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11 luglio 2018

 

Concetti fondamentali della metafisica di M. Heidegger

 

Heidegger qui sta parlando degli animali. Non è che ci interessano in modo particolare gli animali, ma Heidegger vuole intendere il mondo come questione metafisica, come una delle principali questioni metafisiche: il mondo, cioè, la realtà. Heidegger parte dalla pietra, che è senza mondo, e qui c’è poco da dire, e in effetti non dice nulla. Invece, l’animale è povero di mondo nel senso che, a differenza degli umani, non è nel mondo, non ha un mondo, ha un ambito, si direbbe un habitat; è in mezzo agli enti ma per l’animale l’ente non è in quanto ente. È questo che fa la differenza, perché per l’umano l’ente è in quanto ente, cioè lo riconosce in quanto ente; l’animale, no. A pag. 236. Metafisica – La conoscenza metafisica è interrogare concettualmente totalizzante, lo è in duplice senso: che 1. in ogni questione metafisica è sempre incluso concettualmente l’ente nella sua totalità… Un concetto riguarda l’ente nella sua totalità, è un universale. …e che 2. colui che si interroga metafisicamente è sempre tratto anch’esso dentro alla questione, è anch’esso chiamato in causa dall’interrogare e dall’interrogato stesso. A pag. 245. Ogni scienza è storica perché cambia e muta nell’atteggiamento fondamentale nei confronti del suo oggetto, nel modo di concepirlo in generale. Questo è interessante, perché la scienza immagina che gli oggetti siano sempre uguali, sempre gli stessi, e invece per Heidegger la scienza muta perché, mutando il suo pensiero, il suo mondo, mutano anche i suoi oggetti. A pag. 249. … ci siamo sottratti all’opinione erronea secondo cui la scienza è una connessione di proposizioni valide, dietro alle quali vi è ancora qualcos’altro di valido. Questo è quello che pensa la scienza. Noi concepiamo la scienza piuttosto come una possibilità esistenziale dell’esser-ci umano, non necessaria per l’esser-ci dell’uomo, bensì una libera possibilità dell’esistenza. La scienza, in Heidegger, non ha nulla di necessario, è soltanto un episodio della storia dell’uomo, della storia dell’esser-ci, che non ha nessuna pretesa di verità, di validità, ecc.; dietro alle proposizioni della scienza non c’è la verità o qualcosa di valido, come la stessa scienza immagina. A pag. 255. Mondo – lo diciamo provvisoriamente – è l’ente accessibile, è l’ente con cui si ha commercio, ciò che è accessibile, con cui un commercio è possibile, o necessario per il modo d’essere dell’ente. La pietra è priva di mondo. per esempio, la pietra giace sul sentiero. Diciamo: la pietra esercita sul suolo una pressione. Nel farlo “tocca” la terra. Ma ciò che qui chiamiamo “toccare” non è un tastare. Non è che la pietra tocca la terra, è lì. Il toccare è già un qualche cosa che appartiene al mondo, quindi, agli umani. Propriamente, la pietra non tocca niente. A pag. 263. Qui comincia a parlare degli animali e la domanda che Heidegger si pone è se è possibile trasporsi nell’animale, se vogliamo sapere che tipo di esistenza ha l’animale, in che modo esiste, che poi è la domanda tipica della metafisica. Si pone, allora, la prima questione. …possiamo trasporci nell’animale?, che cosa per noi è autenticamente problematico? Nient’altro che questo: se riusciamo ad accompagnarci con l’animale nel modo in cui esso ascolta e vede, in cui attacca la sua preda e fugge dai suoi nemici, in cui costruisce il suo nido, ecc. Questo sarebbe il trasporsi nell’animale, cioè, essere lui. Problematico non è dunque per noi il fatto che l’ente nel quale vogliamo trasporci, si rapporti ad altro – che abbia accesso e dunque commercio con la preda e il nemico. In tale questione: possiamo trasporci nell’animale?, presupponiamo come non problematico il fatto che, in generale, in riferimento all’animale sia possibile – e non del tutto insensato – un accompagnarsi, un concorrere all’accesso e al commercio dell’animale nel suo mondo. non è affatto problematico che l’animale, in quanto tale, porti in qualche modo con sé una tale sfera