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11 agosto 2021

 

Lezioni sulla storia della filosofia di G.W.F. Hegel

 

La volta scorsa ci siamo soffermati sulla questione della finalità. Vedremo ora come questi aspetti, l’entelechia, la finalità, l’etica e la politica, siano tutte facce di un’unica questione che Aristotele stabilisce per potere confermare ciò che andava costruendo, e cioè la metafisica, uno strumento di potere. La finalità, consente di sapere qual è il fine, il τέλος, il suo obiettivo e, quindi, consente di conoscere, di gestire. Se non c’è nessun fine nelle cose, come dicevano gli atomisti Democrito e Leucippo, non c’è alcuna possibilità di controllo e quindi di gestione, di dominio sulle cose. La finalità è quindi una delle armi più potenti del controllo, del dominio: sapere qual è il fine di qualche cosa, sapere qual è il mio fine, sapere qual è il fine di tutto. Se io riesco a far credere a tutti quanti che ciascuno di loro ha un certo fine allora so come si comporteranno, perché so come ciascuno pensa di dovere comportarsi e, quindi, ne avrò il controllo. Aristotele, per stabilire la certezza che esista il fine – di fatto, non esiste questa certezza, è una costruzione – muove dall’entelechia, cioè dalla considerazione della potenza e dell’atto: non c’è l’atto senza la potenza e la potenza è qualcosa che ha il proprio fine nell’atto, lo dicevamo la volta scorsa. Cosa che è assolutamente arbitraria se si considera la questione del significante e del significato: non è che uno sia il fine dell’altro, sono simultanei. Tuttavia, Aristotele, per corroborare questa sua idea, muove dalla fisica, e cioè dal fatto che nella natura si osservi proprio questo, che dal seme di qualcosa nasce quel qualche cosa e non un altro: dal seme di un leone non nascerà mai un dinosauro. Quindi, c’è l’idea che il fine sia insito nella natura delle cose e, più propriamente ancora, che il fine sia teoreticamente concepito come la necessità che ciò che è in potenza si traduca in atto, che soltanto l’entelechia, cioè il compimento nell’atto, sia la naturale essenza delle cose. Questo è stato fondamentale e lo stiamo vedendo qui come si sta costruendo per stabilire un’etica. L’etica ha bisogno che ci sia un fine, un bene a cui tendere: solo allora posso proporre un’etica, solo se so cosa occorre fare, se so cosa è il bene, in definitiva. E questo è ciò che fa ciascuna ideologia. Ciascuna ideologia necessita di un’etica, e cioè dell’idea di un bene trascendente, un bene che non sia qui e adesso ma sia da raggiungere, cioè che faccia parte del compimento di qualche cosa. E l’etica è la condizione della politica: senza l’etica la politica non sa che direzione prendere perché non sa che cosa è bene e cosa è male. Quindi, una parte teoretica, l’entelechia, che mostra la necessità di una finalità; la finalità come condizione dell’etica; l’etica come condizione della politica; il tutto sostenuto dalla logica, cioè da argomentazioni che devono mostrare la verità di queste affermazioni. Questo è l’impianto generale del pensiero di Aristotele, pensiero che ha avuto molto successo perché ha costruito il modo di pensare tanto che oggi risulta assolutamente ovvio, scontato che le cose abbiano un fine. Risulta altrettanto scontato il fatto che ciascuno debba lavorare, sacrificarsi per quel fine, perché così è nella natura delle cose. Questo è ciò che Aristotele ha costruito, inventato, letteralmente. Come sappiamo, prima di lui la cosa non era né così certa né così praticata, anzi, per Democrito era esattamente l’opposto, ma anche con gli eleati e con i sofisti non c’era alcuna possibilità di costruire un’etica. Per costruire un’etica occorre pensare alla finalità come a qualcosa di necessario; perché ci sia qualcosa di necessario occorre che ci siano delle argomentazioni: una è la natura, l’altra è l’aspetto teoretico, cioè della δύναμις e della νέργεια, della potenza e dell’atto. Queste in un certo qual modo rimangono anche in Hegel, solo che in Hegel questi due momenti sono inseparabili, costituiscono una