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11 ottobre 2023

 

Aristotele Analitici primi

 

Dunque gli Analitici primi, uno dei testi più importanti dell’Occidente. Non è che Aristotele abbia inventato la logica, anche perché per inventarla doveva già possederla, ma lui ha messo per iscritto quelle cose che gli parevano le regole più comuni del pensare, che naturalmente esistevano già da tempo immemore. Questo modo di Aristotele di approcciare la questione è importante perché le cose che sta per dirci potrebbero cambiare il modo in cui si pensa generalmente la logica. La logica non è nient’altro che il modo con cui si costruiscono le proposizioni per potere affermare qualcosa, è un metodo per affermare cose, e per affermare una cosa devo naturalmente negarne un’altra. Dopo Aristotele, però, e soprattutto nel Medioevo, si è creato una sorta di mito della logica, come se la logica potesse mostrare il “come stanno veramente le cose”, cosa che è assente in Aristotele. Questo è importante perché ci dice che tutto ciò che è stato costruito dal Medioevo in poi, ma già prima con il neoplatonismo, è stato un tentativo di ergere la logica, come dicevo prima, come se fosse un mito, qualcosa di divino. D’altra parte, lo stesso Tommaso parlava della logica come di un dono di Dio e, quindi, lui l’ha divinizzata; di nuovo, cosa che era totalmente assente in Aristotele. Aristotele sapeva bene, e non poteva non saperlo, da dove arriva la logica: viene dalla δόξα. Lo dice a malincuore, ma lo dice. Ciò che fa con gli Analitici è come un gioco, dove dice: io stabilisco delle regole e poi, in base a queste regole, vedo tutte le combinazioni possibili del quadrato logico – in fondo, poi è sempre quello ciò di cui si tratta: universale affermativa, universale negativa, particolare negativa, particolare affermativa. Questi sono i quattro elementi dai quali non si esce. Ora, sembra quasi divertirsi Aristotele a fare questi giochi, questi incastri. Lui immagina tre figure dei sillogismi e utilizza lettere differenti: nel primo Α,Β, Γ, nel secondo Μ,Ν,Ξ, nel terzo Τ,Ρ,Σ. Poi, erano troppe e faceva confusione anche lui ed è tornato al primo, Α,Β, Γ. I sillogismi hanno dei nomi, inventati nel Medioevo, Barbara, Celarent, Bocardo, ecc. Sono nomi dove compaiono tre vocali, che sono quelle che stanno nel quadrato logico (A,E,O,I). Barbara dice che ci sono una sequenza di tre A, dove la A è l’universale affermativa, ed è fatto di tre affermazioni universali affermative; sarebbe per Aristotele il sillogismo perfetto: tutte le A sono B, tutte le B sono C, tutte le A sono C. La figura nota come Bocardo, che di per sé non significa assolutamente niente, è soltanto un nome inventato per ricordarsi OAO, quindi, particolare negativa, universale affermativa, particolare negativa. Aristotele comincia, come fa sempre lui – il che è una buona cosa – a dire che cosa intende con i vari termini, di cui si servirà. È una cosa questa che non si fa quasi mai, ma è fondamentale. Il fatto che non si faccia mai è causa di tantissime liti, perché ciascuno segue il suo ragionamento e nessuno si accorge che ciascuno muove da premesse differenti, cioè intende quella cosa, posta come premessa, in un modo in cui l’altro non la intende. Lo stesso Peirce diceva che la prima cosa da farsi in ambito teorico è stabilire che cosa intendiamo con le varie cose, perché se non ci intendiamo con le premesse, è chiaro che poi ognuno andrà per la sua strada e non ci intenderemo mai. Il problema sta nell’intendersi sulle premesse. Tutti sarebbero disposti a dire che il bene è una bella cosa, certo, ma che cosa intendiamo con bene? E qui incominciano i vari distinguo, i vari problemi. A pag. 373. Prima di tutto bisogna dire su che cosa verte la presente indagine e quale ne è l’oggetto: essa verte sulla dimostrazione e il suo oggetto è la conoscenza scientifica dimostrativa. Conoscenza scientifica: il termine è έπιστήμη. Si deve quindi definire cos’è premessa, che cos’è termine e che cos’è sillogismo, quale sillogismo è perfetto e quale imperfetto, e poi che cosa significhi “questo è (o non è) in quello come in un intero”, e che cosa intendiamo con “essere predicato di ogni o d nessuno”. Questi sono i pilastri della logica. Quindi, si tratta di dire che cosa intendiamo con queste cose. …la premessa è un discorso