di trasponibilità. Problematica è soltanto l’effettiva riuscita del nostro trasporci in una sfera determinata. Noi lo possiamo tentare, e in genere le persone lo fanno, credono di sapere cosa pensa l’animale, di parlare con lui. Problematici sono i necessari provvedimenti da prendere per la realizzazione di un tale trasporsi, e i confini fattuali di quest’ultimo. Cioè, che cosa stiamo dicendo quando diciamo che sappiamo che cosa pensa l’animale. A pag. 300. Ma l’animale non presenta mai semplicemente un’unica capacità… È la questione centrale con cui Heidegger intende la questione dell’esistenza negli animali. Dice questo, che è l’essenziale. Parla dell’organismo, che per lui non è quello della biologia. L’organo non è corredato di capacità, bensì sono le capacità che si creano organi. E ancora: capace di vedere non è la singola capacità in quanto tale, bensì l’organismo. Non è l’occhio che vede ma è l’organismo, il tutto. Dunque questo, l’organismo ha delle capacità? Per niente. E in ogni caso non se ora, senza accorgercene, intendiamo di nuovo le capacità come qualità aggiunte e l’organismo come il supporto che sta a loro fondamento. L’organismo non ha capacità, cioè non è organismo e in più fornito di organi… Qui ci sarebbe da fare un richiamo che va ben oltre la biologia, un richiamo, per esempio, alla medicina. Per la medicina l’organismo è fatto di diversi organi, dove ciascun organo lavora più o meno per conto suo. Heidegger dice che non ci sono questi organi, che non c’è un organismo e poi queste altre capacità, come il cuore, il fegato, i polmoni, ecc. … “l’animale è organizzato” significa: l’animale è abile. Essere-organizzato significa essere-abile. Ciò vuol dire: il suo essere è potere, cioè poter-articolarsi in capacità, vale a dire nei modi del restare se stesso istintuale e dedito al servizio. … Questo essere-abile che si articola in capacità che creano organi, caratterizza l’organismo in quanto tale. È un essere abile, un esser capace a delle cose. Per Heidegger la questione essenziale è che l’animale si muove perché ha queste capacità, cioè è in grado di fare delle cose, queste capacità vengono disinibite, si attivano in certe situazioni: se c’è una situazione favorevole, si attiva una certa capacità, capacità che viene dall’istinto. C’è sempre nell’animale un attivarsi di qualche cosa, di cui è abile; questo organismo, l’animale, non è altro che l’essere capace di, cioè, un avere delle capacità. A pag. 305. Noi definiamo lo specifico essere-presso-di-sé dell’animale, che non ha nulla dell’ipseità dell’uomo che ha una condotta in quanto persona, questo coinvolgimento in sé dell’animale in cui sono possibili tutti e ogni comportamento, col termine stordimento. Lo stordimento è lo specifico essere presso di sé dell’animale. Essere presso di sé, cioè, lui è tutto il mondo, non ha come gli umani un mondo cui riferirsi, da cogliere e con cui interagire, ma lui è questo mondo, non c’è nessuna distanza. Soltanto perché l’animale è per sua essenza stordito, può comportarsi. Questo stordimento, che lui attribuisce all’animale, è il modo con cui l’animale si pone nel mondo, cioè, è un porsi che non ha nulla a che fare con l’esser-ci. Non possiamo parlare di esser-ci rispetto all’animale, l’animale non ha linguaggio, l’animale non esiste, c’è, perché l’esistenza è qualcosa che si attribuisce all’uomo, all’esser-ci; quindi, non avendo esistenza, di fatto non può né vivere né morire. Lo stordimento è questo essere raccolto in sé, essere presso di sé, come se non ci fosse la possibilità di cogliere una distanza e, quindi, di intendere l’ente in quanto ente. Si tratta di verificare se la stessa cosa possa dirsi anche degli umani. A pag. 307. Ci chiediamo ora: in che senso nel vedere, nell’udire, ecc., si manifesta lo stordimento? Stordimento indica il carattere fondamentale dell’esser-coinvolto in sé dell’animale. Vedere, afferrare, catturare avvengono sempre a partire dalla stimolazione di una capacità a far ciò in modo istintuale e al-servizio. L’esser-capace di…, come esser-capace