11 novembre 2020
L’attualismo di G. Gentile
Riprendiamo la lettura del Sistema della logica di Gentile. siamo al Capitolo III Il problema della logica nella filosofia moderna, paragrafo 5, Il problema della certezza e la riforma della logica in Bacone e in Cartesio, dove si interroga sulla questione della certezza. Il Nuovo Organo di Bacone abbozza il disegno di una logica, che è una nuova filosofia; per cui il sapere non è fatto, ma da fare; non ci sono premesse da svolgere, ma un’instauratio ab imis (tr.it. un incominciare dall’inizio) da promuovere. E promuovere si può soltanto abbandonando la vecchia logica inutilis ad inventionem scientiarum, e il suo sillogismo che assensum costringit, non res (porta al consenso, non alla cosa); e affidandosi all’esperienza, cioè alla cognizione immediata del senso, in cui l’oggetto non è un presupposto, ma quello che consta al soggetto: un momento della vita stessa del soggetto. Cioè: ciò che appare al soggetto, ciò che in quel momento il soggetto sta considerando. La certezza è il problema filosofico cartesiano: risoluto col cogito, ergo sum, che non è un’argomentazione sillogistica, ma la costruzione di un concetto del reale, ignoto a tutta la filosofia antica: del concetto di quell’essere che il pensiero realizza realizzando se stesso: cioè della realtà come coscienza di sé. Gentile qui ci dice che il cogito ergo sum non è un’argomentazione sillogistica. Che è anche vero, anche se non possiamo non considerare che procede da un sillogismo, non viene dal nulla. Non quindi quel pensiero del pensiero che, s’è già veduto, la realtà fu già per Aristotele (poiché il pensiero del pensiero restava pur sempre oggetto di mera speculazione, antecedente del pensiero in atto del filosofo);… Nella teoria di Gentile, sarebbe il pensiero pensato anziché il pensiero pensante. …ma il pensiero stesso che cerca l’essere e, intanto che lo cerca, lo realizza. Non intelletto, dunque, spettatore della sua realtà; ma volontà piuttosto, creatrice di quanto per lei è reale. Anche il Descartes osserva che “i dialettici non possono formare nessun sillogismo che concluda il vero, senza averne avuto anticipatamente la materia, cioè senza aver conosciuto innanzi la verità che questo sillogismo sviluppa”. Sta dicendo, in altri termini, che per conoscere il vero, cioè per giungere alla conoscenza del vero, occorre già sapere il vero. Adesso vedremo meglio. La logica corrisponde sempre all’intuizione filosofica. La filosofia dello spirito che presuppone l’oggetto, ha la sua forma nella logica del sillogismo; la filosofia dello spirito che invece pone il suo oggetto, comincia dal negare il sillogismo e tutta la logica fondata sul concetto della precedenza del sapere al conoscere. Come fa Hegel. Paragrafo 6. Empirismo e idealismo nel Sei e nel Settecento. Hume, d’altro canto, messa da parte come affatto sterile e tautologica ogni conoscenza analitica, dimostra che se la conoscenza è empirica, ove l’esperienza s’intendesse quasi commercio del soggetto con una natura opposta e sorgente d’ogni elemento della esperienza, la conoscenza sintetica non avrebbe giustificazione di sorta, e tutta la scienza si ridurrebbe a un fatto privo di valore, convalidabile soltanto con un atto di fede. Paragrafo 7, Nuovi bisogni dello spirito. Per tutte queste vie le menti, urgendo da ogni parte i bisogni attuali dello spirito conscio del proprio valore e del proprio diritto, sono spinte verso il concetto di una filosofia radicalmente opposta all’antica, tradizionale e mai del tutto spenta nelle scuole. Si ricordino cotesti bisogni, brevemente. La formazione della scienza moderna era un fatto vivo, a cui partecipavano e s’interessavano perciò personalmente tutti i grandi pensatori: Galileo, Bacone, Cartesio, Spinoza, Leibniz appartengono, con tati altri nomi dei più