unità; mentre, perché possa darsi una finalità, occorre che rimangano separati, e cioè che la potenza sia da una parte e dall’altra il suo compimento; non possono essere simultanei sennò il compimento sarebbe già qui e, quindi, non avrei nulla da raggiungere e, quindi, non ci sarebbe un’etica e, pertanto, neanche una politica. Ma vediamo cosa ci dice qui Hegel. Il capitolo è quello della filosofia della natura. Dobbiamo qui anzitutto esaminare il concetto di finalità come momento ideale nella sostanza… La sostanza è il pensiero; quindi, l’ideale del pensiero è la finalità. Aristotele comincia con l’affermare che naturale è ciò che si conserva e che ogni difficoltà sta appunto nel capire questa verità. Il fatto che si conservi lui lo argomenta facendo appunto l’esempio del seme: il seme di un pomodoro produrrà un altro pomodoro, non cambia, il seme del pomodoro non produrrà un’anguria. Si presenta anzitutto il dubbio che cosa impedisca alla natura di operare non secondo uno scopo, secondo ciò che è meglio,… Qui introduce il meglio. Il meglio sarebbe questo, che il seme del pomodoro produca un pomodoro. Ma perché dovrebbe essere meglio? Naturalmente, a lui serve per potere stabilire la finalità come bene ultimo …ma comportarsi piuttosto come Giove manda la pioggia, non perché i cereali crescano ma per necessità: il vapore spinto in alto si raffredda, l’acqua raffreddata precipita in pioggia ed è un caso che in tal modo prosperino le messi; parimenti, allorché che ad uno vadano male le messi, non piove già perché avvenga questo danno, ma la cosa avviene a caso. Cioè, vi è un nesso di necessità ma esso è un rapporto estrinseco e qui è appunto l’accidentalità così della causa come dell’effetto. Orbene, se così è, che cosa ci impedisce di ammettere, domanda Aristotele, che quelle che sembrano parti, per esempio, di un animale non possano secondo natura comportarsi così a caso? A fine pagina mostra la sua posizione. Ma la natura, in quanto entelechia, è ciò che genera se stessa. Perciò Aristotele replica: questo modo di vedere è assurdo. Infatti, ciò che accade secondo natura accade sempre o almeno per lo più, non così invece ciò che si compie per effetto della sorte e del caso. Inoltre, ciò in cui è uno scopo è fatto in conformità a questo, ossia in ciò che precede sia in ciò che segue, sicché il modo in cui una cosa è fatta è verso la sua natura, ed ogni cosa è fatta secondo la sua natura, essa è fatta pertanto in virtù della sua natura. Natura significa appunto che una cosa diviene ciò che era già in lei sin da principio e questa interna universalità e finalità si realizza. /…/ In questa affermazione di Aristotele è tutto il vero e profondo concetto del vivente, che deve considerarsi come fine autonomo in sé, alcunché di identico a sé, che si stacca da se stesso nel suo estrinsecarsi rimane identico col suo concetto, in una parola: l’idea che realizza se stessa. Il che non è scorretto, ma il fatto che l’idea realizzi se stessa per Aristotele non avviene nel momento in cui si compie, è una finalità, è il suo fine, non è già qui e adesso come lo è per Hegel e per Gentile. Il fine non può certamente fare a meno del necessario ma lo tiene in suo potere, non gli permette di fare a modo suo, impedisce la necessità esterna. Il principio della materia è dunque sovvertito nella ragione veramente motrice del fine, che consiste nel rovesciamento di questa necessità affinché il naturale si conservi nel fine. La necessità è la manifestazione oggettiva dell’operare dei suoi momenti in quanto separati, così in chimica l’essenza dei due estremi, base e acido, è la necessità del loro rapporto. L’operazione che sta facendo Aristotele è interessante perché sta volgendo la questione della finalità da puramente casuale, nel senso che questa cosa ha un fine in un’altra cosa ma possiamo anche dire il contrario… mentre lui sta cercando di mostrare che il fine è una necessità, ha una necessità intrinseca, e cioè le cose non possono essere senza un fine, perché la potenza non può essere senza l’atto. E torniamo alla