11 settembre 2024
Plotino Enneadi
Siamo al settimo trattato della sesta enneade, l’ultima. Insiste sul fatto che tutti i principi devono convergere verso un unico principio, quello che domina tutti gli altri. A pag. 1211. Ma se ogni atto di Dio deve essere perfetto, se non è permesso pensare che qualsiasi cosa relativa a Dio sia diversa dall’Intero e dal Tutto, in ogni cosa che lo riguarda devono essere contenute tutte le cose; ed è necessario che ciò che appartiene al futuro sia in Lui nel presente. In Dio non c’è passato, presente, futuro, è già tutto lì. Se dunque il futuro è già presente, è necessario che esso sia presente come una cosa pensata anticipatamente per l’avvenire, ed è così in quanto Egli non ha bisogno di nulla e perché è inesauribile. Perciò tutto fu già ed è in eterno ed è in modo che si possa dire, più tardi, “questo dopo questo”…. Solo dopo, perché in lui è tutto presente simultaneamente. …e, infatti, solo se si estende e si dispieghi, esso si può manifestare “questo dopo questo”, ma finché è tutto insieme, è soltanto “questo”, cioè, possiede in sé anche la causa. A pag. 1213 lo precisa ancora. L’Intelligenza possiede il suo “perché”, e perciò lo possiede anche ciascuno degli esseri che sono lei, ma questi non hanno bisogno di un perché della loro esistenza poiché essa è ciascuno di essi, ed essi e sono sorti insieme con lei e possiedono in sé la causa della loro esistenza. Perciò, anche alle cose che partecipano di lei, l’Intelligenza concede che ricevano il “perché”. Plotino sta dicendo che nell’Uno non c’è il perché, non c’è una ragione che rinvierebbe ad altro, non c’è il perché ma l’“è”, e basta. Il perché è qualche cosa che arriva appunto con l’intelletto, con tutte le altre cose, ma nell’Uno non c’è. E, infatti, dice, E così, se lassù non c’è nulla di vano, ma in ogni cosa c’è tutta la molteplicità che esiste lassù, tu puoi assegnare il “perché” a ciascuna cosa. Lassù il “perché” preesisteva e coesisteva, non come “perché” ma come “che” o, meglio, lassù “perché” ed “è” sono una cosa sola. Quindi, non c’è perché non c’è argomentazione; infatti, ha detto varie volte che non c’è pensiero, perché l’Uno non ha nulla da pensare. A pag. 1229. Come possono esserci difetti lassù? Forte che le corna lassù servono alla propria difesa? No, ma solo a completare e a perfezionare l’animale. In che senso sarebbe perfetto con le corna? Non si sa. Come animale, esso doveva essere perfetto e perfetto come intelligenza e perfetto come vita; e così, se manca una cosa, deve essercene un’altra. Chi ha detto che l’animale debba avere le corna? Cioè, sei perfetto se hai le corna, certo, ma solo perché noi lo conosciamo così, ma, di fatto... Perciò la differenziazione dipende dal fatto che una cosa ne sostituisce un’altra affinché tutte queste cose derivi l’animale nella sua compiutezza e l’intelligenza perfetta e la vita più perfetta; e in tal modo il singolo come singolo è perfetto. Che razza di argomentazione sarebbe questa? Quanto alle piante, esse si accordano con la ragione, poiché anche la pianta di quaggiù è una ragione formale, che risiede nella vita. Se la forma razionale della pianta, che è nell’intimo della materia e per la quale essa è pianta, è una certa vita e una certa anima; se questa forma e qualcosa di unitario: allora questa è la prima pianta, oppure non lo è, e invece esiste già, anteriore ad essa, la pianta prima, dalla quale anche questa deriva. Avete notato come tutto questo non sia altro che un rifacimento, una riedizione di Platone. La pianta che c’è qui, che io vedo, è, sì, un qualche cosa, ma non è nulla rispetto all’idea che abbiamo della pianta, idea che sta lassù. A pag. 1233. Poiché noi affermiamo che il nostro universo esiste sul modello dell’universo intelligibile, è necessario che lassù esista anzitutto l’Universo Vivente e che esso sia la “totalità dei viventi”, dal momento che esso è un essere perfetto. /…/ C’è evidentemente lassù anche una terra che non è deserta ma è più animata della nostra; essa ha in sé tutti quegli animali che quaggiù vengono