illustri, così alla storia della filosofia come a quella della scienza moderna. Scienza nuova, e ogni giorno in pieno svolgimento. Veritas filia temporis, ripete Bacone; l’aveva detto Bruno, lo dice Galileo, lo ripete Pascal; lo sentono tutti. Non ci sono testi, da cui apprendere la verità della scienza: essa è frutto della mente in progresso. Qual è il valore di questa mente? Non Dio con la rivelazione, e tanto meno Aristotele con la sua veneranda antichità e miracolosa onniscienza possono più garantire il possesso del vero. Al risveglio tumultuoso dello spirito religioso della Protesta son seguite le guerre di religione; e se la pace di Vestfalia pone termine ad esse nei paesi tedeschi, il fermento e la lotta, più o meno dura, continuano in tutti i paesi (Italia, Inghilterra, Francia, Olanda) dove più vigoroso è l’impulso del pensiero. Le dottrine di libertà e di tolleranza, la scuola del diritto naturale sono proteste e compromessi, quasi tentativi di dividere quel che è unito, poiché non si riesce a risolvere l’intero contrasto da cui la realtà spirituale, come organizzazione, disciplina, vita comune e universale da una parte, ma individualità e persona libera e padrona di sé, dall’altra, è travagliata. Si sono organizzati i grandi Stati con la pacificazione e alleanza degl’interessi feudali e chiericali, ma nel loro seno s’è venuta formando una borghesia, che non potrà a lungo restar compressa dentro le vecchie forme politiche; e gli animi sentono già l’intollerabilità di uno Stato che non è la loro volontà, ma il limite piuttosto e l’antitesi di questa. E da ogni parte scrittori, pedagogisti e politici attaccano i sistemi e chiedono una riforma (finché non scoppi essa nella Rivoluzione), la quale riedifichi la società su altre basi, facendo l’uomo libero da ogni giogo di autorità non derivanti dal suo stesso sviluppo spontaneo e razionale. Vi ho letto questa paginetta perché è interessante la considerazione di Gentile intorno alla storia del pensiero di questi ultimi secoli; anche se, come sappiamo, la rivoluzione tende a riprodurre esattamente ciò che distrugge, anche perché ciò che distrugge è, di fatto, l’unica cosa che conosce e, quindi, tende a ripeterla. Paragrafo 9. Residui intellettualistici nell’idealismo kantiano. Sta parlando di Kant. Ma con la sua filosofia si pone in termini esatti il problema cristiano o moderno: di concepire la realtà non come il limite dello spirito, anzi come lo stesso spirito, che per essere reale deve avere tutto dentro se stesso; poiché la sua natura è tale da non consentire compagnia e divisione di dominio. Qui si pone la questione, che abbiamo già visto in varie occasioni, e cioè lo spirito come il tutto: l’atto di parola è il tutto, ha in sé tutto ciò che occorre al parlante. Come dire ancora, il parlante non manca di nulla. Paragrafo 10. Il problema della logica come scienza del conoscere dopo Kant. Alla logica del conosciuto si vuol sostituire la logica del conoscere. Qui è evidente la priorità dell’atto sull’agito. La logica del conoscere è una logica che è in atto, mentre la logica del conosciuto è una logica che suppone di lavorare su qualcosa di già dato. Sulla questione del dato tornerà tra poco. Paragrafo 11. Concetto della nuova logica filosofica. E la conclusione intanto vuol essere, che una logica, degna di questo nome, si può costruire, sul terreno di una filosofia il cui oggetto non è l’opposto dello spirito filosofante, sì questo spirito stesso. In effetti, conferma quello che diceva prima, cioè una filosofia che, per essere degna di questo nome, deve essere qualche cosa che lavora su ciò che sta facendo, sul suo stesso fare, anziché immaginando di lavorare su qualcosa di fatto. Passiamo alla Parte Prima, Il logo o la verità. Capitolo I, La verità trascendente. Sono ancora questioni che Gentile si sta