11-11-2015
Ricordate che Heidegger riprendendo Husserl parlava della verità come un riempimento di senso, una rappresentazione di per sé non significa niente finché non viene riempita con il senso. Per Husserl questo riempimento avveniva attraverso la visione, il vedere che riempiva di senso l’enunciazione che dice qualcosa, mostra qualcosa, però se lo mostra solo a parole non è la stessa cosa che mostrarlo, come ci direbbe Husserl, in carne ed ossa, quindi c’è un’enunciazione e c’è un riempimento di senso. Questa cosa non vi ricorda il segno in De Saussure? Il significante e il significato, l’enunciazione, il significante e il significato cioè il suo riempimento, il significante senza il significato è vuoto appunto letteralmente “non significa niente”. Tutta la filosofia, la fenomenologia in particolare e poi l’esistenzialismo parzialmente, ha ripreso molte questioni elaborandole in termini che De Saussure stava elaborando in modo non direi più preciso ma sicuramente più semplice. È una questione che anche Sini ha rilevato, la questione dell’essere in Heidegger, l’ente e l’essere, l’ente è ciò che si manifesta, ciò che si ha sotto gli occhi, anche se non è solo un aggeggio può anche essere un pensiero, una qualunque cosa, un ricordo, un immagine, una sensazione, tutte queste cose sono enti cioè cose che sono. Questi enti, già nella filosofia antica, non hanno un essenza propriamente se non gliela fornisce qualcuno, questo qualcuno nella tradizione filosofica è l’Essere, cioè l’ente senza l’Essere è nulla. L’esempio dell’altra volta va in questo senso: il cavallo senza l’idea di un cavallo non dice niente, non è niente, occorre avere questa idea del cavallo che si ha di fronte, cioè c’è il cavallo e c’è un’idea che è quella che consente a te, in questo caso, Simona, di potere affermare che quel cavallo che hai di fronte è effettivamente un cavallo, cioè quello che è. Prova a pensare di vedere un cavallo senza avere assolutamente nessuna idea di che cos’è un cavallo, non sai che cosa vedi, non sai neanche se vedi qualcosa, cioè non c’è, non c’è perché non hai l’idea, questo è Platone ovviamente. Tutta la filosofia o almeno una buona parte della filosofia è andata in questa direzione e cioè nel, almeno la metafisica, l’ontologia in particolare, nel trovare un qualche cosa che consenta all’ente di essere quello che è. La metafisica si occupa di questo di stabilire come mai le cose sono quelle che sono, come mai tu sei tu anziché essere una qualunque altra cosa. Dunque ci troviamo in quella situazione che De Saussure ha risolta in modo brillante e, come dicevo prima, molto più semplice in effetti. Pensate all’Essere così come lo descrive Heidegger, e cioè come quell’apertura verso qualcosa che compare e consente all’ente di manifestarsi, detta così come l’ho detta, in effetti ricalca abbastanza la posizione di Platone, senza questa idea del cavallo io non vedo il cavallo, quindi l’Essere in Heidegger è ciò che riempie di senso l’ente, cioè fa dell’ente quello che è, lo entifica. L’innovazione di Heidegger è stata per alcuni aspetti fondamentale: l’Essere non è più né un’idea né un quid né un altro ente, perché se io dico che l’Essere è una certa cosa immediatamente lo pongo come un ente, ma l’Essere come un’apertura, qualcosa che rischiara e rischiarando disvela, è l’¡λήθεια. La verità lui la pone come gli antichi, appunto come il disvelamento, come qualcosa che cessa di essere velato, di essere nascosto, di essere coperto, di essere nell’ombra, nell’oscurità, cessa tutto questo e quindi appare. Per Heidegger è questo il significato, lui non dice questo ovviamente, sto facendo una connessione con De Saussure, ma il significato dell’ente, ciò che rende l’ente quello che è per Heidegger è questo Essere, ma per Heidegger l’Essere non è un ente, qualche cosa di fisso, di stabile, ma è un progetto. L’Essere per Heidegger è un progetto, tant’è che lui lo definisce come l’“esserci” Dasein, per indicare che ciascuno, quando