questione di prima: è certo che la potenza non può essere senza l’atto, ma sono simultanei, per cui non c’è qualcosa che è condizione o causa dell’altro. Andiamo avanti. Abbandona poi provvisoriamente la questione della finalità per parlare della questione del tempo. Qui è sempre in contrasto con gli eleati. Il tempo è indubbiamente indivisibile ma alcune sue parti sono passate, altre saranno e nessuna c’è ora. L’adesso non è una parte; infatti, la parte ha una misura e il tutto deve constare di parti, ma il tempo non sembra constare di adesso. /…/ Infatti, il movimento, la mutazione, avvengono o in una cosa che venga mossa o mutata o là dove si compie il movimento e la mutazione, mentre il tempo è dappertutto identico. Ancora, la mutazione e il movimento sono più rapidi o più lenti, il tempo no; tuttavia, esso non è senza mutazione e movimento, che è appunto il momento della pura negatività in esso. Infatti, quando non si percepisce alcuna mutazione sembra non esservi tempo, per esempio nel sonno; quindi, il tempo è nel movimento ma non è esso movimento. Aristotele lo determina così: vi è tempo allorquando nel movimento distinguiamo un prima e un poi, ma questi si determinano in guisa che noi dobbiamo ritenerli l’uno diverso dall’altro e fra di essi dobbiamo ammettere ancora un’altra cosa diversa, un medio. Orbene, quando pensiamo i due estremi della conclusione come un che di diverso dal medio e l’anima che afferma come due cose, di cui l’una precede e l’altra segue, diciamo che vi è tempo. Denominiamo tempo dunque ciò che è determinato dall’adesso e questa è la determinazione fondamentale. Qui non so se Aristotele lo precisa, ma non credo. Fa sorgere il tempo dal pensiero, cioè dal movimento del pensiero, che è ciò che produce l’idea stessa di movimento. Aristotele lo riferisce al sillogismo, cioè una premessa maggiore e una premessa minore e, quindi, una conclusione. Il tempo, dunque, è questo movimento che va da una premessa alla conclusione. Però, non è così che la dice qui Aristotele. Sembra porre il tempo come qualcosa che scaturisce dal pensiero. Secondo Aristotele l’identità dell’intelletto non è dunque principio, anzi, identità e non identità sono per lui una sola e medesima cosa, mentre l’adesso è soltanto adesso, passato e futuro differiscono da esso ma allo stesso tempo questi si ricongiungono necessariamente nell’adesso, che non è senza un prima e un poi. Dunque, essi sono in uno e l’adesso, come loro limite, è a un tempo tanto la loro unione quanto la loro separazione. Descrive il tempo come se fosse un sillogismo, dove c’è il medio che unisce i due e fa di questi due una unità. È per questo che prima dicevo che sembra far sorgere il tempo da una considerazione intorno al modo in cui si pensa, dal pensare stesso. Ora considera Zenone. Quindi, Aristotele nel VI Libro passa ad esaminare la dialettica zenoniana di questo movimento e mutamento, cioè, precisamente quella divisibilità infinita, di cui ci siamo già occupati. Egli la risolve mediante l’universale: movimento e mutamento sono appunto questa contraddizione, l’universale in se stesso opposto. L’unità in cui si risolve i loro momenti non è un nulla, per modo che il movimento e il mutamento non siano, sibbene un universale negativo in cui il negativo medesimo è di nuovo posto come positivo e questo è appunto il concetto della divisibilità. Qui è più Hegel che parla di quanto lo sia effettivamente Aristotele. Sì, lui accenna a una soluzione del problema di Zenone, che in Aristotele non è propriamente in questi termini precisi, e cioè il fatto che, per dirla in modo molto semplice, Zenone veda Achille che sorpassa la tartaruga, questo è come l’in sé, l’immanente, ciò che vedo, ma il non potere concettualizzare ciò che vede è come il per sé. Ora, in Hegel questi due momenti, come sappiamo bene, si integrano (Aufhebung) e diventano uno, un’unità, cioè, non ci sono più un in sé e un per sé separati ma sono la stessa cosa. Quindi, in fondo, il problema di Zenone è il problema del linguaggio, e cioè che il mio dire non è ciò che il mio