rispettivamente di questo o quel comportamento, sospinge-attraverso ed è sospinto nel comportamento stesso. Questo significa: il comportamento è in quanto tale un esser-sospinto-verso, il che vuol dire al tempo stesso un esser-sospinto-via. In generale il vedere, udire, afferrare sono in sé un riferito-a… nel senso che l’afferrare non è per sé un movimento, il cui decorso solo in un secondo tempo viene posto in connessione con ciò che viene afferrato, bensì il movimento è in se stesso un movimento verso…, un afferrare verso… Il vedere è vedere quanto viene visto, l’udire è udire quanto viene udito. Non c’è nessuna distanza, io sono ciò che vedo, ciò che odo. A pag. 308. Nel fiutare l’animale è riferito un qualcosa che viene fiutato, e lo è nella maniera dell’esser-capace “verso…”. È capace di trovare i tartufi? Ecco, questa capacità in alcune occasioni si attiva, perché è capace e quindi lo fa, semplicemente. Questo istintuale “verso…” è, in quanto tale, al tempo stesso al-servizio; il fiutare è per sua natura al servizio di un altro comportamento. A pag. 317. Lo stordimento è l’essenza dell’animalità, vuol dire: in quanto tale l’animale non si trova in una manifestatività dell’ente. Per l’animale l’ente non si manifesta perché non c’è l’ente in quanto tale. Né il suo cosiddetto ambiente, né esso stesso sono manifesti in quanto enti. Nulla si manifesta, non appare niente. Siamo a pag. 329. Con questa caratterizzazione dello stordimento dell’animale siamo così giunti più vicino all’organizzazione interna dell’organismo. Soltanto adesso siamo in grado di delimitare, in conclusione e per quanto è necessario in questa sede, l’esatto concetto di organismo. In negativo dobbiamo affermare: l’organismo non è né un complesso di strumenti, né un fascio di istinti. In positivo possiamo affermare: l’organismo è l’esser-capace di comportamento nell’unità dello stordimento. … L’animale infatti non è un organismo e poi, in quanto organismo, qualche cosa d’altro, che stabilisce un collegamento con il suo ambiente; piuttosto, l’esser-vincolato all’ambiente, al circondarsi aperto alle disinibizioni… Le disinibizioni sono quei momenti in cui si attivano le capacità, cioè, vengono disinibite. …appartiene all’essenza intrinseca del comportamento, cioè ciò di cui l’esser-capace è capace. Il circondarsi è l’abilità fondamentale dell’animale, con la quale in qualche modo tutte le altre capacità entrano in relazione e a partire dalla quale si sviluppano. L’organizzazione dell’organismo non consiste nella configurazione, formazione e regolazione morfologiche e fisiologiche di forze, bensì in promo luogo proprio nell’abilità fondamentale del circondarsi, e dunque di un ben determinato esser-aperto per un ambito di possibile disinibizione. Questo circondarsi non è altro che il trovarsi in un ambito possibile di disinibizione, cioè, di mettere in atto le proprie capacità. Ma, in base a quanto è stato detto in precedenza sull’esser-capace, questa abilità fondamentale non è un dispositivo nascosto che viene in luce occasionalmente a posteriori, bensì questo esser-capace del cerchio ambientale è il momento fondamentale della realtà dell’animale in ogni momento della durata della sua vita. L’animale è questo, è la sua capacità. Più avanti, stessa pagina. 1. Lo stordimento è sottrazione essenziale, e non soltanto permanente o temporanea, della possibilità di manifestatività dell’ente. Un animale può soltanto comportarsi, non può apprendere qualcosa in quanto qualcosa, il che non è confutato dal fatto che un animale veda o magari percepisca. Ma in definitiva l’animale non ha percezione. A pag. 336 fa una critica al darwinismo. Già da tempo la biologia conosce una disciplina, l’ecologia. La parola “ecologia” viene da οκος, casa. Significa studiare dove e come gli animali sono a casa, il loro modo di vita in rapporto all’ambiente. Ma proprio questo è quanto nel darwinismo viene compreso in un senso esteriore e seguendo il filo conduttore del concetto di adattamento. Nel darwinismo questo studio ha per presupposto l’idea, fondamentalmente