che afferma o nega qualcosa rispetto a qualcos’altro;… Il qualcos’altro sarebbe il κατά τίνός. …questo discorso, poi, può essere universale, particolare o indefinito. Quando è indefinito? Lui qui non lo dice direttamente, ma nel quadrato logico la linea di sotto che unisce le particolari negative e affermative – qualche A è B e qualche A non è B – che sono dette subcontrarie, perché non sono vere e proprie contrarie, ma sono indefinite, perché il dire che qualche A è B e che qualche A non è B non è che ci porti molto lontano. Quindi, il sillogismo che muove da questi due elementi è indefinito, perché in realtà non dice niente. Per dire qualche cosa occorre o una universale affermativa o una universale negativa oppure la contraddizione, che consente di escludere qualcosa, quindi, di porne un’altra. Per porre qualcosa devo escludere; ecco perché è importante che ci sia la contraddizione o il contrario, perché posso affermare solo escludendo: se dico che questa è una penna, sto dicendo che non è tutte le altre cose. Intendo con universale “…inerisce ad ogni…” o “…non inerisce a nessun…”, con particolare “…inerisce a qualche…” o “…non inerisce a qualche…” o “…non inerisce ad ogni…”, con indefinito “…inerisce a…” o “…non inerisce a…” senza specificare se universalmente o parzialmente… L’indefinito: dice “inerisce a…”, però non si sa bene a che cosa. …come quando si dice “il piacere non è un bene”; in questo caso non si determina niente perché non si esclude nulla, non è un bene ma può essere qualunque altra cosa. Vi è poi differenza tra premessa dimostrativa e quella dialettica, perché la premessa dimostrativa è l’assunzione di uno dei due membri di un’alternativa contraddittoria… La premessa dimostrativa è quella che muove dall’escludere qualche cosa per poterne affermare un’altra. …la premessa dialettica, invece, propone un’alternativa contraddittoria in termini di domanda. Quando si domanda qualche cosa si propone sempre un’alternativa: è così o non è così? Ciò però non fa differenza per il venire in essere del sillogismo nell’uno e nell’altro caso: infatti, sia chi sta conducendo una dimostrazione, sia chi sta conducendo un’interrogazione, comunque trae la conclusione dopo aver assunto che qualcosa inerisce o non inerisce a qualcos’altro. Il termine “inerisce”; qual è il termine che usa Aristotele? Ύπάρχειν. Ύπάρχειν è un termine interessante. Tenete conto che tutta la logica è fondata su questo concetto di inerire, di appartenere: appartiene o non appartiene, giunzione e disgiunzione. Quindi, Aristotele avrebbe dovuto dire che cos’è esattamente la inerenza, l’appartenenza, ma non lo fa. Non lo fa, dice soltanto come si usa. Di conseguenza una premessa sillogistica, semplicemente, sarà affermazione o negazione di qualcosa rispetto a qualcos’altro nel modo anzidetto; sarà poi dimostrativa qualora sia vera e sia stata assunta in ragione delle ipotesi di partenza… Non dice che cos’è l’appartenenza, però usa la parola ύπάρχειν. Che cosa esattamente significa in greco questa parola ύπάρχειν,? Significa inerire? Anche. Ma forse è il significato più debole. Ύπάρχειν è composto da ύπό e da άρχο. Άρχο che cosa significa? Άρχο viene da comando, io comando, io principio, inteso come verbo e non come sostantivo. Ύπό è tradotto in genere con “sotto”, ma significa anche “venire da”, “seguire da”. ύπάρχειν è ciò che segue al mio comando: questo è inerire, questo è appartenere. Non c’è nulla di naturale, di misterioso nell’appartenenza. Sta dicendo, usando questa parola specifica ύπάρχειν che io comando che sia così. Il che è diverso dal pensare che sia una cosa naturale il fatto che una cosa appartenga a un’altra. L’appartenenza non può, in effetti, essere provata in nessun modo, così come non può essere provato che all’1 segue il 2: come lo dimostriamo? Comandiamo che sia così. Vedete a questo punto come tutta la questione della logica viene rimessa in discussione. La logica non è altro che una serie di comandi: questa cosa appartiene a quell’altra perché io ho stabilito così. Infatti, il problema che incontra Aristotele non sta tanto nello stabilire le regole formali, ma nel momento in cui questa cosa, che di per sé non significa assolutamente niente, viene tradotta in enunciati; allora sorgono i problemi. Perché fino a che non significano niente, va tutto bene, ma