11 giugno 2025
Werner Beierwaltes Agostino e il neoplatonismo
Ora leggiamo delle cose, ci sono delle questioni importanti. La conoscenza della convenientia suprema, ovvero il riconoscimento della prima bellezza, ora è possibile in virtù del ritorno del pensiero in sé medesimo, nel senso di una riflessione sul proprio fondamento e principio che trascende se stesso. Uno guarda dentro di sé, c’è il Dio e, vedendo Dio, vede la bellezza assoluta, perché Dio è bellezza assoluta. Qui cita Agostino. Non andar fuori, ritorna in se stesso. Nell’uomo interiore abita la verità. Questo è Agostino dal De vera religione. Inoltre, se il ritorno autocosciente del pensiero in sé medesimo porta alla visione della verità stessa… Uno guarda dentro, vede Dio, Dio che è la verità. …questa verità è identica alla bellezza stessa, allora in questo ritorno si guadagna anche il fondamento del giudizio, che rende legittimo il giudizio che qualcosa è bello. Per lo spirito rientrato in se stesso, che pensando ha appreso l’unità originaria che costituisce il pensiero, è possibile uno sguardo fondato nella bellezza dell’universo che prende la sua denominazione dall’Uno. Ora incomincia a parlare dell’arte, cosa che a noi interessa moltissimo, non tanto l’arte in quanto tale ma per un discorso che a breve faremo. Per una questione specificamente estetica, cioè incentrata sul bello dell’arte o sulla bellezza come principio dell’arte umano, questo significa, attraverso la concezione di Agostino sulla relazione fondativa del bello che si manifesta figurato con la bellezza stessa e sulla base di questa si è preparata la concezione divenuta centrale per l’estetica medievale, soprattutto con Eriugena, per cui l’arte ha una funzione anagogica. ἀναγωγή, in greco: innalzare. L’anagogia innalza verso l’alto verso l’Uno. L’arte si orienta verso questa condizione, quindi non verso la ragione, ma fa appello unicamente alle passioni. Per colpa sua, dal punto di vista platonico sulla conoscenza della verità, a causa dell’illegittima apparenza poetica, l’anima rimane impigliata in un’opinione infondata… Questo è Platone: l’anima si aggrappa al sensibile, all’immanente. Il poeta è come il sofista, una caricatura del filosofo, un incantatore e un imitatore fraudolento. L’idea della mimesi poetica, in questa concezione ridotta solo a mera produzione di immagini, viene prontamente riabilitata dalla Poetica di Aristotele, che la libera dal legame all’idea in quanto forma sensibile reale, così che i prodotti della mimesi non devono essere pensati principalmente come secondari. La mimesi poetica, semplificata sul paradigma della tragedia, è un’imitazione di un evento tramite illusione poetica o rinvio alla realtà in essa trasformata e dunque conoscibile in modo adeguato. Questa imitazione opera in modo catartico sullo spettatore, quindi non confonde ma libera dalla confusione. Ora qui ci sarebbe, come anticipato un attimo fa, una questione di grande interesse, che riguarda, potremmo dirla così, la costruzione della doxa. L’arte, la tragedia. In fondo, la prima forma di arte è il racconto, dopo arrivano le arti visive, ecc., ma è il racconto, il dire, la prima forma di arte. Come sappiamo, la tragedia greca si articola in alcuni momenti che vengono riconosciuti generalmente: la protasi, il prologo, che sta per qualche cos’altro, si mette lì per ciò che sta per arrivare; l’epìtasi, che sarebbe invece ciò che accade, ciò che è lì; la catastasi, che è quel momento che serve a ritardare la conclusione, un impiccio, un impedimento, che serve a ritardare; quello che nella cinematografia si chiama suspense, che serve ad aumentare la tensione, l’attesa. Dopodiché, anche perché questa catastasi non può durare ovviamente all’infinito, a un certo punto deve concludersi, e c’è la catastrofe. Catastrofe è letteralmente un capovolgimento, un rivolgimento, uno stravolgimento. L’ultimo momento è la catarsi, che serve appunto, come diceva qui citando Aristotele, a mostrare come di fatto stanno le cose. Pensate alla tragedia greca dell’Edipo re, come finisce? Finisce malissimo, Edipo