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11-12-2013

 

Ciò da cui siamo partiti: il significato come uso, sia che lo si intenda come referenziale sia come inferenziale, in ogni caso è sempre l’uso che si fa di qualche cosa, perché non è che il significato referenziale e inferenziale siano propriamente successivi, cioè prima c’è quello referenziale poi quello inferenziale, difficile stabilire una cosa del genere, anche se potremmo dire che la prima cosa che si apprende è l’uso referenziale di un termine cioè la sua definizione, anche se poi di fatto non avviene proprio così, non necessariamente, perché negli umani a differenza delle macchine, almeno per ora, l’acquisizione di informazioni non avviene tramite definizioni o comandi intesi come stringhe di elementi, di parole eccetera ma avviene per lo più attraverso altri canali che sono quello visivo e quello uditivo, poi anche quello tattile, gustativo eccetera però prevalentemente quello visivo. Non è che cambi tanto, è solo un altro modo di acquisire informazioni, dicevo anche che una macchina può farlo, solo che si preferisce, almeno per il momento, anziché mostrargli delle cose metterle dentro digitandole, mentre negli umani no, avviene per lo più attraverso la vista, attraverso la vista si acquisiscono informazioni, quindi la vista non essendo una definizione di qualche cosa, mostrando la forma di qualche cosa è assolutamente molto meno precisa, molto più vaga. Se ti mostro quella stampante, tu la guardi e dici “ecco una stampante è fatta così”, un altro conto è se definisco la stampante, posso fare entrambe le cose ovviamente, però la definizione della stampante è qualcosa di molto più preciso, meno ambiguo che l’immagine che tu hai di una o più stampanti. Il fatto è che gli umani vengono addestrati al linguaggio in questo modo, cioè molto spesso visivamente per cui non si fornisce a un bambino una definizione di qualche cosa ma si mostra come è fatta, e il sapere come è fatta lo mette in condizioni di associare la parola a quella immagine, e quindi utilizzare quella parola in un contesto più o meno correttamente. Ciò che sto dicendo è che il modo in cui avviene l’addestramento al linguaggio negli umani è molto vago, impreciso, imperfetto, ambiguo, equivoco, squinternato. Questo naturalmente è responsabile di molti problemi che intervengono nel parlare e quindi nel pensare ovviamente, per cui è facile farsi idee strane sulle cose, equivocare, prendere una cosa per un’altra, cosa che nelle macchine non avviene perché ogni informazione è definita, negli umani no, addirittura come abbiamo visto tempo fa, un termine può essere utilizzato senza essere definito, semplicemente si è visto utilizzarlo in un certo modo e allora si continua a utilizzarlo nel modo in cui si è visto utilizzarlo da altri per esempio, senza sapere in realtà di che cosa si tratti esattamente, senza averne una definizione, e questo procede dal fatto che, come dicevo, per gli umani l’acquisizione di informazioni passa attraverso dei canali che non prevedono la definizione ma la vista, cioè la forma, il suono, il tatto eccetera. Se tu devi individuare un oggetto unicamente dalla vista e dal tatto senza avere nessun altra informazione sarai impedita nel sapere esattamente che cos’è quella cosa, mentre se io ti do un’informazione precisa saprai usare quel termine in un modo corretto, corretto intendo nel modo in cui, per esempio, un dizionario lo mostra, ma non è così, sappiamo che se, dizionario alla mano domandiamo alle persone di definire delle parole, anche le più semplici, riscontreremo una notevole difficoltà a definire anche parole che usano infinite volte durante il giorno, senza sapere di cosa si tratti esattamente, come funziona questa cosa? È che avendo visto come altri la utilizzano la si utilizza in situazioni che appaiono simili. Anche questo è un uso squinternato, ma è pur sempre un uso, un uso che consente di utilizzare quella parola all’interno di una combinatoria e farla connettere con altre parole, altri discorsi, che alla fine rimangono abbastanza squinternati come sono per lo più i discorsi delle persone, se ci si presta un minimo di attenzione ci si accorge che dicono cose, molto spesso, che non stanno né in cielo né in terra: si contraddicono, affermano cose senza avere la più pallida idea di quello che stanno affermando, è così che per lo più funziona il linguaggio parlato, cosa che non avviene in una macchina appunto perché in una macchina si immettono informazioni precise, anche perché si vuole che la macchina funzioni in modo corretto. E questo è il problema del così detto linguaggio naturale, per cui quando nei vari testi che tu hai letto o leggerai si disquisisce come si stabilisce nel linguaggio naturale, come fa la filosofia analitica, si stabilisce che cosa debba essere un significato ci si trova in difficoltà perché si pensa che il significato debba essere qualche cosa di preciso, cosa che non è quasi mai, e allora ci si accorge a un certo punto della discrepanza fra l’idea che ci si è fatta del significato, di come dovrebbe essere e invece che cosa di fatto è quando si parla, ma tutto ciò in che modo a te può interessare? Indirettamente, perché tutto questo ha a che fare con la difficoltà nello stabilire che cosa si debba intendere con significato, perché se lo intendiamo in modo preciso, rigoroso, cioè diamo una definizione di significato e ci atteniamo a quella, che poi essere preciso e rigoroso significa soltanto questo, allora ci accorgiamo che non è così che funziona il significato nei parlanti, è un funzionamento ideale ma non reale, non reale nel senso che nella pratica della più parte delle persone non avviene così. Questa discrepanza costituisce un problema, un problema irrisolto nella filosofia analitica è: “come è possibile che si utilizzi una parola, un termine senza sapere cosa significhi?”, cosa che avviene continuamente, in questo caso qual è il significato di