è quando incominciano a significare che le cose si complicano. …la premessa dialettica, invece, nella misura in cui si chiedono a qualcuno delle risposte, sarà la domanda relativa ad un’alternativa contraddittoria, mentre, nella misura in cui si traggono le conclusioni, sarà l’assunzione di quel che appare ed è opinione condivisa, come spiegato nei Topici. Ciò che appare, l’opinione condivisa. Quando si esce dalla formula formalizzata, che di per sé non significa niente, allora ci si aggrappa alla δόξα, ed è l’unico modo per uscirne. Quindi, finché si tratta di una formula che non significa niente non ci sono problemi; i problemi sorgono quando, invece, queste cose significano qualcosa e, allora, la verità del sillogismo sarà data dall’opinione comune, da quella più diffusa. Noi dovremmo quindi dire, a proposito del sillogismo Barbara: se tutte le A fossero B e tutte le B fossero C, allora in quel caso, ma solo in quel caso, tutte le A sarebbero C; sarebbe questa la formulazione corretta. Dire che “tutte le A sono B” non vuol dire niente; dovremmo dire “se tutte le A fossero B”, e cioè stabilire un caso specifico, particolare, allora in quel caso e solo in quel caso “tutte le A sono C”. Ύπάρχειν, dunque, io comando che sia così, ordino. Che cosa ordino? Ordino che se tutte le A appartengono a B e tutte le B a C, allora tutte le A appartengono a C. Lo ordino. Infatti, posso forse provarlo? In che modo? Non lo posso provare, posso ordinare che sia così. Cosa ci dice questo della logica? Ci dice che la logica non prova nulla. D’altra parte, originariamente, forse non è neanche stata pensata così, anche se Aristotele parla di dimostrazione, ma dimostrazione sempre all’interno di questo gioco, fuori da questo gioco non significa niente. Perché si utilizza la logica per parlare, per pensare? Si utilizza la logica, cioè, questo sistema che è fondato dalla metafisica sul principio di non contraddizione, senza il quale tutta la logica crolla. Il principio di non contraddizione, come sappiamo, non ha una sua dimostrazione, non può essere dimostrato perché, per poterlo dimostrare, abbiamo bisogno del principio di non contraddizione, e questo in logica non va bene. In logica si chiama petitio principii e non si fa, è ritenuto scorretto, perché si tratterebbe di utilizzare ciò stesso che devo dimostrare all’interno della dimostrazione. Che è poi quello che accade quando si vuole dimostrare il principio di deduzione e quello di induzione. Il principio di non contraddizione è una cosa interessante, che adesso forse potremmo cogliere con maggiore attenzione. Il principio di non contraddizione è l’agire dell’uno e dei molti nella loro simultaneità. Adesso vi illustro questa cosa. L’uno e i molti si oppongono: l’uno è per tradizione il contrario dei molti, e viceversa. Il principio di non contraddizione cosa dice? Che è o uno o è i molti, tertium non datur. E, invece, il tertium è dato: il terzo è la simultaneità dei due. Ma per parlare, per potere affermare qualche cosa – questo è ciò di cui si è accorto Aristotele – io devo dividere, devo separare per de-terminare. Quindi, devo separare l’uno dai molti, perché se non li separo affermo l’uno e i molti simultaneamente; il che significa che non determino niente: sarebbe l’πειρον, l’indeterminato. Se non determino non parlo. Il principio di non contraddizione è quella cosa che, invece, consente di parlare perché consente di determinare. E come lo consente? Separando l’uno dai molti. Non ha altra via che quella di separare le due cose, anche se Eraclito se ne avrà a male, ἒν πάντα εἰναι, l’uno è tutte le cose. Sì, non le possiamo separare, perché questa simultaneità è sì ciò che mi impedisce di affermare qualcosa, cioè di determinare, ma è anche ciò che mi consente di parlare allo stesso tempo. Senza questa simultaneità, senza l’uno in quanto molti, l’uno non avrebbe alcuna possibilità di compiere quel passo che illustra Platone parlando di λέγειν τί κατά τίνός: dire è dire qualcosa. Il dire è l’uno, il qualcosa i molti. Platone ha colto questa simultaneità dicendo che il λέγειν è sempre un λέγειν τί, cioè, non posso dire senza dire qualcosa. A questo punto non so se si possa parlare propriamente di dimostrazione, ma non è neanche questo il punto, non interessa dimostrare. Come diceva giustamente Wittgenstein: chi