dire dice, sono due cose diverse ma non posso intenderle separatamente, non posso separarle in quanto sono due momenti dello stesso. Aristotele si addentra in altri particolari, combatte gli atomi e il loro movimento osservando che l’indivisibile non ha movimento né mutamento. L’atomo è letteralmente l’indiviso. Ed enuncia così un’affermazione contraria a quella di Zenone, secondo cui esiste solo l’essere semplice e indivisibile e non esiste il movimento. Infatti, mentre Zenone dalla indivisibilità degli atomi argomentava l’inesistenza del movimento, Aristotele dal movimento argomenta l’inesistenza degli atomi. Vi ricordate, l’aporia della freccia: la freccia in ogni istante occupa uno spazio, un punto, e questo è indivisibile, quindi, identico a sé e pertanto non può mutare o spostarsi, è lì fermo. È in buona parte la posizione di Severino: è un eterno che non può in nessun modo mutare. Quindi, dice, mentre Zenone dalla indivisibilità di questo punto nel tempo argomenta l’inesistenza del movimento, Aristotele invece dal movimento deduce l’inesistenza dell’atomo, cioè che questa cosa, ferma, fissa – la freccia è ferma, fissa, perché bloccata nel suo spazio – questo per Aristotele non accade. Tutto ciò che si muove e si muta nella prima misura di questo tempo è in parte qui e in parte là, ma l’atomo, come essere semplice, è indivisibile, non può avere alcunché di se in due punti nello spazio, altrimenti sarebbe divisibile. Quindi, il divisibile potrebbe muoversi soltanto se il tempo constasse ad esso, ma abbiamo già visto che ciò è impossibile perché l’adesso non c’è… L’adesso non c’è perché c’è in quanto non prima e non dopo, ma lui in quanto tale non è isolabile. …perché in tal guisa gli atomi non hanno in loro mutamento né possono riceverlo dall’esterno /…/ essi non sono veri. Quindi, nega l’esistenza dell’atomo, dell’indivisibile, che era l’argomento su cui si fondava Zenone. In effetti, non è che confuti nulla perché dice semplicemente che l’atomo, essendo indivisibile, non può portare a un movimento. Perché ci sia movimento è necessario che non ci sia atomo. È questa la sua argomentazione: se c’è movimento allora non c’è l’atomo, perché l’atomo è fermo. È tutta qui la sua argomentazione. La forma attiva è la vera sostanza. La materia, invece, è soltanto in potenza. Questo è un concetto meramente speculativo. È chiaro che Hegel è assolutamente d’accordo, era un grande ammiratore di Aristotele. La forma attiva è la vera sostanza, cioè è il pensiero; la materia è solo in potenza, sarebbe l’in sé, che è in potenza. Ogni universale è reale come particolare… Infatti, non posso parlare di universale se non astraendolo. …singolare, come cosa che è per altro. Ma l’universale, di cui si parla, è reale nel senso che esso è di per sé senza altro mutamento, il suo primo genere /…/ ulteriormente esso non appartiene più a questa sfera, sibbene a una superiore. Queste determinazioni generali sono di grande importanza e svolte condurrebbero a una vera concezione dell’organico in quanto espongono esattamente il complesso principio della realizzazione… E cioè che, ciascuna volta che considero il concreto, lo considero astrattamente. Soltanto se potessi considerare tutto l’astratto, tutto l’astratto che c’è nel concreto – questo è il problema di Severino – allora il concreto diventerebbe effettivamente reale, ma questo non si verificherà mai, in nessun modo, per una serie di motivi. Primo, perché questo concreto è già qui mentre ne parlo, non devo cercarlo in nessun modo; secondo, questo mi porterebbe a una regressione infinita, che non raggiungerà mai, perché ogni volta che parlo di qualche cosa questo qualcosa prevede tanto il concreto quanto l’astratto e, quindi, ogni volta che ne parlo lo ricostruisco, lo ricreo all’infinito. La causa di ciò sta nel fatto che l’attività senziente si indirizza all’individuale e il sapere invece all’universale, e questo in un certo modo è nell’anima stessa come sua sostanza. L’attività senziente si indirizza all’individuale, cioè alla cosa, all’ente; il sapere, invece, si