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11 gennaio 2023

 

Concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Proseguiamo questa riflessione di Heidegger intorno alla definizione e al concetto. A pag. 54. La concettualità intesa nei concetti fondamentali non è un coglimento teoretico delle cose, ma un’esperienza fondamentale obiettiva. L’essere per i greci non è nient’altro che ciò che appare. A ciò che in tale esperienza è esperito ci si rivolge mirando a qualcosa. Ciò che è esperito in tal modo, e che è posto in questa prospettiva, viene esplicato e, nel rivolgersi a esso, prende vita. Questo è interessante: nel rivolgersi a esso prende vita, diventa qualcosa. Poi, preciserà. Che cos’è l’esperienza fondamentale obiettiva, in quale prospettiva ci si rivolge a essa? Dobbiamo pervenire alla fondatezza così come essa viveva nella scienza greca. Nella definizione il concetto viene a espressione, viene in luce. Definizione: genere immediatamente superiore e differenza di specie. Vogliamo imparare a comprendere che cosa significa definitio domandando a nostra volta qual era il significato della definizione nei greci e in Aristotele. Όρισμός: “limitazione”, “esclusione”. Όρισμός: λόγος ούσίας (la parola dell’esserci). Che cosa si intende per λόγος e per ούσία, ovvero che cosa si intende per λόγος ούσίας? Quando avremo chiarito questo, troveremo la fondatezza del concetto. Ogni volta che interviene un’espressione, un termine, Heidegger si chiede: che cosa intendiamo con questo? È uno dei pochi che lo fa, in genere lo si dà per acquisito. Nel tradizionale gergo scolastico i concetti sono: 1. notio, 2. intentio, 3. conceptus, 4. species. Questi sono gli elementi, gli aspetti del concetto. Ad 1. Notio: il concetto implica una determinata “dimestichezza” con la cosa che esso intende, esso cioè ci traspone in una familiarità con la cosa intesa. Il concetto implica che io sappia già che cos’è qualcosa. Una determinata dimestichezza con la cosa: il concetto parte già da una dimestichezza con la cosa. Prima di chiedermi qualunque cosa concettualmente, io comunque so già che cos’è quella cosa. Perché dice questo? Se io mi domando di una qualunque nozione, per il fatto stesso di domandarmi qualcosa, vuol dire che già so qualcosa, sennò non potrei domandarmi alcunché. Ad 2. Intentio: il concetto implica un “mirare” a qualcosa, un intendere qualcosa. L’intendere una cosa è un elemento strutturale essenziale del concetto (il termine “cosa” è usato qui sempre in modo del tutto generale nel senso del semplice qualcosa). Dice ogni volta che cosa intende. È ammirevole. Ad 3. Conceptus: il “cogliere”. La cosa non è solo intesa, non è solo nota, non ci si limita a sapere di essa, ma è anche intesa e nota nel modo dell’esser colta, in maniera tale cioè che ciò che vi è in essa viene con-preso, raccolto. Il raccogliere qui è il λέγειν, che raccoglie, è il λόγος. Species: εἶδος, “aspetto”; riconduce alla notio. Se ho dimestichezza e familiarità con una cosa, so che aspetto ha, so come si presenta in quanto tale tra le altre cose. Queste designazioni hanno acquisito, nel loro utilizzo scolastico, un significato banale, tanto che le si traduce uniformemente con “concetto”. Dobbiamo considerare la definizione guardando alla sua origine: λόγος ούσίας. Λόγος è il “parlare”, e nel contempo – per i greci – “ciò di cui si parla”… Cioè: il λόγος è il λέγειν τί. …il parlare nella funzione fondamentale dell’άποφαίνεσθαι (manifestarsi), o del δηλοῡν (mostrarsi): parlando di qualcosa “portare una cosa a mostrarsi”. Questo va considerato: parlo di una cosa e, parlando di quella cosa, porto quella cosa a mostrarsi: parlandone mi si mostra. Secondo la sua tendenza, questo parlare di qualcosa è parlare con altri, esprimere se stessi. Parlando con altri e con me stesso faccio sì che ciò a cui mi rivolgo diventi per me qualcosa di dato, in modo tale che, parlando, esperisco l’aspetto della cosa. Ancora insiste: parlando, esperisco l’aspetto della cosa. Parlare non è un semplice processo che avviene di tanto in tanto. Il parlare di qualcosa con altri è nel contempo un “esprimere se stessi”. Potremmo dirla banalmente: mostrare le proprie fantasie, mostrare le cose che si credono. Si tratta di elementi strutturali ineliminabili del λόγος. In seguito dovremo considerare attentamente questa struttura per mostrare quale sia propriamente il luogo originario di ciò che designiamo con il termine “parlare”. Ciò che è stato espresso “rimane stabile”, è un κείμενον (stabile, istituito, ciò che permane). I κείμενα ὄνοματα (i nomi che rimangono), appunto in quanto κείμενα – in quanto “stabiliti” – sono disponibili agli altri, sono κοινά (comuni), appartengono a chiunque. Una volta che è stata espressamente pronunciata, una parola non appartiene più a me, ed è per questo che il linguaggio è qualcosa che appartiene a chiunque, in maniera tale che proprio in questo patrimonio comune si dà in modo vivo una possibilità fondamentale della vita stessa. Spesso ci si limita a parlare – ci si disperde in mere parole, senza avere un esplicito rapporto con le cose di cui si parla. Questo è ciò che avviene sempre. Ciò implica una comprensibilità comune a tutti. Per essere comprensibile a tutti bisogna non sapere assolutamente nulla di ciò di cui si sta parlando. Crescendo all’interno di un linguaggio, cresce nel contempo all’interno di una comprensibilità del mondo, e del linguaggio, che ho per conto mio, in quanto vivo nel linguaggio. C’è quindi una comprensibilità comune, che ha il carattere peculiare della medietà: essa non ha più il carattere dell’“appartenere ai singoli”, ma è logora, usata, usurata. Ogni parola espressamente pronunciata ha la possibilità di diventare usurata, scivolando nella comprensibilità comune. Diventa il luogo comune. L’uomo viene definito uno ζοον λογον εχων, un “essere vivente” – che però non è un concetto biologico nella formulazione moderna. “Vita” è un come, una categoria dell’essere, non già qualcosa di selvaggio, profondo e mistico. È sintomatico che la “filosofia della vita” non sia mai arrivata a chiedersi che cosa in definitiva, in senso proprio, si intenda in termini categoriali con il concetto di “vita” in quanto essere. Vivere è un “essere in un mondo”… Un mondo di cui faccio parte, ovviamente, però non solo un mondo di cui faccio parte, ma io vivo nel “mio” mondo, nel senso che tutto ciò che mi circonda lo faccio apparire parlando. La questione interessante, ne parleremo ancora in quanto molto complessa, è che in questo mondo, di fatto, è come se ciascuno fosse, in un certo qual modo, contro tutti. È vero che Aristotele dice che l’uomo è un animale sociale, ma non è socievole, nel senso che ciascuno vede l’altro, qualunque ente, soprattutto le persone, come utilizzabili, cose da utilizzare, da utilizzare per la propria volontà di potenza. L’unica funzione che hanno gli enti è di essere utilizzabili. Sono questi gli enti, sono quelle cose che “servono”, e sono quelle cose alle quali io presto attenzione; le altre, quelle che non mi servono, le ignoro, non mi interessano, scompaiono. Quelle su cui mi soffermo sono quelle che io posso utilizzare, utilizzare per la volontà di potenza naturalmente, cioè, per dominare. Ne parleremo ancora, più avanti. L’esprimersi in quanto “parlare di…” è il modo fondamentale dell’essere della vita, ovvero dell’“essere in un mondo”. Si è nel mondo in quanto si parla del mondo. È parlando del mondo che il mondo appare. Dove non c’è parlare, dove il parlare cessa, dove il vivente non parla più, parliamo di “morte”. In ultima analisi è a partire da questa possibilità fondamentale della vita che l’essere della vita va in genere compreso. Il parlare viene ricollocato nel contesto ontologico della ita, come contesto di un essere specifico. Nella definizione ζοον λογον χων il termine χων va inteso in un senso fondamentale. Nella Metafisica (Δ 23) χειν viene definito in quanto ἂγειν, “esercitare” una cosa, essere in un modo, seguire un “impulso” che proviene da questo essere. Il linguaggio viene avuto, si parla in modo tale che il parlare appartiene all’autentico impulso ontologico dell’uomo. Cioè: l’uomo è tale perché parla, perché, per es., può dirsi tale. Per l’uomo