erronea, che l’animale sia sussistente, e che poi si adatti a un mondo anch’esso sussistente, si comporti in conformità a questo, e che vengano selezionati i migliori. Però non si tratta soltanto di stabilire il contenuto di determinate condizioni di vita, bensì di raggiungere la comprensione della compagine relazionale dell’animale con il suo ambiente. Dice che per Darwin c’è ancora l’idea di animale in quanto entità sussistente per sé, mentre dall’altra parte c’è l’ambiente, anch’esso sussistente per sé. Per Heidegger questa cosa non c’è, sono entrambi la stessa cosa: tra l’animale e l’ambiente in cui è non c’è alcuna differenza, non c’è modo di distinguere. Più avanti parla dell’uomo, dell’esser-ci. Siamo a pag. 350, Capitolo Sesto. Esposizione tematica del problema del mondo seguendo la via della discussione della tesi “L’uomo è formatore di mondo”. § 64. Primi caratteri del fenomeno del mondo: manifestatività dell’ente in quanto ente e l’“in quanto”; la relazione con l’ente come lasciar-essere e non-essere (rapporto-a, atteggiamento, ipseità). Leggiamo. Se dalla discussione della tesi: l’animale è povero di mondo passiamo alla discussione della tesi “l’uomo è formatore di mondo”, e ci domandiamo che cosa portiamo con noi da quanto è stato svolto in precedenza, per la caratterizzazione dell’essenza del mondo, risulta in una formula quanto segue: del mondo fa parte la manifestatività dell’ente in quanto tale, dell’ente in quanto ente. Ciò implica: al mondo si accompagna questo misterioso “in quanto”, ente in quanto tale, in termini formali: “qualcosa in quanto qualcosa”, ciò che all’animale per natura è precluso. Qui sta tutta la questione da cui parte la metafisica: l’ente in quanto ente, un qualcosa in quanto qualcosa. È questo “in quanto” che adesso interroga Heidegger: cosa diciamo quando diciamo “in quanto”? soltanto dove, in generale, l’ente è manifesto in quanto ente, sussiste la possibilità di sperimentare questo e quell’ ente determinato in quanto questo e quello sperimentare in senso lato, che va oltre la mera cognizione: fare esperienze con esso. Qui c’è qualche cosa di più, c’è l’ente che viene conosciuto in quanto ente. Infine, dov’è la manifestatività dell’ente in quanto ente, la relazione con questo ha necessariamente il carattere dell’entrarvi-in-relazione nel senso di lasciar-essere e non-essere ciò che viene incontro. Altra differenza dall’animale, cioè, può lasciar essere qualcosa, cosa che l’animale non può fare, perché non c’è un qualche cosa da lasciar essere. D’altra parte, dice la relazione con questo ha necessariamente il carattere dell’entrarvi-in-relazione nel senso di lasciar-essere e non-essere ciò che viene incontro; per l’animale, invece, ciò che gli viene incontro è lui stesso, non c’è possibilità perché non c’è la distanza, non c’è il segno; è il segno che instaura la distanza. Solo dov’è tale lasciar-essere c’è al contempo la possibilità del lasciar-non-essere. Una tale relazione con qualcosa, compenetrata e dominata da questo lasciar-essere qualcosa in quanto ente, la denominiamo, a differenza del comportamento nello stordimento, condotta. Stordimento, forse, non solo negli animali. Infatti, stavo pensando allo scritto di Lacan, L’étourdit, letteralmente Lo stordito. Lacan aveva incontrato Heidegger in Germania e mi domandavo se questo concetto di ètourdit in Lacan sia stato in qualche modo preso da Heidegger. Questo stordimento potrebbe essere, in effetti, attribuito anche alle persone, laddove, per esempio, non si accorgono della distanza che la parola instaura fra sé e la cosa, per cui è come se diventasse un tutt’uno con la cosa, cioè, come se la cosa si manifestasse da sé. È come se fosse presa nella cosa; le persone sono prese, si tuffano nella cosa, e diventano quella cosa lì. In questo assomigliano agli animali, appunto in quanto presi in questo stordimento. Dice, dunque, a differenza del comportamento nello stordimento, condotta. La condotta, cioè, quando entra in relazione con qualcosa; l’animale, invece, non entra in relazione con niente, non