si acceca e se ne va ramingo per il mondo. Oppure, pensate a Euripide, alla Medea. Anche quella tragedia, come va a finire? Malissimo, un massacro generale. Pensate ad Eschilo, al Prometeo, come finisce Prometeo? In bellezza? No, lo precipitano giù in un baratro infinito. Cosa manca nella tragedia greca? Manca il lieto fine, il “e vissero tutti felici e contenti”, e infatti muoiono tutti, è una catastrofe generale. Ma, al di là di queste amenità, cosa ci dice la tragedia greca di interessante? Ci dice che i molti non si tolgono, i molti, cioè, la dispersione, la catastrofe, il rovesciamento, perché i molti rovesciano, fanno danni. Lo sapeva bene Platone: i molti sono il male. Non c’era dunque nel pensiero, potremmo dire nella doxa greca… perché poi la tragedia, come oggi il cinema, il teatro – era teatro anche quello – era quella che, in fondo, formava, forgiava il modo di pensare. E che cosa induceva a pensare? Che non c’è il lieto fine, che i molti, cioè, la tragedia, il capovolgimento, lo stravolgimento è inevitabile. Ogni volta che si pone qualche cosa di fermo, di stabile, ecc., un’epitasi, succede una catastrofe. Ora, questo, come dicevo, forgiava la doxa, il modo di pensare comune e, quindi, in seguito a questo, non si aspettava il lieto fine. Non c’è lieto fine, c’è una disseminazione infinita, c’è l’ἀπείρων, c’è Democrito. L’uno è tutte le cose. Quando a un certo punto, invece, la doxa viene modificata, rimodellata, in modo tale da cambiare il modo di pensare. Perché la doxa è il fondamento del modo di pensare - questo lo abbiamo visto tantissime volte, ce lo insegna anche Aristotele: si parte sempre dalla doxa, la doxa rappresenta ciò che si crede, ciò che si è sentito anche nelle tragedie, nei teatri; tutto ciò che a un certo punto fa parte del modo di pensare. Quando, dunque, dicevo, questa doxa è stata rimodellata? Ce lo diceva qui: quando è sorta la necessità del ritorno all’Uno, cosa che non c’era nel pensiero greco. Il ritorno all’Uno è la quiete, perché nell’Uno non c’è movimento, se ci fosse non sarebbe più l’Uno; c’è la quiete, c’è la felicità, c’è il paradiso, che poi è diventato il paradiso dei cristiani. E allora il racconto, i racconti che venivano fatti, hanno incominciato a cambiare in vista di questo gran finale “e vissero tutti felici e contenti”. Adeso non pensate più a Sofocle, a Eschilo ecc., ma pensate invece a Propp e a Greimas. Propp si è occupato delle fiabe russe, cercava, anche lui come i fisici, una modellizzazione. Greimas, invece, si è rivolto più al racconto epico. Cosa hanno trovato? Tenete conto che erano passati nel frattempo quasi duemila anni da Plotino, ma hanno trovato nel racconto una struttura che possiamo molto semplicemente esemplificare attraverso Greimas, il racconto tipico, di base: il re ha una figlia, la figlia viene rapita dal drago, il re chiama un principe che vada a recuperargli la figlia, promettendogliela in sposa al ritorno. Questo è lo schema: c’è un partire dall’Uno, da una situazione perfetta, in cui tutto va bene, arriva il drago, che rappresenta i molti, rappresenta l’ostacolo, rappresenta il male, che crea appunto la catastrofe, cioè lo scompiglio generale, e alla fine il principe ritorna all’Uno, ritorna cioè nella quiete originaria. Questo modello è il modello, come dice Greimas, di tutti i racconti da che mondo è mondo. No, non da che mondo è mondo, ma da quando Plotino è Plotino, perché prima non era così. Questa struttura rimodella la doxa, cioè, riconfigura il modo di pensare, perché è con la doxa che si pensa, non è con chissà quali elucubrazioni raffinatissime, che vanno bene ma anche loro muovono dalla doxa, da ciò che si crede, da ciò che si pensa vero, da ciò che si ritiene opportuno, da tutte queste storie, cioè, dall’analogia. C’è voluto Plotino a stabilire, con le sue tre ipostasi, il modello del racconto: l’Uno, Intelletto, Anima, e da lì si ritorna all’Uno: si deve ritornare all’Uno, cioè, alla quiete assoluta, perché la quiete assoluta è ciò a cui si tende. C’è una quiete, questa è l’idea, una quiete da cui si parte, che è