si rapporta a qualche cosa, si rapporta sempre come un progetto che intende modificare le cose, intende fare qualche cosa, l’Essere non è un qualche cosa lì fermo fisso ma è un progetto, il tuo progetto per esempio di fare qualche cosa nei confronti di qualche cos’altro. In questo modo tutta l’ontologia viene modificata perché, sempre facendo questa connessione con De Saussure, l’Essere cioè il significato non è più un quid, un qualche cosa di determinato, ma il significato del significante sarebbe a questo punto ciò che io intendo fare dell’ente, questo è il significato: il modo in cui mi rapporto all’ente e il modo in cui mi rapporto all’ente per Heidegger è sempre un modo che tende a modificare questo ente, a farci qualche cosa, qualunque cosa sia è irrilevante. Questa posizione mostra che il lavoro di Heidegger e della fenomenologia in buona parte è stato riassunto da De Saussure come la necessità che perché un qualche cosa sia quello che è, cioè un significante sia un significante, occorre un significato: all’ente occorre l’essere. Era semplice, e la linguistica, la semiotica ci sono arrivate per un’altra via ma in modo molto più semplice. Dicevo che Heidegger pone l’essere come un progetto “progetto gettato”, quindi il significato, cioè l’essere, tenete sempre conto che questa connessione la sto facendo io, non la fa Heidegger mai da nessuna parte, questa connessione dunque tra l’essere e il significato porrebbe a questo punto il significato del significante come ciò che io intendo, il modo in cui intendo utilizzare il significante. Se è vero che Heidegger non ha mai detto una cosa del genere, tuttavia c’è un passo dove dice una cosa curiosa: Il “prendersi cura” inteso come questo e quel modo può moltiplicarsi in determinate effettuazioni quando l’ente che sottostà a un tale effettivo svolgimento già di per sé è prendersi cura (provate mentre leggo a tenere sempre presente questo sistema di De Saussure significante \ significato) l’avere a che fare “con”, l’essere in una “relazione di scambio con” non nascono in primo luogo dal fatto che io cominci ad avere a che fare con qualcosa giacché io posso cominciare ad avere a che fare con qualcosa solo se il mio esserci è già primariamente determinato come avente a-che-fare-prendentesi-cura (con i trattini come piaceva fare a lui per indicare che tutta questa frase va presa tutta assieme) l’esserci in quanto tale è prendentesi-cura è solo direzioni e gradi determinati di quel che “il-prendersi-cura” esprime e realizza sono formulabili (si potrebbe dire in modo molto rapido che non c’è significante senza significato, cioè che il prendersi cura del significante, cioè il suo significato, non è disgiunto non è una cosa che può farsi o non farsi, ma è già lì presente nel momento in cui compare il significante, cioè in questo caso l’ente) lo schietto prendere, avere qualcosa nell’avere a che fare, nel modo dell’in-quanto qualcosa (cioè è “a che fare” in quanto è qualcosa) è tanto originario che un modo di cogliere che dovesse essere detto privo dell’ “in quanto” supponendo che fosse possibile dovrebbe prima subire una particolare trasformazione, questo modo di cogliere privo dell’ “in quanto”, di cogliere per esempio una sensazione pura è solo riduttivamente compibile in base all’esperienza fornita dall’ “in quanto” tanto poco è qualcosa di elementare che lo si deve definire … (Heidegger dice che il modo in cui ci si rapporta all’ente cioè a un qualche cosa è sempre un modo attivo, un modo per volerlo mutare, per volerlo cambiare, per volerci fare qualche cosa e questo ci torna a dire che l’ente, il significante, è quello che è sì per via del suo significato ma questo significato è un volerci fare qualcosa. Nietzsche direbbe che “il che cosa voglio farci con qualcosa” è in vista di una fantasia di potenza, cioè di ottenere maggiore potenza, di volere manifestare la mia potenza, di volere controllare, gestire, questo è il modo in cui ci si rapporta