c’è possibilità di relazione. Ma ogni condotta è possibile solamente nel ritegno, nella ritenzione, e l’atteggiamento esiste soltanto dove un ente ha il carattere del se-stesso, o, come anche diciamo, della persona. Questi sono caratteri importanti del fenomeno del mondo: 1. la manifestatività dell’ente in quanto ente, 2. l’“in quanto”, 3. La relazione con l’ente come lasciar-essere e non-essere, la condotta in rapporto a…, atteggiamento e ipseità. Queste sono le condizioni, dice lui, perché ci sia condotta anziché stordimento. La principale è che ci sia l’ente in quanto ente. Ma per il momento questi caratteri decisivi del fenomeno del mondo ci dicono solamente: dove ci imbattiamo in questi caratteri, lì c’è il fenomeno del mondo. che cosa il mondo sia e come sia, se e in che senso possiamo, in generale, parlare dell’essere del mondo, tutto questo è oscuro. Per far luce, e penetrare così nella profondità del problema del mondo, cerchiamo di mostrare cosa significhi formazione di mondo. A pag. 352. Questo carattere dell’ente come il sussistente in senso lato, non può venir indicato in modo sufficientemente penetrante perché è un carattere essenziale dell’ente così come questo si estende nella nostra quotidianità, e noi siamo inclusi nella estensione di ciò che sussiste. È questo che ci rende difficile la comprensione dell’ente in quanto ente: siamo presi anche noi dall’ente nella quotidianità. È come se in qualche modo fossimo presi, come dicevamo prima, in una sorta di stordimento; in effetti, quando parla della chiacchiera ci sono degli elementi per poterla pensare come una sorta di stordimento, cioè le persone si gettano in quello che fanno e non si rendono minimamente conto di ciò che stanno facendo, di ciò che sta accadendo mentre fanno, perché è come se – come se, perché non sono del tutto animali – non si rendessero conto che c’è una distanza che rende possibile cogliere l’ente in quanto ente, cosa che l’animale non può fare. Però, se questa distanza, che rende possibile cogliere l’ente in quanto ente, io non la prendo in considerazione, è un po’ come se non ci fosse, per cui, in questo senso, divento stordito. Il fatto che l’ente possa essere manifesto nella uniformità livellata di quanto sussiste in modo uguale, dà alla quotidianità dell’uomo la sua peculiare sicurezza, stabilità e quasi baldanza, e assicura la facilità, necessaria per la quotidianità, del passare da un ente ad un altro, senza che, nel farlo, il rispettivo modo di essere dell’ente venga ad avere peso in tutta la sua essenzialità. Cioè, gli umani si danno un gran da fare, fanno cose continuamente, senza che mai ci sia pensiero, senza che mai l’ente venga tematizzato, senza che mai nessuno si ponga la domanda che cosa sta succedendo mentre sto facendo. Infatti, dice Ci troviamo sul tram, parliamo con altre persone, chiamiamo il cane, guardiamo le stelle, in un’unica maniera – persone, automezzi, animali, corpi celesti, tutto nell’uniformità di quanto egualmente sussiste. Tutte queste cose sussistono, ci sono, sono tutte uguali e sono tutte uguali in quanto sono qualche cosa. Questi sono caratteri dell’esser-ci quotidiano che la filosofia ha finora trascurato, perché questo qualcosa fin troppo ovvio è quanto c’è di più potente del mostro esser-ci, e perché quanto c’è di più potente è il nemico mortale della filosofia. Cosa c’è di più potente della volontà di potenza, della volontà di dominare ogni cosa, per cui io conosco tutto quanto, io so tutto di tutto? Vi ricordate della chiacchiera, dell’idea di sapere tutto di tutto. Quindi, queste cose sono cose che hanno tutte, questo Heidegger non lo dice, un’unica funzione, e cioè servono alla volontà di potenza, è questo che le accomuna, è questo, come dicevano i greci, il κοινόν, l’elemento comune, che hanno tutte le cose, tutti gli enti, tutti gli utilizzabili sono tali dalla e per la volontà di potenza. Perché dice che è il nemico mortale della filosofia? Perché, in quanto utilizzabile dalla e per la volontà di potenza, non viene tematizzato e, quindi, non viene