indirizza all’universale. Come dire che l’attività senziente si riferisce all’immanente, al significante, ma questo non può essere concepito senza un significato. Qui la passività dell’intelletto significa dunque soltanto la possibilità prima dell’atto: ecco il grande principio di Aristotele. E a sostegno di esso egli reca alla fine del capitolo un altro esempio famoso, che è stato anch’esso erroneamente interpretato: l’intelletto è come un libro nelle cui pagine non sia scritto realmente niente, ma questa è carta e non un libro. Si dimenticano tutti i pensieri di Aristotele e si tiene conto soltanto di questi paragoni esteriori: un libro, su cui non sia scritto niente, ognuno lo può capire, e così è diventata, terminus technicus, la famigerata tabula rasa, che si può trovare dovunque si parli di Aristotele. Questi infatti avrebbe detto che lo spirito è come un foglio vuoto dove soltanto gli oggetti esteriori scrivono, così che per lui il pensiero deriverebbe dall’esterno. Senonché questo è proprio il contrario di quanto dice Aristotele: la rappresentazione invece da tenersi al concetto si sofferma a questi paragoni accidentali come se essi esprimessero la cosa. Ma Aristotele non ha inteso affatto di dare al paragone tutta la sua estensione: l’intelletto non è una cosa né ha la passività di una lavagna, esso è l’attività medesima che non opera fuori di lei. Dire che l’anima è questo libro non scritto significa dunque dire che essa è tutta in sé, ma è questa totalità in se stessa. Questo giusto per ricordare la questione della tabula rasa, che non c’è in Aristotele. In effetti, per lui, come dice qui, l’oggetto del sapere e il sapere in atto sono una sola e medesima cosa. Il sapere in potenza è in ordine al tempo anteriore nell’individuo, ma in sé non è in ordine al tempo… È anteriore ma non cronologicamente, lo è logicamente, potremmo dire. Tutto ciò che accade deriva da ciò che è in atto. Quindi, se tutto ciò che accade deriva da ciò che è in atto, anche il primum movens deve derivare da ciò che è in atto, ma il primum movens non è ancora in atto, è in potenza. È questo il movimento dialettico per cui l’atto ritorna sul primum movens e lo fa esistere in quanto tale. Ora torniamo alla questione del bene: l’etica. Aristotele non si appaga dell’idea platonica del bene, perché essa è soltanto l’universale, mentre per lui il problema è il modo di determinarlo. Ad Aristotele non interessa il bene come fine indeterminato, vuole una finalità determinata, che sia, quindi, possibile diffonderla, utilizzarla: solo se è determinata è utilizzabile. Il Bene di Platone per Aristotele non era ancora utilizzabile. Orbene, egli afferma che il bene è ciò che è fine in se stesso. Se traducessimo τέλειον con perfetto tradurremmo in modo inesatto; il bene è invece quanto ha in se stesso il proprio fine e desiderato non per altro ma per se stesso. Quindi, Aristotele fa della felicità lo scopo finale assoluto, in sé e per sé, e dà di essa la definizione seguente: essa (la felicità) è l’atto della vita in quanto è per se stessa, secondo la virtù che è in sé e per sé. Come condizione di essa egli pone ora l’accorgimento razionale osservando che ogni agire per impulsi di appetiti sensuali o, in generale, per difetto di libertà sia una mancanza di accorgimento, è un agire non razionale, vale a dire, un agire non fondato su un pensiero come pensiero. Invece, l’attività assolutamente razionale, egli dice, è soltanto la scienza, l’agire che si appaga in se stesso, e questa è perciò felicità divina. Nelle altre virtù c’è soltanto felicità umana… È come se ci stesse dicendo che Aristotele avrebbe trovato in questo concetto di felicità la determinazione del fine. Però, questa felicità è lo scopo finale assoluto e in sé e per sé, è l’atto della vita, è per se stessa, secondo la virtù che è in sé e per sé. Quindi, questa felicità non è altro che il compimento di ciò che è in potenza. Il porre, quindi, l’atto, l’agire, lo stesso concetto di felicità lo si ritrova in Austin: la felicità di un enunciato è la possibilità di un enunciato