all’ente, questo è il significato per Nietzsche. Per Nietzsche l’essere è la volontà di potenza quindi è il volere fare qualcosa con l’ente in modo da poterlo usare come potenziamento per controllare, per gestire e tutte le varie forme che la fantasia di potenza può assumere, dal gioco di carte fino a volere controllare, padroneggiare il mondo con tutte le fasi intermedie. Questo modo di leggere Heidegger rende conto in modo più semplice e più chiaro del perché l’essere in quanto progetto rappresenti il significato, anche Sini lo diceva molto chiaramente: il significato è l’Essere in Heidegger, e da qualche parte fa questa connessione tra l’orizzonte in cui compare l’Essere che consente l’apparire dell’ente, dove questo orizzonte è la Langue di De Saussure. Un insieme indefinito di elementi dai quali l’ente, cioè la Parole, ha la sua possibilità, la sua esecuzione. Per De Saussure c’è la Langue, una sorta di nebulosa, dove ci sono tutte le possibili esecuzioni linguistiche, poi di tutte queste parlando se ne scelgono alcune che sono delle esecuzioni determinate, queste lui le chiama Parole. Dunque c’è la Langue dalla quale si traggono le Parole per costruire un discorso, qualunque cosa. Abbiamo uno scenario adesso un po’ schematico, però di grande interesse, cioè tutta la elaborazione intorno all’Essere, cioè a ciò che rende l’ente quello che è, che identifica l’ente, dove tutto questo non è nient’altro che il significato, il significato dell’ente, cioè del significante come lo chiama De Saussure. De Saussure lo chiama significante, non lo chiama ente, ma un significante è un ente, quindi il significato qui non è nient’altro che quell’Essere che per Heidegger consente al significante cioè all’ente di essere quello che è, perché un significante come dicevo prima senza significato non è niente, è il suo significato che consente al significante di essere quello che è. Il passo successivo è questo: per De Saussure il significato non può non esserci, è necessario che ci sia perché esista il segno, cioè questo rapporto tra significato e significante, dove il significato è ciò che rende il significante quello che è, se tu Simona pronunci la parola “leone” questa parola per te è qualche cosa perché ha un significato, se no sarebbe un’accozzaglia di suoni senza nessun interesse quindi questa parola, questo significante “leone” composto da una serie di lettere, di suoni, è quello che è per via dell’Essere cioè del significato. L’Essere in accezione heideggeriana, significato in accezione desoussuriana, termini che a questo punto si sovrappongono, sembra quasi difficile separarli, e quindi cosa abbiamo? Abbiamo un elemento in più che dice che il significato essendo il progetto, il “che cosa voglio fare” di quel significante, mette in una posizione tale per cui torniamo all’esempio di prima “cavallo” come significante: se non avesse un significato, se non significasse nulla sarebbe nulla ma ciò che significa per Heidegger non è tanto o non solo, sì certo il significato, ma l’Essere disvela, apre in questo caso all’idea che si ha del cavallo per esempio, ma non solo, non è soltanto questo, perché il modo in cui lo apre è un modo in cui vuoi farci qualche cosa, non è soltanto come in De Saussure: il significante, la parola “albero” poi c’è la barra e sotto l’alberello. il disegno dell’alberello, che sarebbe il significato della parola “albero”, ma c’è qualche cosa in più che apporta Heidegger con la sua idea di Essere, e cioè “il che cosa ci vuoi fare” cioè il significato è anche e soprattutto “il che cosa ci vuoi fare” cioè in quale progetto entra la parola che stai dicendo, che non esiste di per sé. La linguistica lo ha sempre detto che questa parola è quello che è all’interno di una rete di connessioni, però c’è qualche cosa ancora in più perché in questa rete di connessioni interviene questa parola ma in relazione a ciò che io voglio farci, e ciò che voglio farci, e qui compare Nietzsche, è utilizzarla per avere potere ...