ponendo intorno alla logica, alla verità, naturalmente, visto che la logica si presuppone che sia uno strumento di conoscenza della verità. Paragrafo 1. Origine storica e ideale della logica. La verità come pensiero necessario. La scienza della logica è sorta con la distinzione di pensiero vero e pensiero falso: o, più precisamente, quando si cominciò a distinguere il pensiero come fatto dal pensiero che ha un valore. Questa è la questione da cui parte Gentile: la logica sorge nel momento in cui ci si accorge che il proprio pensiero ha un valore e, quindi, può essere utilizzato per stabilire che cosa seguire e che cosa no, in quale direzione andare e in quale no. Paragrafo 2. La verità come pensiero universale. Fa una breve disamina delle teorie che l’hanno preceduto. È una cosa che non abbiamo mai fatto propriamente. Il modo in cui noi procediamo non è quello di esaminare ciò che ci ha preceduto per dire altro, ma di muovere direttamente da altro, cioè muovere direttamente dal pensiero stesso. In questo siamo sempre stati molto “gentiliani”; ci ha sempre interessato molto di più l’atto del farsi di un pensiero piuttosto che considerare gli atti di pensiero passati. Ma dire necessità del pensiero è lo stesso che dire universalità… Dire che il pensiero è necessario vuol dire che è universale, che non può non essere che così com’è. …perché la necessità si dimostra nella esclusione della possibilità che altri soggetti, o lo stesso soggetto in circostanze diverse (onde verrebbe a essere diverso da sé, e quindi un altro soggetto) pensino altrimenti. Si dimostra quindi nella esclusione della possibilità che il soggetto, in quanto soggetto d’un dato pensiero, funzioni da soggetto particolare. Si considera, quindi, il soggetto nella sua universalità e non un soggetto particolare, perché non è possibile da un soggetto particolare trarre una considerazione che debba essere universale. E a questa universalità del vero, già molto prima di Platone, aveva penato Eraclito, che oppone la conoscenza individuale (ίδία φρόνησις) al logo che è comune (ςυνόν), come Parmenide aveva insistito con insuperabile energia sul concetto della necessità. Il logo è il solo pensiero a cui guardi la logica: pensiero, dunque, vero necessariamente e universalmente; o vero senz’altro, nel senso più proprio della parola. Quindi, ciò che necessariamente è vero. Adesso vedremo come Gentile affronta la questione, ma, come sappiamo, l’unica cosa di cui possiamo dire che è necessariamente vera è che stiamo parlando. Il fatto è che non possiamo in nessun modo negare questo: possiamo negare che parliamo? Quindi, se con verità dobbiamo intendere qualcosa di universale, qualcosa che non può non essere, l’unica cosa che non può non essere, e cioè il fatto che sto pensando, p. es., la verità. Questa è la verità, non la verità in qualche modo reperita, trovata, determinata; la verità consiste nel fatto che sto pensando la verità o, in modo più generale, consiste nel fatto che sto pensando ciò che sto pensando: questa è la verità. È chiaro che questo concetto non è utilizzabile dalla metafisica, perché in questo modo la verità non porta a prendere decisioni sul da farsi, ma unicamente a considerare ciò che si sta facendo in atto. Paragrafo 4. Necessità della differenza e della identità dei due loghi. Comunque, il pensiero soggettivo nella sua opposizione al logo assoluto non è vero, non si distingue dal falso, e non può esser materia della logica: la quale ha per oggetto soltanto il pensiero come unità di pensiero soggettivo e oggettivo, e, come tale, vero. Paragrafo 6. Verità formale e materiale. Né più giustificata è la tradizionale distinzione tra verità materiale e verità formale del pensiero, intendendo per materiale la verità del pensiero conforme all’essere o logo obbiettivo, e per formale la verità