detti terrestri e legati alla terra, nonché le piante… /…/ Come, dunque, non esisterebbero necessariamente i singoli viventi nel mondo intelligibile? Infatti, come ciascuna delle grandi regioni dell’universo è lassù, così devono esistere lassù anche gli animali che appartengono ad esse. Perciò all’ordine e all’essere del cielo intelligibile non possono non corrispondere l’ordine e l’essere degli animali che sono nel cielo, e per conseguenza devono esistere; altrimenti, nemmeno il cielo esisterebbe. Ora, una cosa del genere potrebbe anche essere considerata una scemenza, se non si tenesse conto del fatto che ciò che sta dicendo allude a qualche cosa che invece è importante, perché lo ha ripreso poi Guglielmo di Occam: solo Dio può garantire che le cose siano quelle che sono. Ora, per potere garantire una cosa del genere è necessario che in Dio ci sia già tutto. Per Plotino non era ancora proprio in questi termini, ma nell’Uno c’è già tutto: tutte le cose che ci sono qui, queste sigarette, l’accendino, sono già lassù. È l’unico modo che Plotino ha pensato per potere garantire in assoluto che le cose di quaggiù siano quelle che sono: perché ci sono le stesse cose lassù, che sono immobili, eterne, ecc. A pag. 1237. …gli esseri non possono esistere se l’Intelligenza non agisce, ma essa, con la sua attività, produce un essere dopo l’altro, vagabondando, per così dire, per ogni dove, ma senza tuttavia uscir fuori di se stessa, poiché alla natura della vera Intelligenza appartiene il vagabondare… Non è dato sapere perché. …ma le appartiene anche di correre tra le essenze, mentre le essenze, a loro volta, corrono insieme con Lei. Essa è ovunque se stessa e perciò il suo vagabondare è qualcosa di stabile e si effettua nella “pianura della verità” dalla quale non si allontana mai. Ma l’Intelligenza la occupa tutta quanta e se ne fa, per così dire, un luogo per il suo movimento, e qui lo spazio è identico all’Intelligenza di cui è luogo. /…/ Tutto il suo cammino si svolge ininterrottamente attraverso la vita e gli esseri viventi, come accade a chi viaggia per la terra, al quale la terra che egli percorre è sempre terra benché essa abbia le sue diversità. Anche lassù la Vita, attraverso la quale corre l’Intelligenza, è sempre la stessa, ma poiché è sempre diversa non è la stessa. È la questione che riprende ogni tanto, perché se la ritrova: la questione dell’uno e dei molti. Questione che lui deve risolvere assolutamente e che risolve malamente. È diversa ma uguale, è una cosa di cui non riesce a sbarazzarsi, ciascuna cosa è quella che è ma anche non lo è. Da qui la necessità che ci sia un qualcuno, un qualcosa, l’Uno, il quale dà ordine a tutto perché, se non ci fosse l’Uno, allora ciascuna cosa è ciò che non è, è il caos, è l’impossibilità questo lo diceva Aristotele negli Analitici secondi – l’impossibilità di stabilire con certezza una premessa maggiore, cioè, l’universale, e se non c’è universale non possiamo affermare niente con certezza. E, allora, ecco la necessità di un Uno che sovraintenda e sovrasti ogni cosa e dia a ciascuna cosa un ordine, che altrimenti non ha, perché ciascuna cosa è quella che è ma anche il suo contrario, non c’è nessun ordine, è l’ᾂπειρον di Anassimandro. Perciò l’Intelligenza è essa stessa, le altre cose ed è tutto; se è Intelligenza è tutto, ma se non è tutto, non è più intelligenza. Ma se è tutto – in quanto è tutte le cose e non c’è nulla che non ne faccia parte – in Lei non c’è nulla che non sia diverso, affinché anche questo, pur essendo diverso, concorra al tutto: infatti, se non ci fosse “alterità”, ma soltanto “identità”, questa diminuirebbe l’essenza dell’Intelligenza, perché non contribuirebbe a perfezionare la natura del “diverso”. Qui bisogna prestare attenzione alle parole che dice. L’alterità, a che cosa serve? A raddrizzarla. Il nemico a cosa serve? A vincerlo e ricondurlo alla ragione. Dice perché non contribuirebbe a perfezionare la natura dell’universo, dice a perfezionare, il che vuol dire che non è perfetto perché, se è diverso, allora non è perfetto. Per