quella parola? È sempre l’uso, perché la persona la usa per costruire un’altra proposizione che a lui pare corretta, in qualche modo la usa per comunicare qualcosa, per dire le sue verità per esempio, ma è questo l’uso, per cui potremmo dire che la nozione di significato in Wittgenstein è corretta ma non è sufficiente. Anche la questione posta intorno all’intenzionalità per esempio, indirettamente in Austin più direttamente in Ogden e Richard, assume un certo ruolo in una teoria semantica in quanto appare in alcuni casi che sia l’intenzione nel fare qualche cosa a determinare il significato di una proposizione, come la retorica insegna, se io parlo per antitesi per esempio, cioè ti dico qualche cosa ma dicendo quella cosa ti dico esattamente il contrario, qual è il significato? Ti faccio l’esempio così è più chiaro, poniamo che dica “ma come sei simpatica questa sera!” ho fatto un’affermazione che ha un significato, il significato dovrebbe essere quello di affermare un quanto cioè una quantità di simpatia che mostri questa sera, e se la mostri vuol dire che ce l’hai questa simpatia, cioè sei simpatica. Ciò non di meno la frase che io ho affermata per te non ha questo significato, come avviene questo miracolo? Per cui io dico una cosa ma tu intendi esattamente il contrario? E allora torno a dire, qual è il significato di questa affermazione, di questa proposizione? Il significato dovrebbe dirci che sei simpatica, se ci atteniamo per esempio a un significato inteso composizionalmente, prendi tutti i tuoi termini, questo significa questo, questo significa quest’altro, li assembli e viene fuori il significato generale, non è così in questo caso, ma esattamente il contrario. Questo è un caso di significato dove l’intenzionalità è determinante nel determinare il significato, quindi è sempre valida la tesi di Wittgenstein che il significato è l’uso? Sì, perché io uso questa formulazione, questa figura retorica per dirti una certa cosa che tu comprendi benissimo, quindi il significato pubblico permane e anche l’addestramento, perché io sono stato addestrato negli anni, col tempo, a usare anche delle parole in modo tale che significhino il contrario di quello che dicono. Tutta la retorica o buona parte della retorica ha questa funzione, cioè utilizzare dei termini, delle proposizioni in modo differente dal loro uso normale, cioè dal loro significato che hanno nel dizionario per esempio, così come un’altra figura retorica, per esempio l’aposiopesi, cosa dice l’aposiopesi? L’aposiopesi è quella figura retorica che consiste nella sospensione del discorso, che infatti si sospende per fare intendere che invece non andrebbe affatto sospeso ma ci sarebbero ancora moltissime cose da dire, vi faccio un esempio “Eleonora, è poco diligente, e non dico altro” questo è un esempio di aposiopesi, detta anche reticenza, in questo caso il significato di questa affermazione qual è? Che effettivamente non dico altro? Oppure che non dicendo altro lascio intendere che ci siano ben altre cose da dire su Eleonora? Che però per educazione, per simpatia, per decenza lasciamo perdere. Anche in questo caso qual è il significato di una aposiopesi? Il caso più tipico è quando si mettono i puntini di sospensione, per esempio, qual è il significato? Il significato è ciò che si sta dicendo o qualche cos’altro? In questo caso è l’aposiopesi stessa che allude, dicendo, ad altro che andrebbe detto ma che non si dice, quindi il significato di una aposiopesi non sta in ciò che si dice ma in ciò che non si dice, è questa la forza di quella figura retorica: ciò che non si dice, lasciando intendere però molto bene che cosa andrebbe aggiunto, che cosa andrebbe detto, e dunque qual è il significato in questo caso? È sempre l’uso ovviamente perché ho imparato a usare questa cosa, questa figura retorica, l’ho imparata con l’esperienza, sui libri. Questo per dire che la questione del significato è più complessa di quanto la filosofia analitica voglia fare intendere, non tiene conto, almeno io non ho mai trovato nella filosofia analitica un riferimento preciso, circostanziato alla retorica, eppure la retorica è una delle più formidabili produttrici di senso e di significato, è anche quello strumento che consente di modificare il significato delle parole a seconda dell’uso che se ne vuole fare, ecco che torna l’intenzionalità. In moltissimi casi nella retorica il significato non è referenziale né inferenziale ma è intenzionale, ma qualunque figura retorica pensa alla metafora, alla sineddoche, alla metonimia, all’enallage, all’ipallage pensa a tutte le figure che vuoi, nelle figure retoriche come lo stabiliamo il significato della proposizione? Eppure la figura retorica non è un evento così insolito e sporadico nel parlare comune, è qualcosa che è ininterrotta, come diceva non ricordo chi “ci sono più figure retoriche in una giornata al mercato di quante se ne possano trovare dentro a un manuale di retorica”. Questo aspetto che pure potrai non trattare in modo articolato e preciso nella tua tesi perché non è esattamente questo il tuo obiettivo però lo accennerai (perché dovrei?) per alludere alla difficoltà della definizione del significato, perché a questo punto, se, come sto dicendo, l’aspetto intenzionale non solo è presente ma è fortemente presente nella determinazione del significato di una proposizione allora tutto quello che dice la filosofia analitica in buona parte risulta poco utile, perché non tiene conto di questo aspetto, non tiene conto della retorica che ha tutti i significati intenzionali praticamente, è fatta per questo, in modo che una certa proposizione, se io la costruisco in certo modo produce un altro significato, cioè un altro effetto in chi mi ascolta. Che cosa può servire a te nell’ambito del lavoro che stai facendo una considerazione di questo genere e cioè della maggiore ampiezza del significato rispetto a quella che viene menzionata e discussa dalla filosofia analitica?