vivere significa parlare. Heidegger avrebbe potuto andare ben oltre se avesse seguito questa breve frase, ma non lo ha fatto. Questo colloca la nostra provvisoria chiarificazione del λόγος in un contesto ontologico che per adesso può essere designato come “vita dell’uomo”. A pag. 57. La funzione fondamentale del λόγος è “portare a mostrarsi” l’ente nel suo essere,… L’ente nel suo essere è l’ente così com’è. Potremmo dire che è il suo significato, potremmo dire che l’essere dell’ente è ciò che consente all’ente di essere ciò che è. … l’ούσία in quanto “essere” dell’ente, ovvero in quanto “esseità”. Con ciò si intende che l’essere di un ente ha in se stesso ancora elementi di determinazione, e che dunque circa l’ente nel come del suo essere si può stabilire ancora qualcosa. Quando parla del come del suo essere parla dell’esserci. L’esserci per Heidegger è il “come dell’essere”, il modo, il come. Come è questa cosa? È come lo implica questo momento, così come la vedo, così come mi appare, così come mi si staglia nel mondo. Potremmo fare l’esempio di Severino della lampada che è sul tavolo: come è quella lampada? È come è in quel momento, come la vedo in quel momento, che non è la lampada in quanto tale, ma è quella lampada che è sul tavolo, e il suo “come” è l’essere sul tavolo in questo momento. Ora è vero che l’ούσία, in quanto “ente nel come del suo essere”, è in Aristotele stesso ambigua, ha diversi significati, però è anche vero che essa è il titolo per i nessi materiali che costituiscono il tema dell’indagine fondamentale di Aristotele. Ούσία è l’espressione per il concetto fondamentale per antonomasia della filosofia aristotelica. In base all’ούσία potremo non solo sperimentare che cos’è lo όρισμός, ma anche raggiungere un terreno su cui poter collocare gli altri concetti fondamentali. Sta dicendo che dobbiamo capire bene che cosa vuol dire Aristotele quando parla di ούσία, che in genere viene tradotta con sostanza. A pag. 59. L’espressione ούσία, in quanto termine fondamentale dell’indagine aristotelica, deriva da un’espressione che nel linguaggio naturale ha un significato corrente. Chiamiamo “significato corrente” quello che una parola ha nel parlare naturale. “Parlare naturale” significa a sua volta quel parlare così come esso avviene innanzitutto e per lo più e sempre, anche quando è presente un altro modo di parlare con il mondo, quello scientifico. Alla base, cioè, c’è la chiacchiera, c’è il parlare comune, quello che è comune a tutti e che può essere comune a tutti perché non dice niente, cioè, non c’è nessuna domanda, nessuna interrogazione. È il modo del “si”: si dice, si sente, si racconta. Infine, l’essere-corrente del significare ed esprimere indica che esso si muove nella medietà della comprensione, ha la proprietà di circolare come ovvio, ed è compreso “senz’altro”. L’ovvio è ciò che è immediatamente compreso. L’ovvio è ciò che non viene interrogato, perché se cominciassi a interrogarlo cesserebbe immediatamente di essere ovvio. La comprensione, quella comune, si basa su questo, sul non sapere niente in generale. “Si” comprende senz’altro un’espressione che ha il carattere dell’essere corrente, essa è presente nel patrimonio comune del linguaggio entro il quale ogni uovo uomo nasce e cresce. Sempre la chiacchiera. Tuttavia, nel caso dell’ούσία non è che il significato terminologico sia scaturito da quello corrente, mentre quest’ultimo è scomparso, poiché, al contrario, in Aristotele accanto al significato terminologico è contemporaneamente e costantemente presente anche quello corrente. È come se Aristotele avesse tenuto conto dell’invito della dea ‘Aλήθεια, e cioè tenere sempre conto anche della δόξα. E per la precisione ούσία, secondo il suo significato corrente, significa “patrimonio”, “stato patrimoniale”, “averi”, “podere”. Ci troviamo di fronte al fatto sorprendente che i greci si rivolgono a un ente determinato, ovvero a cose essenti come lo stato patrimoniale, le suppellettili di casa, ecc., come a un ente autenticamente essente. Tenete sempre conto che Aristotele, contrariamente a Platone, è molto ancorato alla