renderlo perfetto bisogna raddrizzarlo, cioè, fare in modo che incominci a pensare come penso io; di questo si tratta alla fine. A cosa serve il nemico? A essere vinto, quindi a essere piegato alla mia ragione, e, se lo vinco, me ne serve subito un altro da piegare alla mia ragione. A pag. 1239. Il Bene esiste di per sé, ma l’Intelligenza è buona in quanto fa consistere la sua vita nella contemplazione (dell’Uno); essa contempla, ma gli oggetti che contempla hanno anch’essi la forma del Bene e li possiede da quando contempla la natura del Bene. Vi ricordate? L’intelletto, contemplando il Bene, cioè, pensando, fa esistere ciò che pensa. Ma questi giungono a Lei, non perché esistano già lassù, bensì in quanto il Bene gli ha già in sé:… Pare una contraddizione: questi elementi che possiede, contemplando il Bene, dice, giungono a Lei, non perché esistano già lassù, bensì in quanto il Bene gli ha già in sé. Cioè, esistono lassù, allora. Quindi, esistono o non esistono? Egli è infatti il Principio e da Lui scendono nell’Intelligenza e l’Intelligenza è colei che li crea muovendo dal Bene, perché non è permesso che l’Intelligenza, guardando al Bene, non pensi nulla… Quindi, le cose incominciano a esistere quando l’Intelligenza pensa l’Uno, pensa il Bene. A pag. 1241. …quando l’Intelligenza guarda al Bene, pensa quell’Uno come molteplicità… Se uno pensa, pensa la molteplicità …e, benché questo sia Uno, lo pensa forse molteplice e lo frantuma in sé perché è incapace di pensarlo tutto insieme? L’Intelligenza, quando guarda Lui, non è ancora intelligenza ma lo guarda in un modo non ancora intellettuale. Dovremmo piuttosto dire che essa non lo vede ancora veramente, ma vive rivolta verso di Lui e si volge a Lui; questo movimento, per opera del movimento che è lassù e intorno a Lui, porta a compimento se stesso e non è più un puro e semplice movimento, ma un movimento perfetto e completo; esso diventa poi tutti gli esseri e ne ha coscienza in quanto ha coscienza di se stesso. Questo è il movimento dell’intelletto intorno all’Uno: l’intelletto pensa all’Uno, grazie all’Uno, e pensando all’Uno genera le cose, che sono il suo pensiero. Pag. 1243. Ecco come avviene la nascita degli esseri: prima deve esistere l’essere in atto, e ciò che viene dopo deve essere in potenza ciò che gli è anteriore; il Primo è al di là degli esseri secondi e colui che dona è al di là di ciò che è donato, perché è superiore. Perciò, se esiste qualche cosa anteriore all’atto, essa è al di là dell’atto e quindi anche della vita. Se dunque in questa Intelligenza c’è vita, Colui che dona ha dato, sì, la vita ma è anche più bello e più prezioso della vita. Continua a dirci che c’è un qualche cosa che è al di sopra, che è più bello, ecc. Come dicevo, non aggiunge un granché rispetto a tutto ciò che ha già detto. A pag.1247. Si fa una domanda. La Vita è un bene in quanto venga considerata in se stessa, nella sua semplicità? No, soltanto la vita che deriva da Lui. Ma la vita deriva da Lui che altro è se non la vita di questa specie? Ripetiamo, che cos’è la vita di questa specie? La vita del Bene. No, non è la vita del Bene, ma quella che viene da Lui. Ecco, abbiamo costruito quella fantasia nota come sacralità della vita. Perché la vita è sacra nessuno lo sa. La vita è sacra perché lo ha detto Plotino, perché viene da Dio, ce l’ha data Dio. Poi vedremo come i teologi medievali hanno arrangiato la cosa, devono ricorrere anche loro all’unica soluzione possibile, che è quella che aveva proposta Plotino, e cioè la processione: il figlio procede dal padre, e lo spirito procede dal figlio che procede dal padre, il quale non procede da niente. E qui, infatti, lo dice. …anche la vita non è un bene in sé e per sé semplicemente, ma solo perché viene riconosciuta come vita vera e perché deriva da Lui.
Intervento: C’è già un debito originario…