di un pensiero in sé, congruente e coerente nelle sue varie parti, astrazion fatta da ogni ragguaglio con l’essere. È ciò che fa anche la logica moderna, distinguendo tra validità e correttezza: la validità è la validità formale, la correttezza è la validità formale più la correttezza semantica, cioè l’adæquatio rei et intellectus. Andiamo al paragrafo 11. Sopravvivenza del concetto antico della verità trascendente nella filosofia moderna immanentistica. Questa è una delle questioni affrontate rispetto alla verità: la verità come prodotto dell’intuito: qualcuno intuisce la verità. Ma come fa? L’intuito può dirsi il primo corollario gnoseologico dell’astratto concetto della verità concepita trascendente al pensiero: poiché, se la verità è tutta di là del pensiero, ne segue immediatamente che vera cognizione potrà essere soltanto quella in cui non intervenga attività di sorta del soggetto, e questo piuttosto sia fatto soggetto dalla presenza (automatica evidenza) dell’oggetto. Questa è la prima obiezione, cominciando a considerare le due posizioni, l’una che considera la verità come trascendente e l’altra come immanente. Poi, vedremo come di fatto siano due momenti dello stesso, ma l’obiezione qui è precisa: se la verità è trascendente al pensiero, è chiaro che il soggetto non può in nessun modo intervenire rispetto alla verità ma la subisce. Tale la concezione del conoscere in Platone e in tutta la sua scuola. Tale pure la concezione del conoscere in Aristotele, che fa dell’anima, prima della sensazione, una tabula rasa; e quando essa abbia raccolto come anima sensitiva tutto il materiale della conoscenza, ne fa una semplice potenza di conoscere che ha bisogno, come s’è ricordato, dell’accessione estrinseca dell’eterno intelletto per conoscere in atto. E tutto l’innatismo o razionalismo, da una parte, come tutto l’empirismo, dall’altra, che dopo Platone e Aristotele per venti secoli si contrastano il campo, muovono sempre, con temperamenti talvolta, ma insufficienti a scalzare alla base il concetto della trascendenza della verità, da questa idea di un conoscere, in cui non solo la prima parte, ma il tutto spetti all’oggetto, e il pensiero non sia se non passività e contemplazione affatto inoperosa. È il soggetto che subisce la verità, che non può che contemplarla. Poi, da qui il cristianesimo con l’idea del paradiso, la contemplazione di Dio, ecc. Paragrafo 12. Assurdo di tale concetto. Tale concetto della verità, è agevole argomentarlo da tutto ciò che abbiamo premesso intorno alla sua genesi ideale, è assurdo. E con la sua impensabilità esso è stato uno dei fermenti del pensiero speculativo; una voglio dire, delle cause più efficaci del suo svolgimento storico. La teoria dell’intuito invocata a garantire l’oggettività (necessità, universalità) del pensiero, cioè la sua verità, pare, a primo aspetto, riesca all’intento: ma la verità che esso può garantire, rimane un nome vano. Giacché la verità che si cerca è quella del pensiero; e il pensiero nell’intuito non c’è più. L’intuito è completamente assorbito dall’oggetto. Il pensiero, che si concepisce come intuito, per affisarsi tutto nel proprio oggetto, fa astrazione da se stesso, e cioè sopprime se stesso sopprimendo anche l’oggetto, termine del suo affisarsi. Questo è interessante perché l’assurdità qui sta nel fatto che il soggetto dovrebbe scomparire, ma, scomparendo il soggetto, scompare anche l’oggetto, ovviamente. Certo, lo sopprimerebbe, se riuscisse infatti a sopprimere se stesso, facendo astrazione da quell’attività con cui pone sé e l’oggetto, l’uno di fronte all’altro sena termine medio. Dove, senza che ne abbia coscienza riflessa, il vero oggetto non è il contenuto dell’intuito (di un intuito irrealizzabile), ma questo rapporto in cui si fa consistere l’intuito; rapporto tra due termini, pensati