terra, a ciò che c’è, alle cose, ai πραγμάτα. πρᾶγμα in greco è la cosa, e infatti con pragmatico è si intende chi si attiene alle cose. Proseguendo dunque la nostra verifica del significato corrente giungeremo forse a scoprire che cosa i greci intendono i genere con “essere”. Anche perché Aristotele, come sappiamo, pone l’ούσία, sostanza, come la prima categoria, quella alla quale tutte le altre si riferiscono. La sostanza è la prima categoria dell’essere, è ciò che determina l’essere. Heidegger traduce ούσία con esserci; per lui l’esserci è l’essere, è l’uomo. Dobbiamo tuttavia guardarci dal dedurre in qualche modo il significato terminologico da quello corrente; possiamo soltanto comprendere il significato corrente in maniera tale da ricavare indicazioni relative al significato terminologico. Il significato corrente di ούσία designa un ente determinato, e non montagne, o altri uomini. In senso terminologico ούσία significa: “Ente nel come del suo essere”. L’ente nell’esserci, perché il come dell’essere è l’esserci. Dicevamo prima: com’è una cosa? È come è nel mondo in questo momento. Altrimenti tradotto con “sostanza”. Rimane in sospeso se l’espressione “sostanza” ni risulti maggiormente perspicua dell’espressione “ente nel come del suo essere”. /…/ Oύσία è un ente tale che “ci” è… Heidegger scrive “ci è” al posto di “c’è”, in modo da sottolineare questo essere in questo momento, in questo mondo, in questo “come”: ciascuna cosa è quella che è rispetto al “come” è in quel momento, rispetto al suo “come”. Il suo “come” è, appunto, l’esserci. …per me in un modo accentuato, così che io possa averne bisogno e utilizzarlo, un ente che è a mia disposizione, con cui ho a che fare tutti i giorni, quell’ente che “ci” è nel mio quotidiano avere a che fare con il mondo, anche quando faccio scienza,… Ogni tanto cita la scienza. Heidegger era amico di Heisenberg, non sapeva nulla né di fisica né di matematica, però aveva molta stima per Heisenberg. Qui dice una cosa che a noi interessa. Dice Oύσία è un ente tale che “ci” è per me in un modo accentuato. Cosa vuol dire in un modo accentuato? Che io posso utilizzarlo. Ecco che si apre una questione: qualcosa c’è, o come scrive Heidegger “ci” è, perché lo posso utilizzare. È per questo motivo che c’è, perché è un utilizzabile. E, allora, saremmo quasi indotti a pensare che c’è unicamente ciò che è utilizzabile. Ma per il momento lasciamo in sospeso la questione, la approfondiremo più avanti. Anche nel significato corrente è implicitamente inteso il come dell’essere. “Come dell’essere” significa esserci nel modo dell’essere-disponibile. L’essere è il modo in cui qualcosa è disponibile, cioè, utilizzabile. L’esserci - il come dell’essere non è nient’altro che l’esserci - è l’utilizzabile. È una questione che Heidegger non riprende a sufficienza, la lascia un po’ lì, mentre a mio parere ha una portata notevole, naturalmente se si tiene conto della volontà di potenza. Heidegger non ne tiene conto, così come non tiene conto di Nietzsche, che lo cita, sì, è costretto a citarlo, però non trae tutte le implicazioni che si sarebbero potute trarre. Lui qui si trova di fronte a delle affermazioni che fa e che vanno in questa direzione, e cioè l’esserci è l’utilizzabile, e c’è quando qualcosa è utilizzabile. È questo che sta dicendo: c’è soltanto qualcosa che è utilizzabile. Tutto ciò lo sto estrapolando io, però, non è così lontano da ciò che dice lui. Quindi, alla domanda “quali cose ci sono?”, domanda ontologica per eccellenza, la risposta è: ci sono quelle cose che posso utilizzare. Ma sappiamo anche per che cosa si possono utilizzare. Perché utilizzo le cose? Anche le parole sono degli utilizzabili: io parlo per continuare a parlare, e le parole che dico sono utilizzate per produrre altre parole, per produrre altro potere, cioè, per dominare la parola successiva, per esempio, perché ogni volta che stabilisco qualcosa è come se volessi stabilire l’essere dell’ente, anche quando mi faccio la domanda più banale mi sto chiedendo inevitabilmente dell’essere dell’ente, cioè, che cos’è qualcosa. Ciò ci fornisce un cenno