Sì, perché parla di dono, ne parlerà poi anche il cristianesimo: la vita è un dono di Dio, la vita è un dono dell’Uno, e attraverso l’Intelletto passa all’Anima, la quale poi produce tutte le varie cose, ma ciascuno deve la sua esistenza all’Uno. A pag. 1261, Ora, se abbiamo ragione, l’ascesa di cui parliamo comporta il bene che consiste in una sua natura: infatti non è il desiderio che crea il Bene… Che era la tesi dei filosofi, anche presocratici, in fondo anche dello stesso Aristotele: tutti quanti vogliono qualche cosa; con questo qualche cosa, che tutti vogliono, intendiamo il bene. Plotino dice no, perché in questo caso il bene sarebbe un risultato. Infatti, dice che non è il desiderio il desiderio che crea il Bene, ma il desiderio esiste perché c’è il Bene. In ogni caso c’è sempre prima l’Uno. La tesi opposta, invece, dà da pensare che il bene segua il fatto che tutti quanti cercano qualcosa, quindi c’è un bene. Ma questo è un risultato, mentre no, dice Plotino, il desiderio vuole il bene perché c’è il bene; è il bene che innesca il desiderio, non il contrario. A pag. 1263. Che la materia sia il male… Ricordate, la materia è il non-essere, quindi, è il più infimo gradino dell’esistenza. …è già stato affermato; ma se essa è qualcosa d’altro, per esempio, cattiveria, e se il suo essere ne abbia coscienza, forse che la sua tendenza verso il meglio sarebbe il suo bene? Non è la cattiveria che sceglie il meglio, ma colui che è diventato cattivo. Ma se il suo essere è identico al male, come può scegliere il bene? E se il male avesse coscienza di se stesso, potrebbe amare se stesso? Domande che nessuno di voi si è mai fatto, immagino. Noi, infatti, non abbiamo riposto il Bene in ciò che è “proprio”. /…/ Ora, se in tutti i casi, il Bene è forma e se, quanto più si sale, tanto più la forma è forma… Come faccia la forma a essere più forma, non è chiaro. … l’anima infatti è forma di più della forma corporea e, nell’anima, c’è una parte che vale e un’altra che vale ancor di più; e l’Intelligenza è forma più dell’anima, il Bene perciò è dalla parte di ciò che è antitetico alla materia, cioè di ciò che è puro e nudo e appartiene a ogni cosa secondo le possibilità di ciascuna; ma il Bene sommo appartiene a chi si è liberato di ogni elemento materiale. La natura del Bene è lontana da ogni materia o, meglio, non le si avvicina affatto, in nessun modo, ma rimane consolidata in una natura informe da cui discende la prima forma. Qui se la prende con Aristotele, naturalmente. La materia per Plotino è il male assoluto, è praticamente i molti. Ora, in Aristotele non c’è materia senza forma. Plotino, invece, li tiene ben separati, perché per lui la forma è importante, la forma è qualche cosa che c’è anche lassù, e la materia non può essere lassù. Quindi, deve tenere distinte materia e forma, e non come faceva Aristotele che diceva che non esiste nessuna materia senza una forma, e viceversa. È una delle questioni importanti in Plotino, mantenere separata la forma dalla materia. La materia deve poter essere isolabile, perché altrimenti vuole dire che il male, cioè i molti, non si riesce in nessun modo a separarli dall’uno, il che è un grossissimo problema. Quindi, bisogna trovare il modo perché i molti, cioè il male, cioè la materia, sia isolabile. Come? Ponendola come non-essere. Il che non vuol dire che non c’è, difatti c’è, ma è il contrario dell’essere, cioè, è agli antipodi dell’essere. Qui ancora sul bene. A pag. 1273. Dice: la Bellezza lassù è la natura del Bene intelligibile. La bellezza di lassù è quella che ciascuno cerca. Ne è testimonianza ciò che sentono gli amanti; finché l’amante si attiene a ciò che appare nel sensibile, egli non ama ancora; ma quando, da quella figura, egli genera in sé stesso, nella sua anima indivisibile, un’immagine invisibile, allora nasce l’amore;… Sta dicendo una cosa che poi è stata ripresa, anche senza saperlo, dalla psicanalisi. La persona, per esempio la donna che vedo, non è lei in quanto tale, ma è ciò che io vedo in lei, l’immagine che io mi faccio di lei. Ora, per Plotino quest’immagine che ci si fa di lei, della donna, è un’immagine che viene dalla bellezza che c’è lassù, ed è questa che fa innamorare. Anche questo è un retaggio platonico, e viene dal