entrambi dall’attuale soggetto, mercé un laborioso processo dottrinale, che non è davvero niente d’immediato, anzi una faticosa filosofia (non sofia!) del pensatore che parla di questo intuito. L’intuito sarebbe qualcosa che arriva, come direbbe Hegel, come un colpo di pistola. Però, questo colpo di pistola è stato preparato da una notevole quantità di cose. Insomma, per giungere all’intuizione c’è un lavoro filosofico non indifferente; quindi, l’intuito, di per sé, non c’è da nessuna parte. Capitolo II, La verità immanente. Abbiamo visto la verità trascendente; ora, considera la verità immanente, cioè l’idea che possa esistere una verità immanente nella cosa. Paragrafo 1. Conciliazione della trascendenza del vero con l’attività dello spirito. L’assurdo della verità trascendente porta il pensiero al concetto opposto della verità immanente, quando non lo abbandoni nello scetticismo; che però non può essere mai se non dubbio che spinga di collo in collo, come dice Dante: cioè principio di nuovo filosofare positivo. Ma la verità immanente a gran fatica si libera dalle spire della filosofia che avvolge il pensiero e lo affligge e stringe a quell’ideale inattingibile d’una verità estrasoggettiva. Ci sta dicendo che la verità immanente comunque è debitrice dell’idea della verità trascendente. Paragrafo 3. Difficoltà di questa nuova posizione. Questo tentativo immanentistico conserva tuttavia i difetti della concezione della trascendenza assoluta, perché, chi ben guardi, l rivendicazione che esso fa dell’energia del soggetto, è solo apparente. … Il dato, per proteste che si facciano di non volerlo trascendere, e di considerarlo piuttosto come il principio (principio d’una conoscenza puramente fenomenica, come dice l’empirista)… L’empirista dice: io vedo soltanto il fenomeno e mi attengo a quello. …per industria che si ponga (p. es., in Descartes) a immedesimarlo con lo stesso intelletto, rimane sempre un dato, che suppone il dante, un’attività esterna al soggetto. Quindi, l’idea di una verità immanente, che vorrebbe attenersi al dato, non tiene conto del fatto che se c’è il dato c’è un dante: il participio passato prevede il participio presente. D’altra parte, qual è il motivo che spinge l’empirismo moderno… Quello che, usando i termini di Gentile, vorrebbe affisarsi al dato. …ad opporsi al dommatismo della dottrina delle idee innate e d’ogni cognizione a priori, se non il concetto che l’attività spirituale, per sé, è un’attività vuota, e che tutto il suo contenuto debba pervenire a lei dall’esterno mediante la sensazione? Appunto, l’idea che debba venire dal dato. Noi non conosceremo il come e il quale di quest’essere esterno, che limita lo spirito e lo governa (benché, una volta concepitolo come esterno, abbiamo con ciò determinato la qualità sua, perché, negato lo spirito, non resta che la molteplicità della materia spaziale);… sta dicendo che , sì, io lo posso considerare come esterno, ma nel momento in cui lo considero non è già più esterno. Potremmo dire che è già un atto di parola. …ma ne sapremo bene il che: poiché sapremo che senza di esso non sorgerebbe in eterno in sensazione. Cioè: sappiamo che è qualcosa, non sappiamo che cosa ma sappiamo che è qualcosa. E allora abbiamo, come a dire, due principii (o verità) al nostro conoscere: un primo principio che sarà il dato; e un secondo principio, a cui si appoggia il primo, e che sarà il dante. Il dante, cioè ciò che fornisce al dato la sua daticità. Il quale sarà poi il vero e assoluto principio, senza del quale cadrebbe tutta la verità del conoscere. Perché se c’è un dato, questo dato lo ha dato qualcosa, qualcuno, e pertanto c’è un dante. E chi proverà questo secondo principio, radice del primo? Si argomenterà dall’intelletto? Ma se l’intelletto ha la sua base legittima nel primo principio, prescindendo