lo stare bene; poi, accade un qualche cosa, i molti arrivano, è la catastrofe che scombina tutto, ma si deve ritornare alla quiete, perché la quiete rappresenta il piacere, l’ήδονή. Nel frattempo, tutto ciò che diceva Eraclito del πόλεμος non c’è più, e non solo quello. È stata questa idea di Plotino dell’Uno, cioè, di una verità assoluta, che nessuno sa che cosa sia, però c’è, bisogna credere che ci sia e alla quale verità occorre tornare, perché la verità assoluta è la quiete assoluta, perché ovviamente non c’è movimento nella verità assoluta, è tutto immobile, eterno, anzi, prima ancora dell’eterno. Quindi, sono state le ipostasi di Plotino, a generare, anche attraverso la religione, certo, ma a incominciare a generare una nuova doxa, o, se preferite dirla così, una nuova propaganda. In fondo, nelle tragedie greche, in tutti i racconti fino a oggi, è sempre propaganda, cioè, mostrano come stanno le cose o come dovrebbero essere le cose, vedi il cristianesimo. La tragedia greca mostra come stanno le cose, e cioè malissimo, perché i molti non si eliminano; il cristianesimo, invece, mostra come le cose devono essere, e cioè devono essere senza i molti, che devono tornare all’Uno. La principessa, in fondo, una volta che il cavaliere la sottrae al drago, torna alla casa del padre, cioè, torna all’Uno. Badate bene che tutto ciò ha lo scopo di illustrare come si costruisce la doxa, cioè il modo di pensare comune, che è cambiato a un certo punto con Plotino. E questo è cambiato propriamente: è cambiato il modo di pensare, cioè, sono cambiati i racconti, perché il modo di pensare viene da lì, dai racconti, che siano quelli della nonna, che siano quelli epici, che siano quelli cantati dai musici, in ogni caso è da lì che viene il modo di pensare. Ora, sarebbe interessante rileggere le lettere di Paolo. Perché dico questo? Perché Paolo, che precede Plotino naturalmente, ha scritto le sue lettere e alcuni sostengono che lui sia il vero inventore del cristianesimo, che in parte è anche vero. Ora, Paolo non era un retore, si rivolge ai poveri di spirito, e cioè compie quella operazione che duemila anni dopo suggeriva Goebbels, ministro della propaganda nazista dal ‘33 al ‘45. Fra gli undici punti che Goebbels aveva stilato ce n’è uno che dice che quando ci si rivolge al pubblico bisogna parlare come se si parlasse al più stupido di tutti. È così che funziona, rivolgendosi al più stupido di tutti, in modo che anche lui capisca, per quel poco che riesce a capire, ma al più stupido, non al più intelligente. Infatti, quando Paolo andò all’Accademia di Atene, lo trattarono malissimo, perché la gente comunque qualcosa aveva letto, aveva studiato, aveva pensato e le stupidaggini di Paolo non potevano attecchire minimamente. E, invece, attecchirono sulle persone più povere di spirito. Quindi, nelle lettere di Paolo si dovrebbe trovare - lessi alcune cose tantissimo tempo fa, invece adesso occorrerebbe rileggerle sapendo cosa cercare, che in genere è il modo più proficuo per leggere qualcosa: sapere che cosa cercare - trovare quella modalità, che in fondo anticipa ciò che dicevamo rispetto a Plotino, cioè, uno stravolgimento del modo di pensare. Paolo ci prova a modo suo a proporre delle cose e, come dicevo, sarebbe interessante vedere qual è la struttura della sua argomentazione, che ancora non poteva essere plotiniana, anche se Platone c’era già stato. In fondo, quello che dice Aristotele, e cioè che la tragedia greca voleva mostrare non come le cose avrebbero dovuto essere le cose ma come erano, e cioè una catastrofe continua, è chiaro che questo per la volontà di potenza non va bene, la volontà di potenza vuole la quiete, vuole il dominio, vuole l’Uno. Ed ecco Plotino che arriva a soddisfare la richiesta. C’è la richiesta e noi diamo un’offerta, come nel commercio. Ha modificato, come dicevamo prima, il racconto e modificando il racconto si è modificata la doxa. Si modifica lentamente, è chiaro, non è che avviene nel giro di una giornata, però si incominciano a introdurre questi racconti, racconti epici dei cavalieri, ecc.