dimostrerà la dimostrazione? Anche questa è una domanda legittima. Però, abbiamo posto il principio di non contraddizione in termini più semplici, almeno apparentemente. Perché il principio di non contraddizione, come già accennavamo forse mercoledì scorso, è il tutto, cioè è la simultaneità di uno e molti, che per potere parlare è necessario che siano simultanei e al tempo stesso è necessario che si separino, sennò non parlo. Potremmo anche indicare questo come il problema del linguaggio, problema sempre inteso nell’accezione heideggeriana, cioè, come qualcosa che è continuamente da pensare. Quindi, vedete che quando lui usa il termine ύπάρχειν, cioè “io comando che sia così”, perché sono io che comando che si separino l’uno dai molti, ed è questo che fa l’ύπάρχειν: quando io affermo o nego, separo artificiosamente l’uno dai molti, lo devo fare, sennò non nego o non affermo niente. Quindi, questa parola che Aristotele usa è in questo senso precisa, e cioè mostra che questa separazione è ciò che io impongo per potere parlare. Non esiste in natura, neanche fuori della natura, non esiste da nessuna parte, è soltanto qualche cosa che non posso non fare; dal momento che sto parlando, già è implicito il fatto che lo sto facendo. Ecco, dunque, il principio di non contraddizione, quello su cui si fonda tutta la logica, perché, come dicevo prima, ogni affermare e ogni negare mette in atto il principio di non contraddizione, inesorabilmente: o uno o l’altro; se nego escludo quell’altro, se affermo escludo quell’altro.

Intervento: È come un’esigenza di delimitare…

Infatti, prima parlavo di determinare: per determinare devo compiere questa operazione. Se non determino, ci ritroviamo come Platone che voleva un ente che non avesse alcuna relazione con nulla, cioè, fosse indeterminato; ma se è indeterminato è nulla, se non è determinato da alcunché è niente, non è neanche un ente, perché se è ente è qualcosa e, quindi, essendo qualcosa, questo qualcosa è già una determinazione. Prosegue, dunque, Aristotele con le sue determinazioni. A pag. 375. Chiamo “termine” ciò in cui si scompone la premessa, ovvero il predicato e ciò di cui esso viene predicato, con l’aggiunta (o divisi) “è” o “non è”. Per esempio, “tutti gli animali sono mortali”: “tutti gli animali” e “sono mortali” sono i due termini di questa premessa. “Sillogismo” è invece un discorso in cui, poste certe cose, qualcosa di diverso rispetto ai dati risulta di necessità per il fatto che sono questi. Cosa vuole dire? Vuole dire che il sillogismo muove da qualcosa di stabilito, che io comando che sia. Poi, dice, occorre che da questo discorso, da queste cose che io ho stabilite, ne compaiano altre che invece non erano presenti. Per esempio, “tutti gli animali sono mortali” e “Socrate è un animale”; ciò che compare nella conclusione è ciò che non è presente nelle due premesse, maggiore e minore, è una cosa “nuova” rispetto alle prime due, e cioè che “Socrate è mortale”, in quanto non è compresa nella premessa maggiore né in quella minore, il medio: è una conclusione che aggiunge qualcosa che non c’era prima. Aggiunge qualcosa che appare necessariamente, άναγκαῐον, ma in base a quale necessità? A noi, certo, appare necessario che sia così; dopo duemilaseicento anni di logica, con il Medioevo che ha mitizzato la logica, appare assolutamente normale, ma la domanda è legittima: perché dovrebbe essere così, perché dovrebbe essere necessario? Se A allora B e se B allora C, perché dovrebbe essere necessaria la conclusione se A allora C? Chi lo dice? E torniamo all’inerenza, all’appartenenza. Aristotele cerca di definire, ma questa volta, invece, non definisce questa cosa, resta sul vago. Non è che se A allora B e se B allora C, allora se A allora C, che, come dicevo prima, non significa assolutamente nulla; ma se io decido, ύπάρχειν, comando che sia così, allora è così. Tutte queste regole, con le quali Aristotele gioca, hanno lo stesso valore veritativo delle regole del poker. Certo, un asso batte un jack, perché l’ho stabilito io. Dicevamo prima che la logica è il modo in cui si parla comunemente, modo che poi Aristotele ha cercato di trascrivere nero su bianco, cosa che nessuno aveva mai fatto prima, forse non se ne sentiva neanche l’esigenza. Sicuramente i presocratici, gli eleati, non sentivano questa esigenza di