circa il fatto che per i greci essere significa fin da principio esser-ci (Da-sein). L’ulteriore chiarificazione dell’ente nel suo essere deve muoversi in direzione della domanda: che cosa significa “Ci”? in base alla chiarificazione del “carattere di “Ci”” dell’ente diventa visibile il suo essere. Cioè, del modo in cui è. In che modo è questa cosa? In che modo è questa lampada? È sul tavolo. Il “ci” della lampada è di essere sul tavolo: questo è il suo modo di esserci. Nel senso corrente, ούσία è un ente determinato nel come del suo essere,… Dunque la sostanza è il modo, è il come qualche cosa c’è. Non la sua materialità: ούσία è il come una cosa c’è in questo momento. Per i greci non era nient’altro che il come mi appare. A pag. 61. Non è un caso che la definizione greca per le cose così come ci si fanno incontro innanzitutto sia πραγμάτα (le cose), “gli enti con cui si ha costantemente a che fare”, e χρήματα (le cose più importanti), “gli enti che sono stati assunti in uso”. Le due espressioni accennano al significato fondamentale di ούσία. Nella Metafisica Aristotele afferma che l’antica domanda τί τό ὅν, “che cos’è l’ente?”, sarebbe propriamente la domanda sull’essere dell’ente: τίς ή ούσία. Egli porta per la prima volta l’indagine scientifica su questo terreno, un terreno di cui Platone stesso non ha avuto nemmeno il presentimento. Certo, Platone non si è mai posta la domanda sull’essere dell’ente; lui voleva trovare l’ente, attraverso la sua dialettica, così com’è, per virtù propria. Parlare di essere dell’ente per Platone è già attribuire all’ente un qualche cosa in più, una determinazione, ma per Platone l’ente è ente e basta. Ούσία è il titolo per l’oggetto dell’autentica indagine fondamentale della filosofia aristotelica e ella filosofia greca in genere. Quando ci si assume il compito di chiarire il significato di un termine siffatto è necessario tenere presente i nessi materiali che esso intende. Cioè, tutti i termini a cui si riferisce. Il termine ούσία ha una genesi plurima. L’espressione ούσία, in quanto termine, è derivata da un’espressione che nel linguaggio quotidiano è dominante e che intende un ente determinato, vale a dire l’ente avente il carattere del patrimonio, del possedimento, del podere, ecc. Ha tenuto anche in conto che ούσία è la forma abbreviata di παρουσία, manifestazione. Assumiamo come filo conduttore il significato corrente di ούσία, chiedendoci se anche nel significato terminologico siano in un qualche senso ancora contenuti elementi semantici del significato corrente… Il significato terminologico, tecnico-filosofico, di ούσία come esserci, porta ancora con sé le parole, i termini da cui nasce: possedimento, podere, beni materiali, averi. …beninteso, soltanto come filo conduttore, seguendo il quale esamineremo a fondo gli elementi semantici del significato terminologico: quindi nessuna deduzione del significato terminologico da quello corrente! Il fatto caratteristico è che con quest’ultimo non viene espresso soltanto un ente, bensì un ente nel come del suo essere. Con l’espressione “casa” intendo un ente che “ci” è in modo esplicito: quell’ente che “ci” è innanzitutto e per lo più nella vita, al cui interno la vita di fatto si muove per lo più, e in base al quale la vita, per così dire, vivacchia la sua esistenza. Il significato corrente di ούσία implica insomma una duplicità: un ente, però anche, al tempo stesso, nel come del suo essere. Quindi, ούσία indica non soltanto l’ente, il πρᾶγμα, la cosa, ma anche come la cosa mi appare, il suo “come”. Queste due cose non sono disgiungibili, non sono separabili: non posso separare la lampada dal fatto di essere sul tavolo. Certo, lo posso fare, ma a quel punto la lampada diventa un’altra cosa. Ούσία in quanto εἶναι, “essere”, ha il suo significato ontologico del tutto determinato,… Qui dice una cosa che, in effetti, era già presente in Aristotele, quando dice “ούσία in quanto essere”. L’ούσία nella tradizione non è propriamente l’essere: l’ούσία è la sostanza e l’essere è l’essere. Qui, invece, dice che ούσία e essere sono la stessa cosa. Ma abbiamo visto in altri