Intervento: mi pare che sia difficile parlare senza avere un progetto …
Heidegger sarebbe assolutamente d’accordo. Freud ci è arrivato da un’altra strada, parlando di “desiderio” non parlava né di Essere né di significato, ma parlava di desiderio cioè qualche cosa si fa perché c’è un desiderio che muove, e infatti lui ha dovuto inventarsi tutta la storia della pulsione, tutti e quattro gli aspetti della pulsione la spinta, la fonte, la meta e l’oggetto e quando parla della spinta pulsionale indica qualcosa del genere, indica che qualche cosa si fa perché c’è qualche cosa che muove in una certa direzione, poi da lì è iniziata una serie di discorso metafisici che interessano fino a un certo punto. È come se ciascuno di loro si fosse trovato di fronte a una stessa questione che poi l’ha articolata, l’ha elaborata in base alla sua intenzione. Per Wittgenstein il significato di qualche cosa corrisponde a un uso di quella certa parola, acquisito perché non è che te lo inventi tu, è tramandato, viene trasmesso, però il significato per esempio dell’orologio è l’uso che ne faccio, la parola “orologio” anche in questo caso c’è la parola e il suo significato, cioè l’uso che ne faccio. L’uso per Heidegger è palesemente all’interno di un progetto, un progetto in cui voglio fare qualche cosa di una certa cosa. Vedete che ponendo la questione in questi termini è come se si aprissero delle altre direzioni, non che ovviamente né Wittgenstein né Heidegger abbiano detto come stanno le cose, però hanno aperto delle prospettive …
Intervento: a questo riguardo mi viene in mente che qualche anno fa proprio a proposito del significato abbiamo letto di Derrida …
Derrida muove da De Saussure, dal significato e significante e quindi da ciò che dice De Saussure, che il significante è tale per una differenza da altri significanti, il significato è tale per una differenza da altri significati e fra i due pone una barra che rende impossibile che da una parte ci sia un significato senza significante e viceversa e dall’altra fa esistere la relazione fra i due. Questa barra che dice della presenza simultanea del significante e significato, cioè ciò che fa esistere per Derrida il segno stesso è questo stesso rapporto, questa barra non è altro che il rapporto tra significante e significato, ma questa barra di per sé non c’è, non è dicibile. Sini riprendeva degli esempi di Peirce che immagina un cerchio metà rosso e metà nero, la linea che divide il rosso dal nero non c’è propriamente, però è ciò che fa la differenza tra uno e l’altro, ciò che li fa esistere in un certo senso. Per Derrida il discorso prosegue in questo modo: questa cosa che fa la differenza tra significante e significato e che istituisce il segno in quanto tale, se no non ci sarebbe segno, non si può dire, è indicibile. E allora ricorre a un esempio scrivendo nella lavagna “differenza” che è una cosa che funziona in francese, in italiano non funziona, scrive come in francese si scrive “difference”, però lui la scrive usando la “a” al posto della “e” e cioè scrive “differance”, ma nella pronuncia non si avverte, tanto che ci sia la e quanto che ci sia la a, questa cosa che pure fa la differenza non si sente, non c’è, non si può dire. Quindi la differenza, che è ciò che istituisce il segno quindi il linguaggio stesso per Derrida è qualche cosa che non si può dire lui la chiama “architraccia”, da ἀρχή, originario, cioè traccia originaria, che è ciò che consente al linguaggio di esistere perché è ciò che fa esistere il segno, ma tuttavia è una cosa che non c’è, non si può dire. Ovviamente si possono muovere delle obiezioni, anche perché è vero che senza la barra non ci sarebbe significato e significante, ma senza significato e significante non ci sarebbe neanche la barra. Ma Heidegger dice ancora): se nel carattere dell’intorno-a-che (che sarebbe intorno-a-ciò-di-cui stai parlando, intorno a che cosa?) si percepisce “questa lavagna” (è l’esempio che faceva l’altra volta) allora in questo aver-presente c’è la capacità di orientarsi nell’ambito entro il quale la cosa presente è collocata (cioè si percepisce la lavagna in quanto inserita all’interno di un sistema di altre cose, se non ci fossero queste altre cose non ci sarebbe neanche la lavagna) scopriamo l’ambito