stabilire tutte le possibili combinazioni, universale affermativo, negativo, il particolare, ecc., avevano di meglio da fare, per esempio di pensare che tutto sorge e sorgendo dilegua. Ma, dicevo, questa cosa che trascrive Aristotele era presente dalla notte dei tempi, da quando gli umani hanno incominciato a parlare, in quanto per parlare bisogna determinare, quindi, affermare e negare. Da dove viene questa maniera di parlare? Dal linguaggio, semplicemente, e cioè dall’uno e dai molti. Il principio di contraddizione – che non è stato inventato da Aristotele, lui l’ha soltanto trascritto – è sempre esistito: se si afferma o si nega c’è quella cosa che lui ha chiamato principio di non contraddizione, cioè, c’è l’uno e ci sono i molti, che si escludono perché se è uno non sono i molti. Si escludono ma occorre che ci siano entrambi, simultaneamente, sennò non si parla, perché non c’è rinvio, e se non c’è rinvio non c’è linguaggio, e tutti questi problemi non sarebbero mai esistiti. Quindi, è da lì che viene questo modo, noi pensiamo così perché parliamo, e per parlare dobbiamo giungere e dividere, giungere nell’uno e dividere nei molti, e scartare di volta in volta uno dei due per potere affermare o negare qualcosa. Quindi, il principio di non contraddizione non è altro che il linguaggio stesso, è il tutto, è l’uno e i molti, simultaneamente. “Sillogismo” è invece un discorso in cui, poste certe cose, qualcosa di diverso rispetto ai dati risulta di necessità per il fatto che sono questi. Quando dico “per il fatto che sono questi… Quindi, già utilizza il principio di non contraddizione, cioè, sono queste le cose che io ho poste, quindi, non sono altre, che ho quindi già dovuto scartare; ma non è che scartandole le elimino, semplicemente metto in atto un’operazione che è necessaria per parlare. Quando dico “per il fatto che sono questi” intendo che esso risulta a causa di quelli, e quando dico “risulta a causa di quelli” intendo che non c’è bisogno di alcun termine preso dall’esterno perché la necessità del risultato venga ad esserci. Questa necessità del risultato segue per via deduttiva: sarebbe il sillogismo perfetto, quello chiamato Barbara, che è perfetto perché segue per deduzione. Perché segue per deduzione? Perché ciò che dice la premessa maggiore è contenuto anche nel medio, e ciò che dice il medio è contenuto anche nella conclusione; è contenuto, quindi, appartiene, inerisce. Quindi, da un lato chiamo sillogismo perfetto quello che non ha bisogno di null’altro oltre agli assunti perché la necessità del risultato si manifesti; dall’altro, chiamo imperfetto quello che invece ha bisogno di una o più cose che sono sì necessarie in ragione dei termini dati di base, ma che non sono espressamente assunte con le premesse. Quello perfetto è il sillogismo Barbara, dove da un elemento traggo quell’altro, perché inerisce, e dal secondo, dal medio, traggo la conclusione, sempre perché inerisce. Invece, quello imperfetto è quello dove ciò che si trae non è presente nella premessa maggiore, non è già contenuto nel sillogismo, quindi, sorge per altra via. Infine, dire che una cosa è in un’altra come in un intero e dire che l’una “è predicata di ogni” rispetto all’altra è la stessa cosa. Dire come in un intero è dire che è un universale. E diciamo “è predicato di ogni…” quando non è possibile assumere nulla del soggetto di cui non sarà detto l’altro termine. Cioè, ciò che si dice nella premessa si ripete nel medio e nella conclusione; quando è imperfetto, ciò che si dice nella premessa non si produce necessariamente nel medio e nella conclusione. È un’operazione curiosa quella che fa Aristotele, perché – questa è una cosa che viene da pensare mentre si legge – da una parte, sa e non può non sapere, perché l’ha detto lui stesso, che alla base di tutto c’è la δόξα, la chiacchiera, il si dice, l’analogia; dall’altra, c’è la ricerca di un qualche cosa, di un argine, che crei l’illusione di un qualche cosa che non necessita della δόξα. Per lui, in effetti, il sillogismo perfetto non necessita di altro, è già tutto lì, ma mente sapendo di mentire quando dice che tutte le A sono B. Davvero tutte? Le ha contate a una a una, oppure no? Oppure, quando stabilisce la premessa maggiore lo fa attraverso l’analogia, che non ha nulla di certo? Quindi, sembra quasi che lui faccia