dal quale esso cade nel vuoto! Ecco il dommatismo della verità trascendente, che risorge insieme col suo assurdo insanabile. Il dante è ciò che trascenderebbe il dato, ciò che rende il dato il dato. Per riprendere un’analogia che facciamo spesso con de Saussure: il dato sarebbe il significante, ciò che è dato, che è qui adesso, l’immanente; il dante sarebbe il significato, ciò che rende un significante significante. Ancora. Il dato non è l’attività elaboratrice del dato: l’intuito, per usare il linguaggio giobertiano, non è la riflessione. L’intuito è tutto, e la riflessione deve adeguarsi all’intuito. Ma, posta la dualità, hic Rhodus, hic salta… È un modo latino per dire “dimostra quello che stai dicendo, qui e adesso”. …o si resta nella dualità, e non c’è intuito per la riflessione, e non c’è conoscenza,… Dualità tra il dato e il dante. Se io rimango in questa dualità, è chiaro che il dato ha un risvolto trascendente. Quindi, non posso conoscerlo in quanto tale se non conoscendo anche il dante. …perché questa è la riflessione sull’oggetto intuito; o si abolisce la dualità, risolvendo affatto la riflessione nell’intuito; e rimane il solo intuito, senza riflessione; verrà calata bensì, miracolosamente, dentro il soggetto, ma giacente qui, inafferrabile alla coscienza, ossia riproducente in questo spirito, così fantasticamente concepito, la stessa posizione di dianzi tra lo spirito e il suo opposto, la quale rende impossibile lo spirito: e quello che nel seno dello spirito rimarrebbe a rappresentare la funzione veramente spirituale, vien soffocato dall’oggettività del vero, contenuto dell’intuito. Per dirla brevemente, l’intuito dovrebbe bloccare il dato nell’immediato senza il dante. Letteralmente immediato, in quanto non mediato da altro. Chiaramente, in questo modo elimina lo spirito, cioè elimina la stessa possibilità di conoscerlo. Paragrafo 6. Lo scoglio dell’immanentismo. Ormai è chiaro che: 1° una verità trascendente il soggetto non è verità o realtà conoscibile… Se la verità è trascendente, sarà sempre spostata, sarà sempre altrove, e, quindi, non è conoscibile. …2° né è verità una verità immanente al soggetto, ma trascendente l’atto al soggetto conoscente;… Cioè: una verità che sarebbe nel soggetto ma trascendente l’atto del soggetto conoscente, cioè, è nel soggetto, ma il soggetto non la può utilizzare. …3° né è verità una verità immanente al soggetto stesso come conoscere, ma trascendente l’attualità di questo conoscere in una concezione naturalistica del pensiero. La sola verità che noi possiamo abbracciare e legare con ferrea catena, secondo il legittimo desiderio di Platone e l’eterno bisogno dell’uomo, è quella che nasce e si sviluppa col soggetto, in quanto conoscere in atto. Perché appunto diceva nel terzo punto: trascendente l’attualità di questo conoscere. Come può trascendere l’attualità di questo conoscere? In effetti, se potesse farlo si porrebbe fuori del conoscere e, quindi, non è più un conoscere. Ma qui la verità, come dicevo prima, si pone come qualcosa di più fine. Sì, certo, è una relazione, come diceva già Hegel, ma qui Gentile aggiunge una cosa in più, e cioè che la verità è il fatto stesso di pensare la verità, è il mio pensare la verità, è il mio essere in atto nel pensiero che pensa la verità. Questa è la verità, una verità non utilizzabile dalla metafisica, in quanto non fornisce criteri decisionali, ma consente al parlante di accorgersi che l’unica certezza, sulla quale può fare conto, è che è nel linguaggio, cioè, ciascuna cosa che accade è nel linguaggio. Naturalmente, a questo punto occorrerebbe, come abbiamo fatto, un’analisi approfondita sul modo in cui funziona e accade il linguaggio. Paragrafo 8. Il principio della teoria volontaristica della verità. …data l’immediatezza dell’essere, data l’immediatezza