entro cui la cosa è collocata in quanto viviamo già in un rapporto con essa, (siamo già lì, siamo già in rapporto con tutte le cose che ci fanno vedere la lavagna, non è c’è la lavagna e poi costruiamo delle cose che ce la fanno vedere, noi esistiamo in questo essere continuamente in un intorno-a-che-cosa, siamo sempre lì) l’uso è solo un modo immediato del senso fondamentale in quanto essere-per-il-mondo in quanto prendersi-cura (cioè l’uso un modo immediato di questo essere per il mondo cioè essere in tutte queste cose, ciò che dicevo prima rispetto a Wittgenstein va in questa direzione, cioè il significato come uso ma questo uso è all’interno comunque di un progetto, di un prendersi cura) l’esserci è in se stesso per natura aperto al mondo, (dicevo prima l’essere come apertura, l’orizzonte, come la Langue per riprendere la connessione con De Saussure) aperto per il mondo (nel senso di volerci fare qualche cosa) che da parte sua (il mondo) è disposto a stabilire rapporti. Questa disponibilità si mostra innanzi tutto nel rapporto con quel che è interrogato in primo luogo (qui ci riporta a una delle questioni essenziali, la questione della domanda, vi rileggo la frase: questa disponibilità del mondo, dell’esserci, la disponibilità del mondo è l’esserci, si mostra innanzi tutto nel rapporto con quel che è interrogato, cioè occorre la domanda per accorgersi di esserci nel mondo, è questo che per Heidegger è l’autentico esserci,) ogni interpellare in quanto atteggiamento dell’esserci di fronte all’essere, si fonda nell’esserci in quanto già aperto al mondo (cioè io interrogo perché sono già lì, interrogo perché sono nel mondo, interrogo perché sono nell’esserci, nell’esserci nel modo che intende Heidegger, cioè nel volere fare qualche cosa di questo mondo) si rivolge ogni volta a qualche cosa che in qualche modo è già disposto a stabilire rapporti, (ma non è che il mondo sia così disposto a fare cose, il mondo è niente, il mondo è l’esserci, è per questo che è disponibile, è questo esserci. La difficoltà in Heidegger è tenere conto sempre che ciò di cui sta parlando è un essere presente nel mondo e per il mondo, sempre e comunque volendo farci qualche cosa). Nell’indicante interpellare qui la lavagna, là la finestra, gesso, porta /…/ con tutto questo c’è già rapporto e in che cosa consiste? (il rapporto) Nel fatto che l’ente considerato è scoperto a partire dal “per cui” della sua utilizzabilità, (cioè dal che cosa mi serve? Che cosa ne faccio? Quindi dal volerci fare qualcosa) esso è già posto in un significato, è già significato (quindi il significato è il volerci fare qualcosa) e questo non deve essere inteso come se all’inizio fosse qualcosa privo di significato a cui si incolla poi un significato ma quel “che è dato” all’inizio (qui è un senso ancora da determinare, lo determinerà nelle pagine successive) è quel che serve per scrivere, per entrare ed uscire, per illuminare (si riferisce alla lavagna, la finestra eccetera, cioè a che cosa serve, che cosa ci faccio?) sono qualcosa in cui ci muoviamo fin dall’inizio le cose che conosciamo quando ci orientiamo e che apprendiamo sono questi “per cui”, il “per cui” (è il fatto che questo accendino serve per accendere una sigaretta per esempio) ogni avere avanti a sé e percepire cose si mantiene in questo rapporto con esse sempre praticamente, rapporto che esse devono a un primario significare proveniente dal “per cui” (cioè da un significare che viene dall’uso che ne voglio fare, dal “che cosa mi serve?”) ogni aver davanti a sé e percepire qualcosa è in se stesso un avere qualcosa in quanto qualcosa, (è un qualche cosa in quanto è un aggeggio che serve a fare delle cose) il nostro essere orientati verso le cose e verso agli uomini si muove in questa struttura del qualcosa in quanto qualcosa, ha in breve la struttura dell’ “in quanto” (questo è un accendino in quanto serve ad accendere una sigaretta) questa struttura non è necessariamente riferita alla predicazione, nell’ “avere a che fare con qualcosa” non copio intorno alla cosa nessuna enunciazione tematicamente predicativa (quando ho a che fare qualche sono già preso in tutte queste cose, cose per le quali io mi trovo immediatamente a sapere che questo è un accendino perché so a che