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11 aprile 2018

 

Vi racconterò grosso modo quello che ho intenzione di dire sabato alla conferenza.  È una conferenza sulla crisi ma io non parlerò né della crisi di coppia né di crisi esistenziali. Parlerò della crisi del pensiero, ponendo la nozione di crisi non tanto come veniva probabilmente praticata tremila anni fa in Grecia ma così come viene comunemente praticata oggi, cioè come una situazione di cui si perde il controllo e che si vuole fortemente recuperare. Il momento di crisi è quello in cui si perde il controllo, il superamento della crisi sarebbe il recupero del controllo sulla situazione. Per dire della crisi del pensiero mi avvarrò di due personaggi: Freud e Nietzsche. Nella cosiddetta scuola del sospetto generalmente se ne considerano tre: Freud, Nietzsche e Marx. Però, Marx, che ha posto l’attenzione sull’economia, sul capitale, non fa buon gioco, quindi, non ne parlo e mi atterrò a Nietzsche e a Freud. Non parlerò neanche della crisi dei fondamenti, che ha riguardato la logica e la matematica e che, certo, ha riguardato indirettamente il pensiero, però, non in modo così specifico come, invece, hanno fatto Freud e Nietzsche. Partirò da quei rovesciamenti che hanno messo in atto, sia Nietzsche sia Freud. Riguardo a Nietzsche è celebre la sua posizione, il rovesciamento del castello: lo rovescio e vi mostro che cosa c’è sotto. Nietzsche diceva: badate bene che tutta la ricerca degli umani, che da sempre vogliono sapere della verità, del bene, del bello, del giusto, ecc., tutto questo nasconde soltanto un’incessante, continua e spietata ricerca del potere. Questo ha fondamentalmente detto Nietzsche. Questo è stato il primo rovesciamento. Freud ha fatto qualcosa di molto simile quando dice: badate che tutto il buonismo, la ricerca della bontà, del volersi bene, della generosità, della carità, ecc., tutte queste cose in realtà mostrano ben altro, se si guarda più a fondo. Per Freud, tutte queste belle cose di cui gli umani si imbellettano, mostrano le pulsioni, gli istinti più ancestrali, e cioè riguardano l’opportunismo, il tornaconto personale, e spesso anche la violenza. Questo come primo passo per mostrare che c’è qualche cos’altro a fianco di ciò che si dice, ma l’aspetto più importante verterà sulla nozione di fantasia. Tanto in Nietzsche quanto in Freud questi discorsi vertono su delle fantasie: io ho un’idea del bene, e cioè che devo volere bene al prossimo, ma in realtà lo faccio per un’altra idea, quella di un mio tornaconto. In Nietzsche l’idea di trovare la verità per la verità, dicevamo la volta scorsa, non esiste, agli umani della verità non può importare di meno, a meno che non ne abbiamo un tornaconto. Occorre porre la questione della fantasia in modo appropriato: la fantasia non è niente altro che un racconto, una storia, una narrazione che ha la funzione di orientarmi nel mondo, è per questo che costruisco una fantasia, cioè un mio modo di vedere le cose. Un modo di orientarmi nel mondo, quindi, un modo per avere il controllo di ciò che mi circonda. Parlo di mondo ma in realtà, se dovessimo dirla tutta, questo mondo è fatto di tutti quei discorsi che mi circondano, nei quali sono immerso, incessantemente. Questo passo che farò verso la fantasia, passo fondamentale, ci mostra che le fantasie, tanto per Freud quanto per Nietzsche, sono ciò di cui gli umani vivono. Per Freud le fantasie erano prevalentemente fantasie sessuali, erotiche, fantasie inconsce per lo più, ma sono quelle che pilotano il fare di ciascuno. Per Nietzsche era la volontà di potenza, anche questa è una fantasia, è l’idea di potere controllare tutto. Fantasia è una parola antica, viene dal greco phainestai, che allude a ciò che si mostra, a ciò che appare, però, è importante tenere conto che ciò che appare non appare mai da solo. Se apparisse da solo, paradossalmente non apparirebbe niente. Perché qualche cosa appaia occorre che appaia in una fantasia. Ma ci sarebbe anche Peirce da tirare in ballo: sarebbe come un segno che arriva da solo, che viene dal nulla e, come Peirce ha mostrato abbastanza chiaramente, un segno non può che procedere da un altro segno, il quale procederà da un altro segno, perché se questo segno viene da nulla non significa