di essere compiuto. Lui diceva che se io sono a casa di amici e dico che sto varando una nave, il mio enunciato non è felice, cioè, non può compiersi, perché non c’è nessuna nave, non c’è niente; se, invece, sono in un porto, di fronte a una nave e lancio una bottiglia di spumante contro il fianco della nave, allora, sì, l’enunciato è felice. Tutto questo Austin lo prende da Aristotele, pari pari. La felicità per Aristotele è il compiersi di qualche cosa, è il fine, che altro non è che il compimento, il giungere all’atto di ciò che è in potenza, è questa necessità di ciò che è in potenza divenga atto. Per Aristotele si ha virtù quando le inclinazioni si comportano verso la ragione in modo da fare ciò che essa comanda. Questa è l’apertura verso la logica: si ha virtù quando ci si muove secondo ragione. Ma chi determina la ragione? Questo è un problema. Naturalmente, per rispondere a questa domanda Aristotele ha inventato la logica. È la logica che risponde a questa domanda, cioè, quando ci si muove secondo ragione, perché la felicità come virtù si raggiunge soltanto se si ragiona, soltanto se si è supportati dalla logica. Siamo ora alla politica. Tutto è determinato dalla entelechia e dalla potenza, sicché quando non vi è più entelechia non si può più dire che una cosa sia ancora questo, essa è tale solo di nome. Così lo Stato è l’essenza degli individui; l’individuo è nulla in sé e per sé, scisso dal tutto, così come è nulla qualsiasi parte organica di un corpo separata dal tutto. Ciò è in diretto contrasto con il principio moderno che fa punto di partenza l’arbitrio particolare dell’individuo come assoluto e vuole che tutti col loro voto stabiliscono quale deve essere legge e soltanto così possa costituirsi una comunità. Al contrario, per Aristotele come per Platone, lo Stato è il prius, il sostanziale, la cosa principale, perché il suo fine è il più alto per quel che concerne la pratica. Chi fosse incapace di tal vincolo o fosse indipendente da non averne bisogno sarebbe una bestia selvaggia o un dio. Nietzsche propenderebbe per la seconda. Soltanto un dio può non essere confacente a questo progetto etico-politico. Qui è interessante perché sta dicendo che ciascuno di per sé è nulla se non è preso in un fine che lo trascende: soltanto se preso in un fine che lo trascende allora diventa importante. E qui ecco la retorica, che fa leva su questo: se fai parte di questo fine, anche tu diventerai importante, sarai fondamentale. Del resto Aristotele non si è addentrato nella minuta descrizione di uno Stato come Platone; anzi, per quanto riguarda la costituzione politica egli si limita a dire che i migliori devono dominare /…/ Perciò egli non si preoccupa di determinare le forme della costituzione dello Stato. Per dimostrare che i migliori debbono dominare Aristotele afferma: i migliori soffrirebbero ingiustizia se fossero posti allo stesso livello degli altri, che sono loro inferiori per virtù e capacità politica. Infatti, chi eccelle in tal modo è pari a un dio fra gli uomini. Senza dubbio Aristotele, ciò dicendo, pensava al suo Alessandro, che doveva dominare come un dio e sul quale quindi nessuno poteva esercitare un dominio, neppure la legge. Per lui non v’è legge perché egli stesso è la legge. Lo si potrà forse espellere dallo Stato, non però dominarlo, come non si può dominare Giove. Non resta altro, e ciò è nella natura di tutti, che obbedire di buon grado a codesti uomini, che in tal modo sono in sé e per sé re negli Stati. La democrazia greca era oramai andata in rovina e Aristotele non poteva più attribuirle alcun valore. Obbedire di buon grado, ma per farli obbedire di buon grado è necessario che questi cittadini siano consapevoli di un fine che li trascende e che devono raggiungere e che, quindi, solo in questo modo è possibile farli soffrire in virtù di qualche cosa che verrà dopo e che è molto più importante. Dicevamo l’altra volta che se questa cosa molto importante, se la felicità, come la chiama Aristotele, fosse qui e adesso non potrei prometterla, cosa prometto se l’ha già?