problematizzato, non viene pensato, perché serve solo ed esclusivamente alla volontà di potenza e, quindi, viene utilizzato solo per questo e non per pensare. Perciò il modo e la maniera in cui l’indifferente molteplicità dell’ente ci diviene accessibile di volta in volta in modo primario e prevalente, è il conoscere in quel senso indifferente nel quale si parla delle cose e si diffondono notizie su di esse. Ciò vuol dire: ha luogo una condotta in rapporto all’ente senza che prima si sia destato un rapporto fondamentale dell’uomo con l’ente – sia esso un ente senza vita, sia un vivente, sia l’uomo stesso – come l’ente stesso di volta in volta richiede. Sta dicendo che occorre pensare l’ente. Cosa vuole dire pensare l’ente? Vuole dire pensare che l’ente deve la sua enticità all’essere, ma questo essere è un esser-ci, cioè sono io. È qui che sta il fondamento della metafisica, cioè prendere l’ente in quanto ente anziché l’ente in quanto esistente per via dell’esser-ci, quindi della storicità, che lo fa esistere in quanto ente. La condotta quotidiana in rapporto ad ogni ente non si muove all’interno di quei rapporti fondamentali che corrispondono alla particolarità dell’ente in questione, bensì in una condotta – vista a partire da quei rapporti fondamentali – sradicata, ma proprio per questo, tuttavia, oltremodo attiva ed efficace. È chiaro che se non ho la possibilità di accorgermi che l’ente è quello che è perché, per dirla heideggerianamente, è nel mio progetto ma lo considero come una cosa a sé stante, tutto diventa più semplice, dice Heidegger, più scorrevole, tutto automatico, e questa è la chiacchiera. Il pensare, invece, una cosa del genere, cioè che l’ente è ente perché è nel mio progetto, comporta uno sforzo, un rivenire dell’esser-ci a se stesso, e quindi un accorgermi che sono io, un accorgermi, potremmo aggiungere, che io sono linguaggio e che, quindi, percepisco le cose, vedo le cose, approccio le cose così come il linguaggio mi consente di fare. Dobbiamo soltanto imparare che, a partire dalla quotidianità – non però fondati e sorretti da essa… Si parte dalla quotidianità, però, non è che ne facciamo un principio fondante. Partire dalla quotidianità, cioè dal fenomeno; questa è la fenomenologia, cioè, partire da ciò che c’è, dai fenomeni, da ciò che si manifesta, da ciò che appare. …sono possibili, cioè possono divenire desti, dei rapporti fondamentali dell’esser-ci dell’uomo con l’ente, del quale egli stesso fa parte. Partendo dalla quotidianità, da ciò che accade, da ciò che appare, dice, è possibile destare dei rapporti fondamentali dell’esser-ci dell’uomo con l’ente, del quale egli stesso fa parte: anche l’uomo fa parte dell’ente, ne fa parte perché l’ente è nel progetto e io sono il mio progetto. Perciò ci sono specie fondamentali della manifestatività dell’ente e dunque specie dell’ente in quanto tale. La conoscenza che ci sono specie fondamentalmente diverse dell’essere stesso e di conseguenza dell’ente, si è rafforzata in noi proprio grazie all’interpretazione dell’animalità. Così tutte le nostre osservazioni precedenti vengono ad assumere una nuova funzione. Si tratta ora di porre in evidenza ciò che abbiamo raggiunto in esse in tutta la sua portata per la questione intorno alla manifestatività dell’ente in quanto tale, che deve costituire un momento dell’essenza del mondo. A questo proposito dobbiamo tenere ben presente che l’animalità non è vista in relazione alla povertà di mondo in quanto tale, bensì in quanto un ambito dell’ente che è manifesto ed esige dunque da noi un determinato rapporto fondamentale con esso, nel quale nondimeno a tutta prima non ci muoviamo. Dice che l’animalità non è soltanto una povertà di mondo ma dice in quanto un ambito dell’ente che è manifesto ed esige dunque da noi un determinato rapporto fondamentale con esso, cioè, il modo in cui l’ente ci si manifesta esige che ci comportiamo di fronte a questo ente in un modo particolare, un modo che comporta molte cose, per esempio, comporta uno stato d’animo, l’essere un progetto, comporta tutta una serie di