niente, non ha nessun riferimento. Come dire che una fantasia, qualunque essa sia, è sempre, comunque e necessariamente, immersa in altre fantasie, cioè, ha come suo fondamento altre fantasie, le quali altre fantasie hanno come fondamento altre fantasie. Per Nietzsche queste fantasie sono rappresentazioni e occorre fare attenzione perché queste fantasie la dicono lunga circa il loro funzionamento: il rappresentato di queste rappresentazioni è a sua volta un’altra rappresentazione; Nietzsche percorre una via che è parallela rispetto a quella di Peirce: questa altra rappresentazione avrà come rappresentato un’altra rappresentazione. Nietzsche lo dice molto bene: non ci sono fatti, ci sono solo interpretazioni. Avendo a che fare solo con le fantasie, è chiaro che per gli umani si è sempre imposta la necessità di dare un fondamento alle fantasie. Operazione ardua. Che cosa c’è a fondamento, per Nietzsche, di queste fantasie? Miti antichi, metafore sbiadite, per usare le sue parole. Per Freud ci sono altre fantasie, ci sono rappresentazioni, ci sono altri discorsi che si sono costruiti magari nell’infanzia. Per Peirce, ciascuna di queste rappresentazioni, di questi segni, ha a fondamento un altro segno, che ha a fondamento un altro segno, e così via. A questo punto il passo che farò è mostrare che il fondamento di queste fantasie, ciò di cui e per cui gli umani vivono, non è la ragione, la ratio, ma la retorica, e cioè un dire il cui unico obiettivo è il verosimile, la persuasione, il far credere qualche cosa. Ma c’è di più, perché non è solo questo. certo, questo allude alla volontà di potenza ma in ciò che dice Nietzsche c’è di più. Lui parla di metafore sbiadite. Ora, la metafora è una trasposizione, una traslazione, un andare da una parte a un’altra, cosa che Freud aveva peraltro notato in un modo abbastanza preciso, pur non sapendo assolutamente nulla né di Peirce né di semiotica, quando diceva che ciò che voglio dire non è ciò che dico. Stava alludendo a una distanza che il segno inaugura: il segno inaugura una distanza, la distanza fra a e b, fra ciò che voglio dire e ciò che dico, la distanza della metafora, fra la rappresentazione e il suo rappresentato. Volevo dire tutte queste cose per arrivare a una questione che mi interessa di più, e cioè che ciascuna parola, quindi, ciascun racconto, ciascuna narrazione, ciascuna fantasia, comporta una specie di squarcio, di apertura, che non è colmabile in nessun modo, esattamente così come non è colmabile la distanza tra un segno e un altro, tra un segno e il suo rinvio. Questa distanza non è colmabile perché è proprio questa distanza che fa del segno un segno, questo spostarsi da una cosa a un’altra. Se non ci fosse questa distanza, questo spostarsi da una cosa a un’altra, da un segno a un altro, non ci sarebbe segno, non ci sarebbe parola, non ci sarebbe nessuna possibilità per il linguaggio di esistere. Quindi, avvertire nella parola questo squarcio, nell’impossibilità di colmare questo iato, questa faglia, ha ovviamente degli effetti, delle implicazioni. Da sempre gli umani tentano di dare una validità, una verità, una correttezza, a queste fantasie, cioè ai loro discorsi, alle loro narrazioni, a quelle cose che servono loro per orientarsi nel mondo, quindi, per controllarlo. Il fornire validità a queste cose diventa arduo dal momento in cui tutte queste cose sono fondate sulla retorica, su quella cosa che Heidegger chiamava la chiacchiera, il si dice, il si pensa, il si crede, ecc. Per Nietzsche sono appunto i miti antichi, metafore antiche; per Peirce è l’abito, l’abito di pensiero, la verità pubblica; per Husserl la Lebenswelt, il mondo della vita, cioè tutte quelle cose, quelle le informazioni, quelle assunzioni, chiamiamole di base, che sono quelle che sono necessarie per potersi muovere, per potere fare o pensare qualunque cosa; sono quegli “strumenti” indispensabili per potere fare tutto ciò che gli umani fanno. Quindi, la cosiddetta crisi del pensiero non è qualche cosa che accade o che è accaduta a un certo punto, è accaduto che qualcuno si sia accorto di una cosa del genere, ma la crisi del pensiero è strutturale al modo in cui la parola, il linguaggio, si strutturano, procedono. Questa crisi è determinata esattamente, come diceva