Intervento: Sono questioni molto importanti…

Certo, ma la cosa interessante e divertente è vedere come questa cosa si stia creando nelle mani di Aristotele, la sta creando lui. Poi, è stata utilizzata fino ad oggi, naturalmente. Però, è lì che prende forma, prende vita questa cosa, con la questione della finalità, sorretta teoreticamente dal concetto di entelechia. Entelechia che è la condizione per la pensabilità di una finalità, che a sua volta è condizione di pensabilità dell’etica, che è condizione di pensabilità della politica, il tutto naturalmente se si procede secondo ragione, cioè, secondo la logica. Siamo giunti, quindi, alla parte dedicata alla logica. Nella logica formale e nei suoi concetti suole sempre essere implicita l’opposizione ad alcunché di reale... Nella logica formale ci sono solo simboli, non c’è niente di reale. …e ciò che dal punto di vista logico è reale è in sé un pensato. Per esempio, valore è una pura forma dell’astrazione. Ma questa logica dell’intelletto tende a contraffare le categorie dell’assoluto nei loro tre gradi: concetto e un che logicamente reale, quindi in sé semplicemente pensato, cioè possibile. Essa nel giudizio pone un concetto A come un soggetto reale e ad esso unisce un altro reale come concetto B. questo B deve essere il concetto e relativamente ad esso A deve avere un essere. Sono cose che sono. Se non c’è B non è altro che il concetto più generale… Se io dico che A è B, B mi dà la definizione di A, è il significato di A, quindi, è il concetto più generale. Nel sillogismo si cerca di imitare la necessità. Già in un giudizio vi è la sintesi di un concetto e di un essere che dovrebbe essere. Nel sillogismo esso deve assumere la forma della necessità col porre l’equazione di due opposti in un terzo termine, come terminus medius della ragione, allo stesso modo che nella medietà della virtù. Qui fa una connessione che è retorica, perché molto pilotata. Questo termine medio, che è necessario nel sillogismo, dice che è come nella virtù. La premessa maggiore esprime un essere logico, la minore una possibilità logica, perché per la logica Caio è semplicemente una possibilità, e la conclusione congiunge le due cose. Ma soltanto davanti alla ragione si spiega ciò che è vivo, poiché essa è la vera realtà. Il sillogismo “tutti gli animali sono mortali, Socrate è animale, Socrate è mortale”: qui la premessa maggiore “tutti gli animali sono mortali” è ciò da cui si parte, è un’affermazione che si potrebbe dire anapodittica in teoria, che non ha bisogno di essere dimostrata. Quindi, il termine medio è che Socrate è un animale: è una possibilità. La conclusione esprime invece un’altra necessità, e cioè che essendo animale Socrate è anche lui mortale. In secondo luogo ad Aristotele è messo in rilievo l’universale in generale, che non è genere, cioè non è in se stesso l’unità dell’universale e del particolare, ossia l’individualità assoluta e infinita /…/ Aristotele dice che quando si predica qualche cosa di un’altra come di un soggetto, ciò che si dice del predicato, vale a dire, ciò che in quanto universale si riferisce ad esso, vale anche per il soggetto. Questo è il comune sillogismo, già dal fatto che esso è accennato con brevità si scorge che per Aristotele il vero e proprio sillogismo ha molta maggiore importanza. … Aristotele tratta anzitutto della sostanza… Per Aristotele la sostanza è il pensiero. …ma per lui la sostanza, e precisamente la più propria, prima di ogni altra e così frequentemente chiamata, è l’individuo, la quarta classe delle determinazioni che egli ha stabilito /…/ per quanto concerne poi propriamente il valore filosofico della logica aristotelica notiamo anzitutto che nei nostri manuali le si suol riconoscere soltanto il merito e il significato di avere espresso l’attività dell’intelletto come coscienza. La si ritiene, quindi, un avviamento al pensare rettamente quasi che il movimento del pensiero possa compiere per sé stante e non avesse alcun valore ciò che si pensa. In altri termini, essa conterrebbe le cosiddette leggi che il nostro intelletto segue nel pensare, mediante le quali noi veniamo a formulare giudizi /…/ un tramite che non sarebbe il movimento delle cose medesime. Il risultato deve essere naturalmente la verità di modo che le cose sono costituite come noi le rileviamo secondo le leggi del pensiero, ma il modo di tale conoscenza ha un significato soltanto soggettivo, il giudizio e il sillogismo non sono un giudizio e un sillogismo delle cose medesime. Sono io che le penso. Questi sillogismi per i logici rappresentano forme cui sta di contro il contenuto, non avendo esse stesse la figura del contenuto e si censura appunto ciò per cui sono date. La logica si occupa solo di forme e, quindi, non ha grande interesse non occupandosi delle cose. Il peso che se ne dica è che l’errore consiste soltanto nel loro carattere formale, che tanto le leggi del pensiero come tale quanto le sue determinazioni, le categorie, siano o soltanto determinazioni nel giudizio o soltanto forme soggettive dell’intelletto, di