Convivio. Ma se comprende che bisogna risalire a ciò che è ancora più spoglio di forma, allora potrà tendere a Lui, poiché l’amore che egli senti da principio non era che il fioco raggio di un’immensa luce. Ha visto la donna, gli è piaciuta, ma gli è piaciuta perché? Perché ha visto in questa donna l’idea della bellezza che sta lassù, la bellezza assoluta. Si diceva prima della psicanalisi. Certo, la psicanalisi non parla di bene assoluto, ma in questa immagine che io mi costruisco, che cosa c’è? Per Freud probabilmente è l’immagine della mamma; comunque è un’immagine che viene costruita come immagine della bellezza, ma che non procede dall’uno – Freud non sapeva neanche chi fosse Plotino. Rimane, però, ancora l’idea che questa immagine, comunque, si rivolga a un qualche cosa di ineffabile, a un qualche cosa che trascende: questo rimane e questo è neoplatonico. A pag. 1281. Di Lui (l’uno, Dio) non possiamo nemmeno dire che “è”, poiché di questo “è” non ha affatto bisogno. E nemmeno possiamo dire che “è buono”: questo possiamo dirlo soltanto per una cosa che “è”, ma anche in questo caso, questo “è” non vale quanto quando una cosa viene predicata di un’altra, ma soltanto per indicare ciò che “è”; e quando di Lui diciamo “il Bene”, non adoperiamo questo termine come attributo, cioè come una cosa che gli appartenga, ma come Lui stesso. È la teologia negativa, cioè, non possiamo dire ciò che Dio è, ma soltanto ciò che non è. E poi, non intendiamo dire di Lui che “è bene”, e nemmeno intendiamo preporre a Bene l’articolo, quasi che, se si eliminasse l’articolo, non si avrebbe più nulla da designare; perciò, noi diciamo “il Bene” per non aver bisogno del verbo “è”; altrimenti, noi distingueremmo un soggetto e un predicato. Ecco i molti che compaiono sempre, sono la maledizione. Chi accetterebbe una natura che non abbia coscienza e conoscenza di sé? Ma che cosa dovrebbe conoscere? “Io sono”? Ma Egli non “è”. E perché non dovrebbe dire almeno “Io sono il Bene”? Ma così Egli si attribuirebbe di nuovo il predicato “è”. E se così Egli si limita a dirsi “il Bene”, che cosa aggiunge mai? Si potrebbe benissimo pensare il “bene” anche senza l’“è”, a meno che non lo si predichi di un altro soggetto; ma chi pensa di essere lui il bene deve esprimersi così: “io sono il bene”, altrimenti egli penserà, sì, il bene, ma non saprà che questo pensare è lui stesso. È dunque necessario che il pensiero sia: “Sono il bene”. E se il pensiero stesso è il Bene, esso non sarà pensiero di sé ma del Bene, ed Egli stesso non sarà il Bene, ma il pensiero;… Di nuovo, questi molti non si riesce a toglierli di mezzo. …ma se il pensiero del Bene è diverso dal Bene, allora il Bene esiste ancor prima del pensiero che Egli ne ha. a se il Bene esiste prima del pensiero, Egli, essendo sufficiente a se stesso, non ha fatto bisogno del pensiero che lo pensi per essere il Bene. Egli, dunque, non pensa se stesso in quanto Bene. Deve togliere anche il pensiero, deve togliere tutto, perché qualunque cosa permanga è i molti, cioè, il male. A pag. 1285. Che in lui non debba esserci pensiero, lo sanno bene coloro che sono stati in contatto con tale natura. È però necessario aggiungere a ciò che abbiamo detto, qualcosa di persuasivo, ammesso che sia possibile adoperare la parola; è necessario, infatti, che al rigore delle dimostrazioni si aggiunga la persuasione. Qui anticipa Perelman. Chi riflette su questo problema, deve sapere che ogni pensiero deriva da un essere e appartiene ad un essere. Io penso una cosa, e questo viene da me, appartiene a me. C’è un pensiero, unito alla cosa da cui deriva, il quale ha per soggetto l’essere di cui è il pensiero e al quale è sottoposto, in quanto è il suo atto e ne porta a compimento la potenza, ma esso non genera nulla, poiché il perfezionamento di quell’essere, di cui è Il pensiero. Se penso qualche cosa, questo qualche cosa è già altro rispetto al mio pensiero. Però, dice che c’è un pensiero unito alla cosa da cui deriva, che ha per oggetto se stesso, cioè, si pensa da sé. Il pensiero, invece, che unito