Intervento: Il linguaggio della macchina e degli umani abbiamo inteso che non è così ambiguo il significato è un rinvio qui siamo già oltre…

Interessa anche tenere conto del fatto che abbiamo sostenuto in varie occasioni che c’è un significato referenziale e un significato inferenziale, il significato referenziale è quello che consente l’uso di un termine, il significato inferenziale è invece l’uso che se ne fa all’interno di una combinatoria, il significato referenziale è ciò che si predica di una certa cosa, appartiene alla logica del primo ordine, ed è la definizione di una parola, la parola è la sua definizione, è il significato, perché se la parola non ha nessuna definizione non è neanche una parola, non è niente, è un suono senza senso, perché sia una parola occorre che sia un significato e sottolineo “sia” più che “abbia” perché se diciamo che la parola ha un significato stiamo dicendo allora che c’è la parola e c’è il suo significato, allora se la parola ha il significato va bene, ma se non ha il significato allora non è neanche una parola, perché una parola è tale perché significa qualcosa, perché rinvia a qualche cos’altro; supponi una parola che non significhi niente, che non rinvii a niente, che non sia definita da niente, possiamo ancora chiamarla una “parola”? È difficile, come dire che il significato di “parola” è il suo significato, sembra un gioco di parole, il significato di una parola è l’essere un significato, cioè un rinvio, la parola è la sua definizione, ora tu ti chiedevi come questo si connetta e possa andare d’accordo con ciò che dicevo pochi minuti fa rispetto al significato che, per esempio, nella retorica è difficilmente individuabile: è che il significato che spesso viene usato non è conosciuto, è vero, tuttavia per il parlante, per un qualunque parlante anche se non sa, non sa dire qual è il significato di un termine che sta utilizzando 1°) suppone che ce l’abbia 2°) il più delle volte crede di saperlo. Crede di saperlo, però se glielo chiedi non lo sa, un po’ come la storia di Agostino, però se lo usa è perché crede di sapere qual è il significato soprattutto perché è convinto che abbia un significato, se fosse convinto che non ha nessun significato non lo userebbe, è questa la connessione che a te mancava, per cui una parola per essere utilizzabile deve essere un significato, al di là del fatto che questo significato sia pienamente conosciuto oppure no, ma deve avere un significato per il parlante perché se no non la può utilizzare in nessun modo. Se una persona all’interno di un discorso inserisce una parola di cui ignora propriamente il significato, perché lui la possa usare deve pensare che abbia un significato, e deve anche immaginare di saperlo in qualche modo anche se poi messo alla prova dei fatti non lo sa, non lo sa dire in modo preciso, cioè come lo direbbe un dizionario, quante persone sanno definire una cosa esattamente, o meglio ancora di un dizionario? Ma questo non impedisce di parlare né di pensare. Perché ciò che stai dicendo abbia un significato quindi, torniamo alla questione, ogni volta che si parla ciascun termine che interviene, se interviene nel discorso, è perché è utilizzabile, e cosa vuol dire che è utilizzabile? Che ha un rinvio, anche se per la persona non è così a portata di mano questo rinvio, ma deve averlo comunque…

Intervento: quindi è il rinvio ambiguo non il significato…