fronte alle quali la cosa in sé è ancora qualche cos’altro. Senonché, proprio da questo modo di vedere da questo rimprovero, esula la verità; infatti, il non vero in generale è la forma dell’opposizione di soggetto e oggetto e la mancanza della loro unità, così che poi non si formula il quesito se qualche cosa sia vera in sé e per sé. Qui arriva tra poco a concludere che la questione sta nel fatto che la verità che il giudizio, cioè il sillogismo, può produrre non è altro che la verità del suo stesso movimento. Concetti dell’intelletto o della ragione sono l’essenza delle cose, certo, non per la concezione su accennata ma per la verità. Così anche per Aristotele l’intelletto, vale a dire le categorie, sono l’essenzialità dell’essere. Orbene, se essi sono veri in sé e per sé, sono essi medesimi il loro proprio contenuto, anzi, il contenuto supremo /…/ sono essi medesimi il loro proprio contenuto, quindi, la verità non è altro che il movimento dialettico. Però, qui è più Hegel di quanto sia Aristotele. Aristotele è sì il fondatore della logica intellettualistica… Non coglie ancora la ragione, non coglie ancora i due momenti appunto come momenti dello stesso …le cui forme concernono soltanto i rapporti reciproci del finito né possono cogliere la verità; tuttavia, va osservato che la filosofia di Aristotele non si fonda minimamente su questo rapporto intellettuale. Non si deve dunque credere che queste siano le forme del sillogismo mediante le quali egli ha pensato. Come tutta la filosofia di Aristotele così anche la sua logica ha bisogno essenzialmente di essere rifusa (rivista) per modo che la serie delle sue determinazioni vengano recate in un necessario complesso sistematico /…/ Nessuna singola forma logica ha verità in lei stessa, non perché essa è forma del pensiero ma perché è pensiero determinato, forma singola e deve valere come tale, mentre il pensiero come sistema e forma assoluta che domina questo contenuto ha in lui stesso il proprio contenuto come distinzione: è filosofia speculativa in cui soggetto e oggetto sono immediatamente identici e il concetto e l’universale sono l’essenza delle cose. Come il dovere è bensì l’essere in sé e per sé ma in quanto determinato esprime un determinato essere in sé e per sé, che di per se stesso è soltanto un momento e deve anche saper superare la propria determinatezza, così anche la forma logica, che supera se stessa in quanto quella data forma determinata, appunto perciò rinuncia alla pretesa di aver valore in sé e per sé. Allora, però, la logica diventa scienza della ragione, filosofia speculativa dell’idea pura dell’assoluta essenza, che non resta imprigionata nell’opposizione di soggetto e oggetto ma rimane opposizione in seno al pensiero medesimo. Tuttavia, possiamo certo concedere che nella logica molto è forma indifferente… Insomma, sta dicendo che l’importanza della logica è quella di consentire di concludere con la verità. Qui c’è una sovrapposizione in Aristotele che non è facile da cogliere. Però, dice che la verità sta nel fatto che questa cosa è pensata, è nel movimento che la pensa; quindi, non è nella singola affermazione che troviamo la verità ma nel movimento che la produce. Sì, però, a questo punto succede l’eventualità che questa logica non consenta per nulla di stabilire una verità rispetto a singole affermazioni; però, dice lui, queste singole affermazioni sono debitrici in qualche modo dell’affermazione principale, quella che dice che comunque il pensiero, se pensa qualche cosa, questo movimento del pensiero è la verità; da qui è possibile che sia verità anche ciò che il pensiero costruisce, il che non è. Quindi, c’è una sorta di inganno nel pensiero di Aristotele rispetto alla logica; vale a dire, fa passare come strumento di verità qualcosa che di fatto non può fare, perché la logica, così come la pone lui, il sillogismo logico non conclude con una verità che sia esterna al sillogismo, è una verità interna al sillogismo, che naturalmente non porta a nessuna verità esterna al sillogismo; anche perché all’esterno del sillogismo non c’è nulla. Qui la questione è sottile ma la vedremo più avanti nello specifico. Nella scienza aristotelica l’idea del pensiero che pensa se stesso è bensì concepita quale verità suprema. Questa è la verità suprema: il pensiero che pensa se stesso, cioè, il movimento dialettico. Ma la realizzazione di essa, la coscienza dell’universo naturale e spirituale crea all’infuori di quell’idea una lunga e slegata serie di concetti particolari ai quali manca l’unità di un principio che tenga congiunto il particolare. Questo è il problema di Aristotele. In effetti, lui coglie bene la questione ma tiene separati i momenti. Un po’ come faceva Platone, anche se in modo più articolato e preciso; però, già dicendo che la verità suprema non è altro che il pensiero che pensa se stesso, qui c’è già tutto in realtà. Non riesce, però, a coglierne le implicazioni, che secondo Hegel, invece, saranno colte in modo più preciso da ciò che qui segue nel testo, cioè gli stoici, gli scettici e gli epicurei.