cosa mi resta? Mi resta ciò che ho posto, che naturalmente, per essere posto veramente, incontrovertibilmente, deve accogliere l’errore, l’altro, cioè, deve accogliere sé come altro da sé. A pag. 104. Secondo punto. La coscienza che nei primi albori della sua effettualità è certezza e opinione sensibili, ritorna a queste dall’intero cammino della sua esperienza ed è di nuovo un sapere del puro negativo di se stesso o di cose sensibili, cioè di cose nell’elemento dell’essere le quali stanno indifferenti di contro al suo esser-per-sé. Questo è il secondo momento del porre, cioè, la coscienza compie il percorso e, compiuto il percorso, c’è il terzo momento della verità del rischiaramento. A pag. 105. Infine, il terzo momento della verità del rischiaramento è la relazione delle essenze singole con l’essenza assoluta, è il rapporto dei primi due momenti. L’essenza singola, rispetto al discorso che faceva, potremmo intenderla come l’intelletto; l’essenza assoluta, come ciò che invece pone il mito, la religione. Certo, sono accostamenti che vanno fatti con una certa cautela, anche perché non è mai semplicissimo interpretare “correttamente” Hegel, anche tenendo conto del fatto che moltissime cose, rispetto a Hegel, sono ancora oggi in via di interpretazione. Non è che sia tutto così chiaro, tant’è che certi termini in un certo punto li usa in un certo modo, in un altro momento li usa in un altro modo. Adesso facevo l’esempio della religione. In certi momenti sembra parlarne quasi come del mito, del mito che è l’origine della scienza ma a un certo punto si è opposta alla scienza; invece, più avanti, parla della religione come istituzione come un’organizzazione. Ma la forma del rapporto, nella cui determinazione concorre anche il lato dello in-sé, può essere istituita a piacere; la forma è infatti l’in sé Negativo… La forma è, infatti, il negativo, non c’è contenuto. …ed è perciò l’opposto a sé, è tanto Essere quanto Nulla, tanto in-sé quanto il contrario; o, che è poi lo stesso, il rapporto della effettualità allo in-sé come al-di-là è sia un negare che un porre quest’ultima. È questo che fanno entrambi: ciò che negano anche lo pongono. Anche la fede nega che ci sia qui l’al di là – sennò non sarebbe al di là – ma al tempo stesso lo pone, nel senso che ci fa affidamento. La stessa cosa fa l’intelletto: pone l’intero come qualcosa che non c’è – sennò non lo cercherebbe – ma al tempo stesso lo pre-suppone, cioè, lo pone per potere compiere questa operazione, per poterlo cercare; Nietzsche direbbe: per potere esercitare la propria volontà di potenza.