Peirce, dalla distanza che il segno instaura e inaugura, una distanza fra ciò che voglio dire e ciò che dico, come diceva Freud. La crisi è parte strutturale del linguaggio ed è ciò che consente di costruire qualunque cosa. Qualunque teoria, qualunque pensiero, dal più banale al più complesso, affonda le sue radici in cose assolutamente banali, ridicole; sono tutte quelle cose che appunto Husserl ascriveva alla Lebenswelt, tutti quegli abiti di pensiero, quei modi pensare che ciascuno acquisisce nella sua vita e con i quali pensa necessariamente, perché non può uscire, può accorgersene ma non può utilizzare altre cose perché sono quelli gli strumenti dispone, non ne ha altri. Abiti di pensiero che inducono la persona a pensare in un modo anziché in un altro, a costruire una teoria in un modo anziché in un altro. Ciascuna teoria è costruita su fantasie, cioè su questi modi di orientarsi nel mondo. Ci sono ovviamente delle persone che immaginano che non tutto sia una fantasia ma che ci sia qualche cosa che è reale e che, quindi, non riguardi le fantasie, vale a dire, un qualche cosa che non rientra in una fantasia ma è quello che è. Però, qui sorge un problema, e cioè che un qualche cosa è quello che è, e quindi è fuori da una fantasia, comporta una difficoltà, vale a dire, che se questa cosa non rientrasse in una fantasia, non partecipasse di un racconto, di una narrazione, che danno a questa cosa la sua esistenza, allora questa cosa dovrebbe trarre la sua esistenza unicamente da sé, per una sorta di emanazione. Peirce stesso si fa questa obiezione. Però, anche ammettendo che questa cosa sia quella che è per virtù propria e si conosca soltanto così, per emanazione, occorrerebbe rendere conto di questa emanazione: come posso cogliere questa emanazione se non attraverso una struttura, appunto un linguaggio, se non inserendola in una narrazione, in una storia, in un racconto? Rimarrebbe assolutamente non riconoscibile, perché se conosco qualcosa allora lo conosco attraverso segni, non posso conoscere qualche cosa se non attraverso segni, attraverso rinvii, attraverso la formuletta a è b. Tutto questo ci porta all’ultimo passaggio, e cioè fare operare tutte queste affermazioni, che vado facendo, all’intero del discorso, della narrazione, che ho utilizzato per esporle, vale a dire, inserire tutte le conclusioni di un discorso e farle funzionare all’interno del discorso stesso. Come dire che tutto ciò che si racconta per definire, per spiegare, per raccontare qualunque cosa, è a sua volta un racconto, una narrazione. Tutta la teoria psicoanalitica è una narrazione, un racconto che affonda le sue radici su fantasie, sulla Lebenswelt, su abiti di pensiero, su modi di pensare, su cose alle quali, Freud in quel caso, era abituato a pensare. Questo è il fondamento della psicoanalisi, visto che stiamo parlando di psicoanalisi, non solo ma di qualunque altra cosa. Potremmo dire la stessa cosa rispetto a Heidegger, rispetto a Nietzsche. Anche la volontà di potenza è una fantasia, cioè non è la determinazione dello stato di cose ma è il prodotto di una fantasia, in quel caso di Nietzsche. La questione è che, ponendo la cosa in questi termini, è molto peggiore di quanto si potesse immaginare, perché a questo punto non c’è più nulla che non sia il prodotto di fantasie, cioè di racconti. Il fatto è che questi racconti, queste fantasie, vengono tratti da altri racconti, da altre fantasie, e così via all’infinito, senza nessuna possibilità di appoggiare il piede senza che, come diceva Nietzsche, il piede affondi non appena si appoggi. Per porre l’ultima questione, che è l’aspetto pragmatico, visto che considero la psicoanalisi una pragmatica, che cosa accade propriamente? Accogliendo nel proprio discorso tutte queste cose e facendole funzionare, facendole operare nel proprio discorso, accade qualcosa di sorprendente, e cioè l’impossibilità di credere vera una qualunque cosa, crederla vera, badate bene, al di fuori del gioco, della fantasia all’interno della quale è quella che è, perché a questo punto c’è la piena consapevolezza che ciascuna cosa è quella che è in quanto inserita in quella fantasia; inserita in un’altra fantasia, in un’altra narrazione, in un altro gioco, è un’altra cosa. Quindi, a questo punto