proprio questo, e cioè da una parte sa che tutta la logica è sostenuta dalla δόξα, dall’opinione… Qui lo ascrive al sillogismo dialettico, però, poi dice che quello dimostrativo si comporta alla stessa maniera. Però, in cuor suo spera di trovare un qualche cosa, di stabilire delle regole che rendano vana la δόξα, qualcosa che faccia sgorgare, rampollare da sé la verità. È questo che diceva prima, e cioè che non ha bisogno di aggiunte alle premesse, è completo, è il tutto. Sì, solo che c’è questo problema. Per Aristotele il sillogismo perfetto, il Barbara, dovrebbe essere l’uno, che esclude i molti, perché è autosufficiente, non ha bisogno di niente. Non è vero e Aristotele lo sa, lo sa perché questo uno, che lui cerca di raggiungere, di compiere nel sillogismo perfetto, ha bisogno dei molti per potersi affermare. Lui vuole togliere i molti, che per Platone sono i cattivi, ma gli serve l’universale e, quindi, non può toglierli, non gli riesce questa operazione; però, tutto ciò che costruisce è come se, da questo momento in poi, venisse dimenticato. E, allora, ecco che incomincia a fare tutti quei giochi… Deve essersi divertito un mondo a fare tutti gli incastri possibili e immaginabili. Ma tutto questo è reso possibile da questo “inganno”, fossimo cattivi lo chiameremmo mistificazione, se fossimo più bonari la chiameremmo ingenuità, che consiste nell’idea di potere di costruire qualche cosa che sia l’uno, senza tenere conto, come sappiamo, che il tutto è la simultaneità di uno e dei molti. Lui ritrova questa simultaneità, la ritrova nel fatto che l’uno, che lui crede di avere costruito, esiste perché ci sono i molti, e se non ci fossero lui non potrebbe trarre alcuna premessa universale. Da dove la trae? La deduce da qualche cos’altro, e questa da qualche cos’altro ancora, e così via. Pessimo infinito! A pag. 377. Ora, ogni premessa ha ad oggetto, o l’inerire, o l’inerire di necessità, o il poter inerire; queste, poi, sono le une affermative e le altre negative, secondo ciascuna modalità di attribuzione; e le affermative e negative, a loro volta, sono le une universali, le altre particolari e le altre indefinite. Ha ripetuto il quadrato logico, né più né meno. Considerato ciò, è necessario che la premessa universale privativa in forma di inerenza si converta nei termini: ad esempio, se nessun piacere è un bene, anche nessun bene sarà un piacere. Qui arriva il problema, che lui passa velocemente, dove le A e le B non sono più delle lettere, ma sono degli enunciati. “Nessun piacere è un bene”: ma questo come lo abbiamo saputo? Ne siamo certi? È una cosa che ho stabilito io, ύμάρχειν, io decido, comando che nessun piacere è un bene. Per questo dicevo che finché sono delle lettere enunciative significano niente, quindi, non c’è problema; ma se incomincia a dire che nessun piacere è un bene, qualcuno può chiedergli perché; mentre se dico che tutte le A sono B, nessuno mi chiede niente, va bene, se ti piace dire così. Ma, a questo punto, ecco che viene fuori l’imposizione, il comando, l’ύμάρχειν. Άρχο, io comando, io principio, nel senso di inizio, sono io quello che dà il via. Poi, è necessario che si converta quella positiva, per quanto non universalmente, ma in parte: ad esempio, se ogni piacere è un bene, è necessario che anche qualche bene sia un piacere. Qualche, mica tutti. Supponiamo che ogni piacere è un bene; però, a questo punto, si accorge che non può più convertire, quindi che ogni bene è un piacere. Perché? Qui lui si scontra con qualche cosa che lo irrita, perché lui dice che non si può. Si può benissimo: se io dico che ogni piacere è un bene, quindi, ogni bene è un piacere. Ma si accorge che urta. Contro cosa? Contro il buon senso della nonna. Ogni piacere è un bene; ma questo bene coinvolge tante cose, non sappiamo poi se ogni bene è un piacere, non ne siamo così sicuri. Come dicevo, va bene finché sono lettere enunciative, ma quando queste lettere si trasformano in enunciati, ecco che allora sorgono i problemi, e cioè ciò che si vuole eliminare con le lettere… Le lettere vorrebbero togliere l’equivoco, togliere i molti e lasciare l’uno, per cui la lettera A è quella. Sì, certo, ma a condizione che sia non-A, quindi, ci vuole non-A perché quella sia A. I molti non si tolgono: è questa la simultaneità dell’uno e dei molti, cioè, del tutto.