cosa serve, per questo so che è un accendino) L’ “in quanto che cosa” è dunque compreso fin dall’inizio e solo a partire da esso ciò che mi viene incontro, ciò con cui ho a che fare diventa in quanto tale comprensibile (cioè qualche cosa mi viene incontro in quanto, in quanto qualcosa, cioè in quanto so utilizzarla, so a cosa serve, so che cosa farci) in quanto che cosa a partire dal quale comprendo e che ho già sin dall’inizio benché in maniera non tematica (cioè non è tematizzato, non è articolato in quanto oggetto di interrogazione scientifica per esempio) e colto quindi non tematicamente in questo “aver sin dall’inizio” io vivo nella comprensione dello scrivere, dell’illuminare, dell’uscire e dell’entrare (cioè non mi devo chiedere che cos’è, e ogni volta uscire, entrare, io vivo in queste cose, sono già dentro a queste cose, Wittgenstein direbbe che sono cose che ho imparate, ovviamente, se non le avessi mai imparate non saprei che cosa sono) più esattamente “come esserci” sono qualcosa che parla, che cammina, che comprende, sono un rapporto di comprensione (cioè le cose esistono perché esistono in un rapporto di comprensione, in altre parti dice di “pre-comprensione” in quanto se io sono già, ogni volta che mi rapporto a qualche cosa, in relazione con questa cosa, allora mi trovo in relazione con qualcosa che “so già” tra virgolette, “so già” perché so qual è l’uso che ne posso fare, che ne voglio fare eccetera. Per potermi approcciare all’ente, alla lavagna per esempio, occorre che questa lavagna mi appaia, perché questa lavagna mi appaia è necessario che esista un Essere all’interno del quale questa lavagna compare, ma questo essere è fatto del progetto che io ho nei confronti di quella lavagna, ecco perché l’Essere è ciò che consente all’ente di apparire, perché è all’interno di questo progetto che l’Essere è, che le cose appaiono, cioè appaiono in quanto manipolabili) il mio essere nel mondo non è nient’altro che questo muovermi già comprendente questi modi dell’essere (i modi dell’Essere sono i modi in cui comprendo le cose, comprendo nella misura in cui intendendo come si conservano) se quindi adesso guardiamo più attentamente vediamo che quelli che chiamiamo “uno schietto avere a disposizione” e uno schietto cogliere come questo gesso, come questa lavagna, come quella porta considerati strutturalmente, non sono affatto un modo di cogliere direttamente qualcosa, vediamo che io preso strutturalmente non accedo direttamente alla cosa schiettamente presa ma che la colgo essendo già, per così dire, sin dall’inizio in rapporto con essa, la comprendo in base a ciò cui essa serve (questa è una critica a Husserl, vi ricordate che diceva che la comprensione avviene di fronte all’oggetto che si dà immediatamente, l’idea era di riuscire rapportarsi senza nessun filtro, lasciare che la cosa manifestandosi dica di sé quello che è, come abbiamo detto lui stesso poi incontra problemi gravissimi e abbandona questo progetto, però Husserl inizialmente aveva questo progetto. Heidegger dice che “non sono in diretto rapporto con la cosa ma sin dall’inizio in rapporto con essa che la comprendo in base a ciò cui essa serve” questo è fondamentale) dunque in questo modo apparentemente schietto di cogliere le cose (il modo “schietto di cogliere le cose” sarebbe immediato cioè non mediato da altro) le cose circostanti io sono sempre nel cogliere e nel comprendere già oltre rispetto a quel che in un senso estremo è dato direttamente, io sono sempre già oltre nella comprensione ciò per cui in quanto che cosa viene preso quel che è dato e incontrato e solo a partire dal “per cui” dall’“in quanto che cosa” la cosa incontrata è utilizzabile solo a partire da questo “per cui” presso il quale già sempre mi trovo ritorno a quel che mi è venuto incontro (sta dicendo che se cerco di mettermi di fronte in modo schietto, immediato, a qualche cosa, mi trovo già oltre a questo qualche cosa perché in questo rapportarmi alla cosa io non ho soltanto la cosa ma ho il mio progetto verso la cosa quindi c’è già altro rispetto alla cosa che ho di fronte, non è mai solo la cosa che ho di fronte, perché se è all’interno di un progetto non c’è mai solo la cosa, c’è la cosa e c’è il progetto almeno. Bene ci vediamo mercoledì.