dell’intuito intellettuale, dato che la verità è già in noi senza l’opera nostra, come spiegarsi l’errore? Questa è la domanda che ci si poneva nei secoli addietro rispetto alla verità immanente: se la verità è già tutta in noi, come è possibile che ci sbagliamo? In effetti, non ha tutti i torti se si pensa che se consideriamo come verità il fatto che stiamo pensando alla verità, non ci sbagliamo, non c’è nessuna possibilità di errore nell’affermare che sto pensando ciò che sto pensando. Gli errori dipendono, dice Cartesio, “dal concorso di due cause, cioè, dalla potenza d conoscere che è in me, e dalla potenza di scegliere, e del mio libero arbitrio: cioè del mio intelletto e della mia volontà. Giacché, con l’intelletto solo io on affermo né nego alcuna cosa, ma concepisco solamente le idee delle cose, che posso affermare o negare”. Quindi, l’errore è dato dal fatto che concepisco soltanto le idee delle cose – qui è molto platonico – ma non le cose stesse. Soltanto quando concepisco, penso la cosa stessa, allora non posso sbagliarmi. Nel pensiero di Cartesio l’unico pensiero che non può sbagliarsi è il cogito ergo sum, naturalmente. Non si potrebbe esprimere meglio l’astrattezza della verità come posizione intellettuale immediata (oggetto d’un vedere); e la concretezza e la vita che essa acquista nell’atto libero della volontà che la fa sua, aumentando il proprio essere soggettivo, cioè ponendo, a rigore, se stessa come quella tale volontà affermatrice e valutatrice. Il sottomettersi alla verità non dipende dall’esserci la verità; bensì dal riconoscerla che fa il soggetto come tale; riconoscimento, prima del quale la verità può essere intuita, ma senza essere dell’intuente, cioè senza potersi dire tuttavia in relazione col soggetto, per cui dev’essere verità. Di qui parrebbe che la verità non astratta, come è possibile, ma concreta, come quella che essa è sempre, in quanto è legata all’animo nostro e lega l’animo nostro, fosse creta dalla volontà nell’atto di creare se stessa. Qui vediamo che c’è una prossimità con il pensiero di Gentile, cioè: io creo la verità nel momento in cui incomincio a parlare; incominciando a parlare, pongo la verità nel mio incominciare a parlare. Paragrafo 9. Veritas adæquatio voluntatis et intellectus. Ma la dottrina volontaristica della verità (adæquatio voluntatis et intellectus) incorre nel duplice difetto della teoria della verità come adaequatio intellectus et intellectus… Cioè, l’adeguamento dell’intelletto a se stesso. …e non riesce a fondare il giustissimo principio, a cui accenna, dell’unità di libertà e di verità. In essa infatti perdura l’astrattezza (bisogna dir così) del concetto originario della volontà, quale si trova, p. es. in Paolo Tarsense, per cui lo spirito (come volontà) dovrebbe essere tutto. Si pone infatti questa grande esigenza; ma lo spirito ha di contro di sé il suo limite, la natura, la carne, il peccato: che sono, non prodotto dello spirito, ma suo limite o antecedente, rispetto al quale esso è perciò, non volontà (spirito produttore del suo mondo), ma intelletto (spirito spettatore passivo del suo mondo). Ora, la volontà che sia soltanto volontà, lasciando fuori di sé e accanto a sé l’intelletto, non può essere vera volontà: tale essendo la natura prepotente dello spirito, di dover essere tutto o nulla, assolutamente. Aut Caesar aut nihil. La volontà è volontà se libera, e però creatrice del suo essere; ma, se è con l’intelletto, vuol dire che oltre l’essere che è veramente suo perché da lei posto, ce n’è un altro, termine dell’intelletto; e quest’altro la limiterà, e ne renderà quindi impossibile la libertà. Dal domma del peccato deriva di necessità, come avremo occasione di ricordare, quello della grazia. Porre la verità come libertà potrebbe essere un concetto interessante. Certo, ha queste