passi, in altri punti, che anche λόγος è essere, e così altre cose. C’è una certa ambiguità in questi termini. Ούσία in quanto εἶναι, “essere”, ha il suo significato ontologico del tutto determinato, derivato dalla comprensione primaria che i greci hanno dell’ente che si fa loro incontro innanzitutto. Ed è appunto questo senso primario dell’essere che ancora traspare nel significato terminologico. A pag. 63. Considera dapprima l’ούσία in quanto ente e, considera l’ούσία in quanto essere. Delle due direzioni fondamentali del significato del termine ούσία scegliamo anzitutto quella in cui è inteso l’ente stesso. Si parla di ούσίαι, di “enti” differenti, poiché hanno differenti caratteri ontologici. L’ente in quanto tale è esperito primariamente sempre pria dell’essere. È vero, lo dice anche de Saussure. È il significante ciò che percepisco, l’immanente, l’immagine acustica, quindi, ciò che mi si presenta è il significante, cioè l’ente. Ma sappiamo ben che questo significante senza il significato è nulla. E così l’ente, senza il “come del suo essere”, sarebbe nulla. Aristotele dice: “l’essere dell’ente si mostra manifestamente nei σώματα (corpi)”. Se traduciamo σώμα con “corpo” dobbiamo badare al fatto che “corporeità” per i greci non significa matericità o materialità, dato che σώμα intende piuttosto la peculiare “invadenza” di un ente, di un ente che “ci” è… Lui sottolinea il termine “invadenza”: l’ente come qualcosa che è invadente. Ed è così, in effetti. Tempo fa, se ricordate, dicevamo qualcosa di simile, parlando del come l’ente ci costringa in qualche modo a occuparci di lui, continuamente; l’ente, cioè le parole che diciamo ci costringono a occuparci di loro. Come? Dando loro un significato e, nel momento in cui questo significato non è sufficiente, trovargliene un altro, finché siamo soddisfatti. …ragione per cui in seguito τό σόν σώμα, “il tuo σώμα”, è immediatamente σύ (sei tu)… Il tuo corpo sei tu. …e σώμα significa successivamente “schiavo”, “prigioniero”, un ente che mi appartiene, che è a mia disposizione, qualcosa che “ci” è per me nella sua invadenza e ovvietà. Qui stiamo sempre parlando dell’ούσία, dell’ούσία in quanto ente. Ci parla di nuovo di qualcosa che è a mia disposizione, qualcosa che “ci” è per me nella sua invadenza e ovvietà. A pag. 64. Per Aristotele, quindi, e per qualsiasi indagine che, indagando l’essere, vuole avere del terreno sotto i piedi, appare scontato prendere le mosse dalla considerazione dell’essere (e della struttura ontologica) che esiste innanzitutto in questo modo, partire cioè da un senso dell’essere che la naturalità comprende senz’altro. Partire dalla chiacchiera. Da lì si parte, si fa il percorso, si procede, ma non si torna indietro, non si interroga la chiacchiera. Aristotele lo vieta nella Metafisica, lui sa perfettamente che si parte dalla chiacchiera. Non si può partire che da lì, già la dea ‘Aλήθεια diceva che puoi parlare solo della δόξα. Si parte sempre dalla chiacchiera, dall’ovvio, dal si sa, si dice, si pensa, ecc. Ma ciò che è sempre mancato nel pensiero occidentale è il ritorno alla chiacchiera. Si parte dalla chiacchiera, la si interroga, si compie un cammino teoretico, si ritorna alla chiacchiera e si coglie di che cosa è fatta. Se non si fa questo cammino, è come se si rimanesse sempre nella chiacchiera, non ci si accorge mai di parlare attraverso il “si”, questo “si” impersonale, per cui si dice, si pensa, si fa, ecc. La vita si muove in una comprensibilità naturale di ciò che essa, nel suo parlare, intende con “essere” ed “ente”. Una comprensibilità naturale vuol dire tutto e niente, vuol dire la chiacchiera, ciò che si pensa, ciò che si crede. Metafisica, Libro VII, capitolo 3: “si concorda circa il fatto che l’ente in senso proprio è qualcosa che ha a che fare con ciò che viene percepito nell’αἴσθησις (percezione). Quindi, l’ente in senso proprio è qualcosa che si percepisce. Dunque, de Saussure non ha detto niente di nuovo: il significante, l’ente, è ciò che si percepisce, è l’aspetto immanente, mentre il significato è l’aspetto trascendente, il significato non lo vedo, non