Il significato è un rinvio, l’ambiguità interviene nel momento in cui il significato della proposizione è prodotto dalle connessione con altre proposizioni, altri discorsi, altri elementi mentre il significato di un termine è connesso con una definizione, possiamo anche chiamare quella definizione un discorso, una proposizione, ma è univoco generalmente. Il significato di una parola è comunemente il primo significato che porta il dizionario, ed è quello che serve per usare correttamente una parola, è chiaro che una parola in un dizionario ha tanti significati, facevo l’esempio tempo fa del latino la parola “fero”, il cui significato è “portare”, però se controllate su un buon dizionario di latino trovate due pagine fitte di significati, però sono tutti significati che comunque derivano in buona parte, non sempre, ma in buona parte dal primo significato, quello che si usa per costruire altri significati, per spostamento, per condensazione, per infinite altre cose attraverso metaplasmi, metalessi, metasememi, perché si usa quello? Per uso, per abitudine, per addestramento, se una parola per essere usata deve avere un riferimento che sia quello; occorre stabilire che una certa parola significa una certa cosa, il suo uso è quello, poi lo si può modificare, ampliare fare tutto quello che si vuole, però per poterla utilizzare deve essere definita e la parola è la sua definizione, non è nient’altro che quello o come direbbe Wittgenstein è il modo in cui la si usa, che può essere vario e variegato, ma per poterla usare deve avere un rinvio da cui è possibile trarre tutti gli altri. La questione è che pur avendo la parola un significato che possiamo considerare il primo che si trova nella lista dei significati forniti da un dizionario, che non è nient’altro che il rinvio più comune, più corrente, non c’è un altro motivo, quello che deriva per esempio nella parola italiana dalla parola latina, ecco dicevo con il significato in realtà è possibile fare infinite cose. Prendiamo il significato referenziale, generalmente nelle teorie semantiche con significato referenziale si intende, come abbiamo detto infinite volte, ciò che una parola denota, questo “ciò” è riferito a una cosa, un oggetto reale, come mai si è considerata una cosa del genere? Perché si considera che la realtà sia ciò che determina il significato delle cose, ma è sostenibile una cosa del genere? Certo che lo è, si parte dalla percezione: gli umani sono provvisti di una percezione sensoriale, i cinque sensi in genere, ora la percezione è in condizione di distinguere, io percepisco una forma, percepisco un colore che mi consentono di differenziare ciò che percepisco, vedo che questa cosa ha un colore, questa ne ha un altro, forme diverse. Tutte queste varie forme che io distinguo, perché la mia percezione lo consente, a ciascuna di queste forme io posso attribuire un nome, come talvolta dicono i filosofi analitici “battezzare”, battezzo di volta in volta queste forme differenti che la mia percezione ha reperite e a questo punto incomincio ad avere elementi linguistici che sono i nomi che ho fornito alle cose, e questi nomi incominciano a essere molti e incominciano a connettersi fra loro producendo quelle cose che chiamiamo “concetti”. Però perché tutto ciò possa accadere è necessario che la mia percezione percepisca gli oggetti e percependoli li differenzi, questo comporta che perché il linguaggio possa darsi, cioè faccia quello che fa, è necessario che ci sia la realtà cioè è necessario che ci siano gli oggetti che la mia percezione è in condizione di percepire, di distinguere, distinguendoli nominarli e quindi avviare quel linguaggio così come noi lo conosciamo, e questo ci mostra che il linguaggio non può darsi in assenza di realtà, dico bene Eleonora? E adesso come la mettiamo? È esattamente il contrario di quello che sosteniamo da decenni a questa parte, che facciamo? Confuta questa cosa, se non la confuterai rimarrà valida questa affermazione e questa affermazione ci porta a considerare che l’ontologia è necessaria al funzionamento del linguaggio, all’esistenza del linguaggio, per cui dovrai cambiare la tua tesi in “ontologia del linguaggio”, a meno che tu non confuti quello che ho detto, se no rimane. Qualcuno saprebbe confutare questa tesi?