all’essere e lo fa esistere, non può in ciò da cui proviene, poiché se fosse in esso non genererebbe nulla. Il pensiero genera in quanto rivolto ad altro, ricordate il λέγειν τί, se dico dico, qualcosa. Questo pensiero invece, essendo in se stesso potenza di generare, genera; il suo atto è essere, e per ciò coesiste nell’essere; di conseguenza questo pensiero e questo essere non differiscono fra loro, e se questa natura pensa se stessa, il pensato e il pensante sono diversi soltanto logicamente, poiché il pensiero e molteplicità, come si è dimostrato più volte. Qui cerca di arrangiarla. Se c’è pensiero c’è molteplicità. Qual è il suo pensiero? Dice che questo pensiero e questo essere non differiscono fra loro, cioè, il pensiero e l’essere che lo pensa sono la stessa cosa. Dice e se questa natura pensa se stessa, il pensato e il pensante sono diversi soltanto logicamente. Soltanto logicamente sono diversi, ma, potremmo dire, ontologicamente sono la stessa cosa. Però, si rende conto che questa molteplicità non riesce a toglierla di mezzo. E allora che cosa dice? Dice che, sì, c’è questa molteplicità, ma solo logicamente, perché in Lui non c’è. Perché? Perché no. Logicamente, come se la logica non attenesse al pensiero. A pag. 1289. Mentre tu, a questo punto, ti senti imbarazzato e ti chiedi dove collocare le realtà, alle quali il ragionamento ti ha condotto, respingi pure fra gli esseri di secondo grado le realtà che stimi sacre e non voler assegnare al Primo attributi di secondo grado e a Secondi attributi di terzo grado; colloca invece le realtà di secondo ordine intorno al Primo è quelle di terz’ordine intorno ai Secondi (cerchi concentrici); soltanto così potrai lasciare ogni cosa al suo posto e sospenderai dalle cose superiori le cose inferiori, in quanto queste circolano intorno agli esteri che sono in se stessi. In questo senso è detto giustamente “Intorno al Re di tutte le cose stanno tutte le cose, e tutte esistono per Lui”; e qui con “tutte le cose” si intendono tutti gli esseri, e si dice “per Lui”, perché Egli è causa, per loro, anche dell’essere; e gli esseri tendono a Lui che è diverso da tutte le cose e non possiede nulla di ciò che ad esse appartiene; altrimenti esse non sarebbero più tutte le cose, se a Lui appartenesse qualcuna delle altre cose che vengono dopo di Lui. Se dunque anche l’Intelligenza rientra in tutte quelle cose, nemmeno l’Intelligenza appartiene a Lui. Questo l’abbiamo già visto: non c’è Intelligenza nell’Uno, perché nell’Uno non c’è niente. Platone, però, chiamandolo “causa di ogni bellezza”, colloca evidentemente il bello fra le idee, ma colloca Lui al di sopra di ogni bellezza. In tal modo, ponendo le cose belle fra gli esseri di secondo grado, egli afferma che da esse dipendono quelle successive di terzo grado; e se intorno agli esseri di terzo grado colloca le cose che ne derivano, è evidente che ciò che ne deriva è questo mondo che rientra nell’Anima. L’Anima, la terza ipostasi. Ora, se l’Anima è sospesa all’Intelligenza e l’Intelligenza sospesa al Bene, allora tutte le cose sono sospese a Lui per mezzo di intermediari, alcuni vicini, altri prossimi ai vicini, mentre le cose sensibili, sospese all’Anima, sono le più lontane. Le cose sensibili, fino ad arrivare alla materia, che è quella più infima, come abbiamo visto. Siamo all’ottavo trattato. Però, che cosa ci ha detto Plotino in tutto ciò? Qui c’è una questione importante, perché ciò su cui lui continua a insistere è che ciò che è causa di tutto, è niente. È niente perché non è determinabile, nemmeno gli si può attribuire l’essere, non possiamo nemmeno dire che è, non possiamo dire niente. Quindi, c’è un nulla in fondo, un niente da cui tutto quanto procede. Cosa ripresa anche da Heidegger, tra l’altro, quando diceva, preso in giro da Quine: il nulla nulleggia. Quine sorrideva, lui era un logico matematico e queste cose lo facevano andare fuori di matto. Il nulla nulleggia, cioè, il nulla fa quello che deve fare: in quanto nulla produce tutto. È questo il fondamento della religione: il nulla è il