cose. Ora, è tutta questa serie di cose che dobbiamo tenere in conto per potere approcciare la questione dell’ente. Innanzitutto dobbiamo richiamare alla mente le diverse maniere dell’esser-trasposto dell’uomo nell’altro uomo, negli animali, nel vivente in generale e nel senza-vita. In riferimento alla possibilità dell’esser-trasposto dell’uomo nell’animale, vediamo ora le cose in modo più chiaro, se teniamo presente la struttura fondamentale dello stordimento e del cerchio disinibente che di volta in volta è dato con esso. L’animale, lo stordito, e il cerchio in cui si attuano le sue capacità. Ogni animale e ogni specie animale lotta a suo modo per conquistare il cerchio ambientale, con il quale circonda un ambito e vi si inserisce. Il cerchio ambientale del riccio di mare è completamente diverso da quello dell’ape e questo a sua volta è diverso da quello della cinciallegra… Ma questi cerchi ambientali degli animali, all’interno dei quali si muovono il loro contesto comportamentale e il loro ciclo istintuale, non sono semplicemente disposti l’uno accanto all’altro o l’uno sotto l’altro, bensì si estendono l’uno nell’altro. Il tarlo, per esempio, che scava buchi nella corteccia della quercia, ha il suo specifico cerchio ambientale. Ma questo stesso, il tarlo, e cioè esso con questo suo cerchio ambientale, si trova a sua volta all’interno del cerchio ambientale del picchio che va in cerca di vermi. E questo picchio è, con tutto ciò, nel cerchio ambientale della cinciallegra, che lo spaventa e lo scaccia, mentre è al lavoro. Tutto questo contesto dell’apertura dei cerchi ambientali storditi del regno animale, non è soltanto carico di un’enorme ricchezza di contenuto e di riferimenti, che noi immaginiamo appena, ma in tutto ciò è anche fondamentalmente diverso dalla manifestatività dell’ente così come viene incontro all’esser-ci formatore di mondo dell’uomo. Per la quotidianità dell’uomo e la sua operosità l’aspetto dell’ente è completamente diverso. Ogni ente che ci è accessibile, nell’indifferenza che abbiamo caratterizzato, nella quotidianità, lo consideriamo anche come l’ambito nel quale dimorano gli animali, con il anch’essi hanno relazione. Poi pensiamo che i singoli animali e le singole specie si adattino in maniera diverso a questo ente sussistente in sé e sussistente per tutti, (e anche per tutti gli uomini), allo stesso modo, cosicché in virtù di questo diverso adattamento di tutti gli animali a uno e al medesimo ente si hanno variazioni degli animali e delle specie animali. Questo è ciò che si pensa comunemente, è il darwinismo: l’animale si adatta, chi si adatta meglio sopravvive e gli altri soccombono. In questo adattamento poi l’organizzazione dell’animale si sviluppa in modo diverso a seconda della diversità dell’ente (variazione). Questa variazione conduce in connessione con la sopravvivenza di chi si è meglio adattato, ad un crescente perfezionamento. Così dalla mucillagine originaria si è sviluppata la ricchezza delle specie animali superiori. A prescindere da altre impossibilità interne di questa teoria dell’evoluzione, ora vediamo come essa si fondi su un presupposto del tutto impossibile, che contraddice l’essenza dell’animalità (stordimento – cerchio ambientale): che cioè per tutti gli animali sia dato l’ente in quanto tale, e che, oltretutto, sia dato per tutti come un in sé uniforme, cosicché poi starebbe soltanto all’animale adattarsi ad esso. Ecco la questione. Questo è il darwinismo, la teoria dell’evoluzione, cioè, c’è un ente che è uguale per tutti, un ente che è in quanto tale, per virtù propria. Poi, c’è l’animale che si adatta all’ente, che in questo caso sarebbe l’ambiente, e chi si adatta meglio sopravvive, ecc. L’idea di partenza è prettamente metafisica, e cioè che l’animale sia un ente inserito all’interno di questo altro ente; sono tutti enti che sono a sé stanti. Per Heidegger non è esattamente così: per gli animali non è dato l’ente in quanto tale, ed è qui che sta il problema, perché non c’è l’ente in quanto ente, quindi, non possono adattarsi a un qualche