Intervento: abbiamo buttato via vent’anni?

C’è questo rischio, se nessuno sa confutare questa tesi allora rimane quello che ho affermato, e cioè che perché il linguaggio possa esistere occorre che esista una realtà, senza questa realtà non c’è nessuna percezione e se non c’è nessuna percezione non posso nominare niente, sarebbe come un linguaggio sospeso nel nulla, nel vuoto assoluto, non è linguaggio perché non ha nulla di cui dire.

Costruiamo una confutazione partendo da percipiens et perceptum:

 

Percipiens. Critica della metafisica (quo sit)

 

Devo sapere che sto percependo qualcosa. Se non so di percepire, posso parlare di percezione? Ma se so di percepire, da dove viene questo sapere? Abbiamo postulato che siano per prime le cose, poi la percezione, e infine il linguaggio. Ma perché ci sia sapere occorre il linguaggio, e cioè la possibilità di stabilire ciò che è vero e ciò che non lo è, ciò che accolgo e ciò che ricuso. Ma se occorre il linguaggio per sapere di percepire qualcosa, e dunque per percepire, allora la percezione segue al linguaggio. Se la percezione segue al linguaggio, la percezione non è “pura”, ma è vincolata alla struttura e al funzionamento del linguaggio. Dunque, qualunque cosa percepisca, la percezione è vincolata al linguaggio, cioè segue al linguaggio. Pertanto la realtà segue al linguaggio.

 

Perceptum. Critica dell’ontologia (quod sit)

 

Ho modo di sapere che cos’è ciò che percepisco? Se sì, con che cosa? Quando “battezzo” (nomino per la prima volta) un oggetto, non so che cosa sia, per saperlo devo utilizzare dei concetti che ho tratti da altri oggetti, oggetti che sono stati a loro volta “battezzati” ma che ancora non so che cosa siano. Non so che cosa percepisco, e per saperlo devo utilizzare altre cose che procedono da altre cose che non so che cosa siano, e così via all’infinito. Occorre che sappia che cos’è almeno una cosa, sulla quale impiantare un sapere, ma questa cosa, qualunque essa sia, non è conoscibile se non attraverso altre cose, le quali cose non ho modo di sapere che cosa siano. Dunque non ho modo di sapere che cosa sia la realtà.