fondamento di tutto. Il nulla, cioè, l’ineffabile, l’indicibile, l’inguardabile, l’indeterminabile, potremmo dire con Anassimandro, l’ᾂπειρον. Ora, dire una cosa del genere significa, in effetti, cogliere la questione centrale del discorso religioso. Che abbiamo sintetizzata qualche volta fa in questo modo: a fondamento di ogni dimostrazione c’è l’indimostrabile. È posto come fondamento perché, certo, e Aristotele lo dice: qualunque dimostrazione è fondata su niente, sulla doxa, ma non dice che questo è il suo fondamento; dice che non c’è il fondamento, non c’è verità epistemica, c’è solo la doxa. Invece, in Plotino e nella religione, l’assenza del fondamento diventa l’ipostasi, diventa il fondamento; cosa che in Aristotele non c’è, era la doxa, il pensiero comune. E questa è sicuramente, almeno in buona parte, la fortuna del pensiero religioso, perché pone a fondamento niente. Ponendo a fondamento niente, questo fondamento non si può esibire, non può essere sottoposto a critica, è così e basta. Facevo l’esempio qualche tempo fa: non sappiamo dove sia la verità, come sia, però c’è; non sappiamo che cosa sia la giustizia esattamente, però c’è il giusto; non sappiamo che cosa sia il bello esattamente, però il bello c’è, come riferimento. Questo è il pensiero religioso: c’è questa idea ineffabile. Ora, questo concetto di ineffabilità, cioè di indicibilità, è il fondamento, dicevo, del pensiero religioso, mentre nel pensiero antico dei presocratici l’ineffabile è assente. Anzi, addirittura, e lo vedremo, poi Porfirio si adopera per arginare, per emendare le categorie aristoteliche, perché in Aristotele non c’è l’ineffabile; per Aristotele la sostanza, che poi diventa, con un po’ di varianti, l’Uno di Plotino, è tutt’altro che ineffabile, non è altro che ciò che se ne dice. Capite la distanza immensa, e lo abbiamo ribadito varie volte, partendo da Aristotele, l’impossibilità di stabilire una qualunque ipostasi, è impossibile, assolutamente impossibile. Per questo dobbiamo leggere Porfirio, l’Isagoge, perché lui ci introduce alle categorie di Aristotele, purificandole. In effetti, moltissimi, ma lo stesso Reale, lo confermano: tutto Aristotele è stato letto in funzione del neoplatonismo. Ciò che leggiamo, ciò che di Aristotele si legge dappertutto, a scuola, all’università, non è Aristotele, è il neoplatonismo che legge Aristotele; che è tutt’altra cosa. Come abbiamo visto, Aristotele dice cose che sono infinitamente lontane da ogni pensiero religioso, quindi dal neoplatonismo, quindi dal cristianesimo. Quindi, come ha potuto Aristotele essere preso, soprattutto da Tommaso e poi da altri, come riferimento? Perché è stato letto attraverso il neoplatonismo. Porfirio è stato il primo a purificare le categorie, che erano la spina nel fianco, perché Aristotele nelle Categorie dice che la sostanza è soltanto ciò che se ne dice, che non esiste senza ciò che se ne dice; ma non che non esiste perché è ineffabile; no, perché, se non la dico non c’è, non dico niente. Sarebbe come il λέγειν τί senza il τί: non posso dire senza dire qualcosa, se dico nulla non dico. Ecco perché sarà molto interessante la lettura di Porfirio, sia dell’Isagoge sia delle Sentenze. Poi vedremo se leggere anche il Vangelo di un pagano e qualche altro scritto minore; di Porfirio è rimasto pochissimo. Non si sa come sia accaduto, ma tutto ciò che ha scritto Porfirio è andato perduto. Ma ha avuto un effetto notevole perché, dopo di lui, Proclo, un secolo dopo più o meno, ha ripreso tutta la questione, dando anche lui la sua versione di Aristotele. Proclo scrisse un testo famoso che si chiama Teologia platonica, stesso titolo utilizzato molti secoli dopo anche da Ficino. E abbiamo fatto bene a indicare ogni teoria che si costruisce come una teologia platonica, cioè, ogni teoria ha bisogno di qualche cosa di ineffabile su cui fondarsi, qualcosa di indimostrabile. Si dà per scontata l’esistenza dell’universale e la sua consistenza, mentre non c’è l’universale, che è fatto gli infiniti particolari. Quanti? Quelli scelti di volta in volta.