so e non posso non sapere che ciò che credo lo credo perché inserito in un abito, in un abito di pensiero, in una verità pubblica, nella chiacchiera, e cioè in tutte quelle cose che hanno determinato nel corso degli anni il modo in cui penso. Non solo, ci sono altre cose che concorrono: per esempio, il fatto che io parli in italiano. Non ho deciso io di parlare l’italiano, così come non ho deciso io che l’italiano sia in una certa maniera, non ho deciso nulla, l’ho ereditato, ho ereditato un modo di pensare, una lingua e, insieme con la lingua, infinite altre cose che determinano, costruiscono le mie fantasie, in ogni istante. A proposito della pragmatica, se non ho più la possibilità di credere vera alcuna cosa, non potendo non sapere che questo crederla vera è soltanto possibile all’interno di una narrazione particolare, è ovvio che quella cosa che Freud chiamava nevrosi non può più sussistere; non soltanto, non può più sussistere la possibilità di costruire una nevrosi, perché non c’è più la possibilità che io creda che una qualunque cosa esista fuori dalle mie fantasie, cioè fuori dal mio racconto, dalla mia narrazione. Posso farlo, certo, e in effetti ciò che Freud chiamava nevrotico fa esattamente questo: crede fortemente e fermamente che certe cose non siano costruzioni della sua narrazione, del suo racconto, ma siano fuori di lui e che siano quelle che sono per virtù propria. Quindi, il compiere tutte queste operazioni ha questo effetto, l’impossibilità radicale di costruire quella cosa che Freud chiamava nevrosi. La nevrosi non è altro che il credere fortemente che qualche cosa esista fuori dal racconto di cui sono fatto, esista fuori da tutte quelle fantasie che io sono, che esista di per sé e che, come tale, incomba su di me. Se elimino tutto questo, nulla più incombe su di me.

Intervento: …

Toglie la possibilità di praticare la volontà di potenza senza sapere ciò che si sta facendo. In effetti, è il motivo per cui ciò che vado dicendo non è ascoltato da nessuno a parte voi. Togliere la volontà di potenza è impensabile, è inimmaginabile, e in effetti non si può togliere. L’unica cosa che è possibile fare, attraverso questo percorso che ho appena tratteggiato, è il sapere che cosa faccio e non potere più non saperlo. Certo in molti casi una persona sa che ciò che sta facendo lo fa per avere potere. Quando tu ti vesti tutta per benino per andare a un incontro con un ragazzo, sai bene che lo fai per fargli piacere, per conquistarlo, per irretirlo, a seconda delle tue intenzioni. In questo caso sei perfettamente consapevole ma ci sono infiniti altri casi in cui la persona non è consapevole, non lo è affatto, e cioè subisce la volontà di potenza immaginando che sia la cosa più ovvia, più normale di questo mondo e che non si possa fare altrimenti. Per esempio, quando subisci un torto, quando devi far valere la tua ragione, quando immagini di doverti imporre su qualcuno, in tutti questi casi metti in atto la volontà di potenza ma senza accorgertene. Pensi di mettere in atto un tuo diritto, una necessità, un qualcosa che non puoi non fare, mentre è soltanto una fantasia di potere. Ma la parte che più mi interessa è proprio l’aspetto pragmatico, cioè il fatto che praticando queste cose non è più possibile non sapere che cosa si fa continuamente mentre si parla, mentre si pensa, mentre si agisce. Non c’è possibilità di togliere la volontà di potenza, non c’è modo, sarebbe come togliere il linguaggio, il linguaggio è la volontà di potenza, per cui se si parla c’è volontà di potenza. La differenza che ponevo è tra il saperlo oppure no, tra il praticare queste cose, che impongono di sapere, di non potere non sapere ciò che si sta facendo, e invece l’esserne travolti, subire tutto. Non c’è uscita dalla volontà di potenza, in nessun modo, cioè, non c’è uscita dal linguaggio. La fantasia di potenza non può togliersi.

Le fantasie sono quelle cose con cui si vive. Si pensa che una certa cosa, un certo pensiero, descriva una certa situazione e se la descrive correttamente si può controllarla. A nessuno viene in mente che questo pensiero sia soltanto un’altra fantasia e che, quindi, non controlla proprio niente. Ma non controlla niente non perché è incapace, ma perché non c’è niente da controllare.