lo sento, lo colgo ma non lo percepisco in quanto tale. Quando Aristotele parla di αίσθητόν non intende mai qualcosa di oggettivo avente il carattere dei dati sensibili, che diventa presente tramite “sensazioni”. Con αἴσθησις egli intende piuttosto la “percezione” naturale dell’ente, una percezione contrassegnata dal fatto che, nel suo caso, i sensi sono coinvolti, mediando l’accesso. È il modo naturale in cui vediamo gli alberi, la luna, e ne parliamo. Circa il fatto che l’ente che diviene accessibile mediante l’αἴσθησις ha il carattere dell’ούσία si è generalmente concordi. È quindi nel campo dell’ente così inteso che l’indagine va avviata in prima istanza: l’indagine della struttura dell’ούσία in quanto tale. Sì, perché non c’è quella distanza tra soggetto e oggetto, che verrà poi stabilita con la logica medioevale. Bisognerà aspettare fino a Hegel per trovare qualcuno che dica che soggetto e oggetto sono lo stesso. Quindi, quando Aristotele parla di percezione, di αἴσθησις, intende, certo, un agire qualche cosa, ma non sono io che percepisco un oggetto, nel percepire l’oggetto, l’oggetto e io che lo percepisco siamo lo stesso. A pag. 65. Aristotele introduce il capitolo 8 con l’elenco dei σώματα, intendendo così indicare il terreno a partire dal quale egli dà avvio all’intera indagine sull’essere dell’ente. 1. Come primo carattere ontologico egli designa lo ύποκείμενον. Enti come animali, le piante, gli uomini, le montagne, il sole sono tali da essere ύπό, cioè da “star-ci” già “fin da principio”. Traduce ύπό non con “sotto” ma con “ciò che sta fin da principio”, una specie di άρχή. Quando ne parlo, quando asserisco qualcosa di un animale o descrivo una pianta, ciò di cui parlo, l’oggetto del mio parlare, ciò che, parlando, ho lì davanti, che è lì presente, “ci” sta già fin da principio. L’essere di questo ente ha il carattere dell’essere semplicemente presente. Anche questo è molto interessante. Dice che ciò di cui sto parlando c’è già fin da principio, è sempre stato lì, perché io l’ho già appreso. Ogni volta che io parlo di qualche cosa, questo qualche cosa è già compreso, è già pre-compreso, nel senso che so già di che cosa sto parlando. È un “so” particolare, perché lo so fino a un certo punto. Potremmo quasi dire che è come se ci si trovasse nel concreto, nel tutto, e allora ciascuna cosa è già tutta presente, è lì con tutte le sue connessioni, i suoi legami, i suoi rinvii, è già tutto presente, cioè, quando sono nel linguaggio, il linguaggio è già tutto lì. 2. “Ciò che è lì semplicemente compresente” in un essere siffatto, nella funzione dell’αἴτιον τοῡ εἶναι (causa dell’essere). Un carattere ontologico così inteso è la ψυχή. Dire che l’anima è ούσία significa che essa è un carattere dell’essere che è lì presente in un ente inteso nel senso detto sopra: l’anima è lì semplicemente compresente in modo tale da contribuire a costituire l’essere specifico di ciò che chiamiamo vivente. È compresente. È questa la questione fondamentale: questi elementi di cui parla sono compresenti. Io che parlo dell’albero, che vedo avanti a me, io e l’albero siamo compresenti, e questa compresenza per il greco antico è l’ούσία, in quanto παρουσία, in quanto manifestarsi di qualcosa: io lo vedo, ne parlo, quindi, si manifesta nel mio dire, è il λόγος che lo manifesta, che produce. I due elementi fondamentali sono il κρίνειν (giudicare) e il κινεῖν (movimento). Un vivente non è semplicemente lì presente (come accessibile per chiunque), bensì, in modo esplicito, nel suo essere semplicemente presente, per di più “ci” è, può vedere, agire, muoversi. I due elementi di questa ούσία sono il κρίνειν – il “distinguersi” da qualcos’altro, l’orientarsi in un mondo – e il κινεῖν, il “muoversi al suo interno”, l’ ”avere a che fare in esso”, l’ “andare in giro e l’avere a che fare in esso”. Quando ci si occupa di filosofia greca bisogna quindi essere un po’ più prudenti con la celebre “sostanzialità” dell’anima. Ούσία significa un modo dell’essere, e se l’anima viene chiamata ούσία, allora ciò indica un modo eccellente dell’essere, vale a dire l’essere del vivente.