cosa che per loro non esiste in nessun modo. Ma questo punto di vista crolla non appena comprendiamo gli animali e l’esser-animale a partire dall’essenza dell’animalità. Non soltanto per l’animale l’ente non è sussistente in sé, bensì gli animali non sono a loro volta, nel loro essere, per noi nulla di sussistente; il regno animale esige da noi una maniera del tutto specifica dell’esser-trasposti… Noi ci approcciamo al mondo animale in un modo piuttosto particolare, cioè mettendo il nostro pensiero negli animali. …e all’interno del regno animale domina un peculiare esser-trasposti gli uni negli altri di questi cerchi ambientali storditi. Il tratto fondamentale di questo esser-trasposti costituisce lo specifico carattere di “regno” del regno animale, cioè il modo e maniera in cui esso domina nella totalità della natura e dell’ente in generale. Questa concatenazione dei cerchi ambientali degli animali gli uni negli altri, la quale risulta dalla lotta degli animali stessi, mostra un modo fondamentale di essere che è diverso da ogni mera sussistenza. Quindi, non è che l’animale sussiste per sé, lui è questo cerchio ambientale. …dobbiamo dire che in questo lottare dei cerchi ambientali ci si manifesta un intimo carattere dominante del vivente all’interno dell’ente in generale, un’intima superiorità della natura su se stessa, la quale viene vissuta nella vita stessa. Così la natura non è affatto – né quella senza vita né quella vivente – il palcoscenico e lo strato più basso sopra il quale l’essere umano è posto per compiervi le sue malefatte. Ma la natura non è neppure lo sfondo che rende possibile la natura sussistente quando viene resa oggetto di un’osservazione teoretica e scientifica. La natura vivente e non-vivente è, per la quotidianità dell’esser-ci, sussistente in senso lato, in modo così ovvio che questa concezione viene definita “naturale” e, in qualche modo, ci sbarra la strada che conduce a vedere la naturalità specifica nella natura stessa. Eppure, da un punto di vista metafisico, il rapporto ontologico dell’uomo con la natura è completamente diverso. La natura non sta intorno all’uomo con una molteplicità di oggetti, non può venir compresa in tal modo, bensì l’esser-ci umano è in sé un peculiare esser-trasposto nel contesto del cerchio ambientale del vivente. A questo proposito bisogna considerare bene che noi non siamo equiparati agli animali di fronte a uno sfondo di enti dal contenuto comune, che essi tra loro, e noi tra di loro, vediamo in ognuno in modo diverso, come se ci fosse soltanto una molteplicità di aspetti del medesimo. No, i cerchi ambientali non sono affatto comparabili tra loro, e la totalità della concatenazione di cerchi ambientali che di volta in volta è manifesta, non soltanto non rientra, per ni, all’interno dell’ente che è manifesto altrimenti, bensì ci tiene prigionieri in una maniera del tutto specifica. Perciò diciamo: l’uomo esiste in maniera peculiare nel mezzo dell’ente. Nel mezzo dell’ente significa: la natura vivente tiene prigionieri noi stessi in quanto uomini in una maniera ben specifica, non in virtù di un particolare influsso e impressione che la natura vivente esercita su di noi, bensì per la nostra essenza, sia che noi sperimentiamo la medesima in un rapporto originario o meno. L’uomo esiste nel mezzo dell’ente, cosa che l’animale non può fare. Può vivere nel mezzo dell’ente perché per l’esser-ci c’è l’ente in quanto tale e non può eliminarlo, in nessun modo. La prossima volta affronteremo il § 68, che è interessante, Delimitazione provvisoria del concetto di mondo. Mondo come manifestatività dell’ente in quanto tale, nella sua totalità. Il mondo è la manifestatività dell’ente in quanto tale, questo è il mondo. Perché ci sia mondo occorre anche che ci sia l’esser-ci, cioè occorre che ci sia una possibilità che si manifesti l’ente. Perché si manifesti l’ente occorre che sia supportato dall’essere, che sia manifestato dall’essere, ma questo essere non è altro che il progetto in cui mi trovo e che sono: questa è la condizione perché ci sia l’ente.