Intervento: Avevano una funzione pedagogica.
Certo. Infatti, parlavo di propaganda. Si cambia la doxa, si cambia il modo di pensare, cioè si cambiano quei modelli che ciascuno utilizza per costruire i suoi pensieri, le sue fantasie, le sue credenze, le sue superstizioni, la sua realtà. I criteri di verità sono forniti dalla doxa. Se noi cambiamo la doxa, noi cambiamo i criteri di verità, quindi cambiamo tutto; e, infatti, cambia tutto con Plotino e poi con il cristianesimo. I racconti, così come venivano proposti dalla tragedia greca, non erano più possibili perché non erano più anagogici, non innalzavano a Dio. Il racconto, da Plotino in poi, è qualche cosa che deve innalzare a Dio, in un modo o nell’altro. In fondo, anche il ritorno della principessa dal re è un ritorno all’Uno, cioè qualcosa che conferma la presenza, l’esistenza dell’Uno, la bontà dell’Uno e, soprattutto, che il drago è brutto e cattivo. Quindi, la questione che a noi più interessa è proprio questa: modificare la doxa, che si è modificata nel momento in cui il racconto della tragedia greca non ha più potuto essere proposto perché non dava la quiete, non dava la pace, non prometteva un paradiso, non prometteva il tutto, anzi, mostrava l’ineluttabilità dei molti, la catastrofe, lo stravolgimento. Severino ha riscritto le Enneadi: tutti gli astratti devono tornare all’Uno, cioè al concreto, perché altrimenti il concreto non è uno, non è l’intero. Certo, lì c’è una piccola variante, perché in Plotino l’Uno non si modifica, ma il principio è lo stesso. Quindi, ecco come si crea la doxa, con i racconti, quelli che ciascuno di noi ha sentito da bambino, le favole, i racconti della nonna, ecc. Ciascuno di noi è cresciuto con questi racconti e questi racconti sono quelli che determinano il nostro modo di pensare, i nostri criteri di verità. …tramite l’illusione poetica o rinvio alla realtà, in essa trasformate, dunque conoscibile in modo adeguato. Questa è la catarsi: vedi come stanno le cose, cioè i molti ci sono, non si tolgono. Il capovolgimento è avvenuto con Plotino e le sue tre ipostasi e la necessità del ritorno all’Uno. Nella tragedia greca non c’è nessun ritorno. Come finisce l’Iliade? Che Enea se ne va con il vecchio padre Anchise, ramingo per il mondo a fondare un altro paese, un altro Stato, un altro governo, un’altra cosa. Anche in quel caso c’è una dispersione totale. La dispersione a fronte del ritorno all’Uno dell’unificazione. Nella tragedia greca non c’è unificazione. non c’è un Uno, non esiste una verità assoluta a cui tornare, a cui fare riferimento. C’è dopo Plotino. Ecco come si è costruita la doxa, quella in cui viviamo ancora oggi, si è costruita così: moltiplicando, alterando, riconfigurando il racconto, la struttura del racconto, che poi è quella che sia Propp che Greimas hanno rilevato negli studi che hanno fatto.