limitazioni, che se si pensa in modo religioso tutto questo non funziona più, ma la libertà, in effetti, è la libertà del linguaggio: è il linguaggio che crea, che produce, che pone in essere le cose, e, ponendo in essere le cose, fa esistere l’essere. È questa la questione, che è già presente in Hegel: dicendo qualche cosa, io pongo questo qualche cosa che ha di contro il suo opponente, e quindi dicendo qualche cosa faccio esistere, creo letteralmente l’opponente; quindi, ho creato qualcosa che prima non c’era. Però bisogna sempre tenere conto che questo dire, che prima non c’era, è problematico, perché questo che sto dicendo non sarebbe mai potuto esistere senza l’opponente. Non è che viene prima, ma vengono entrambi simultaneamente, non c’è un prima e un dopo, ma c’è un dire che dicendosi si apre, si altera, ponendosi dilegua in altro, in un altro che è se stesso. Paragrafo 10. Critica del volontarismo. Così la dottrina dell’adæquatio voluntatis et intellectus si fonda, come abbiamo detto, sull’opposizione tra volontà e intelletto: quella infinita e libera, avverte Cartesio, questo finito e determinato. Ora, l’opposizione tra intelletto e volontà. La quale è invocata a celebrare un atto di libertà, per cui la verità riesca tutta cosa del soggetto,… La verità deve essere un affare del soggetto, è il soggetto che la produce. …valore della sua personalità; ma è messa in condizione di non potere esercitare nessuna libertà, e perché, come facoltà distinta dall’intelletto, si potrà forse pensare che agisca, ma non potrà mai prendere cognizione di quel che è già conosciuto dall’intelletto;… Può agire ma non sapere cosa sta succedendo. …e potrà quindi spiegare un’azione ragguagliabile a un puro fatto naturale, ma non un giudizio, quale dovrebbe essere l’adesione o scelta; e perché, presupponendo, ancorché astratta e non sua, una verità, quando pur la vedesse, non potrebbe non essere condizionata da essa, e per essa quindi privata della propria libertà. Questo è il problema: o il linguaggio e la libertà sono la stessa cosa, in quanto il linguaggio non ha limiti; oppure, si pone un problema se si considera la questione come fuori del linguaggio, perché a questo punto sorgono i problemi che qui Gentile ci sta elencando, e cioè la questione dell’intelletto e della libertà. Se io oppongo alla libertà, cioè al linguaggio, un intelletto che sia fuori del linguaggio, che si opponga al linguaggio, è chiaro che questo intelletto costituirà, da una parte, il limite della libertà, perché è lui che mi consente di conoscere le cose; dall’altra, il limite, in quanto è qualche cosa che la libertà non può oltrepassare, cioè si ferma dove incomincia l’intelletto. Quindi, a proposito della verità, come immanente e trascendente, a questo punto potremmo dire che la verità deve necessariamente essere queste due cose simultaneamente: essere immanente, cioè essere il dato, ed essere trascendente, cioè essere il dante. Questo perché, come Gentile ci ha mostrato bene, non è possibile immaginare o pensare se non nella simultaneità di questi due momenti, il dato e il dante. Se c’è un dato allora c’è qualcosa che lo ha fornito, che lo ha prodotto; il dato, come ci diceva, non arriva per intuito, come il colpo di pistola, ma è il risultato di una serie di mediazioni, senza le quali non c’è nessun dato. E questo è l’effetto dell’essere il dato un elemento linguistico, e cioè è il risultato, non di ciò che vedo, non del fenomeno che mi appare così magicamente, ma è il risultato di una serie di inferenze, di una serie di sillogismi che, per quanto formali siano, ha il dato come risultato. Il Capitolo III si intitola La verità come certezza e valore. È interessante perché la verità come certezza è anche verità come valore, cioè vale ciò che è certo. Ma vale per che cosa? Vale per la volontà di potenza.