INDIETRO

 

 

10 novembre 2021

 

Platone. Alla ricerca della sapienza segreta di G. Reale

 

Questo libro di Reale contiene alcune riflessioni che possono essere interessanti. Dopo una parte in cui critica Eric Havelock, un filologo inglese, intorno alla questione per cui Platone da una parte denigra la scrittura e dall’altra è passato alla storia come uno dei più grandi scrittori, uno di quelli che ha scritto di più in assoluto. C’è un motivo: in effetti, Platone osteggiava la scrittura, così come appare soprattutto nella Lettera VII, perché secondo lui il testo scritto non può essere interrogato, mancava il dialogo, cosa che a lui interessa di più. Infatti, quand’è che ha incominciato ad apprezzare la scrittura? Quando lui si è messo a scrivere immaginando di essere lui il vero scrittore perché riusciva attraverso il dialogo a tenere vivo il confronto continuo. Andiamo a pag. 145. E, invece, in Platone si è verificato proprio questo: “ragione poetica” e “ragione metafisica” in lui hanno raggiunto un livello “egualmente sublime”. Platone diceva che lo scritto poetico non ha grande valore perché non c’è pensiero. Le pagine in cui egli imprime la cifra emblematica del suo pensiero metafisico sono quelle centrali dl Fedone, uno dei suoi più grandi capolavori sia artistico che filosofico, dove egli va alla ricerca della “vera causa” delle cose, e presenta tale ricerca come la sua seconda navigazione:… La seconda navigazione per i Greci era quella navigazione che occorreva avviare quando c’era la bonaccia. La prima navigazione era quella con le vele; la seconda navigazione avviene quando non c’è vento e tocca proseguire con i remi. La bonaccia era un pericolo non minore della tempesta, perché con la bonaccia si sta fermi, incominciano a scarseggiare acqua, viveri, qualunque cosa. Platone usa questa metafora per indicare il percorso teorico che lui ha fatto, quindi di seconda navigazione, un qualcosa che richiede uno sforzo, una fatica – la fatica del concetto, come diceva Hegel – ma anche la condizione per pensare. A pag. 152. …risulta che il primo carattere essenziale delle Idee è quello della “intelligibilità”: infatti, l’intelligibilità esprime quella peculiare natura delle Idee che consiste nell’essere coglibili solo mediante l’intelligenza:… Non con i sensi, ovviamente … Strettamente connesso a questo carattere è quello della “incorporeità”. … Inoltre, le Idee vengono ripetutamente qualificate da Platone come “vero essere”, ossia un essere che non nasce, non perisce, non cresce né diminuisce, non muta né diviene in alcuna maniera. Le Idee sono essere in sé /…/ Di conseguenza, ben si comprendono le ragioni per cui Platone chiami la stessa ricerca fatta dal filosofo (connessa con la sua “seconda navigazione”) come “ricerca dell’essere”, ossia come quello studio capace di raggiungere “quell’essere che sempre è, e non errante per generazione e corruzione”. Egli parla inoltre di una “vera ascesa dell’essere”… L’ascesi, da cui l’asceta, è un andare verso l’alto. C’è un termine greco, ἀναγωγή, la cui traduzione corrente è “induzione”, cioè, l’andare verso l’alto, dal particolare all’universale. In effetti, per spiegare il divenire, le Idee offrono ciò di cui il divenire stesso necessita, ossia appunto l’essere che le cose non hanno in proprio e che mutuano dalle Idee. Questo intanto per darvi un’idea generale. A pag. 157. Naturalmente, viene subito da chiedersi per quale ragione al vertice protologico della metafisica platonica non ci sia un unico Principio primo e supremo, ma due Principi. La spiegazione di questo fatto si ottiene solo se si intende la posizione storica in cui esso si colloca. Il problema metafisico per eccellenza per i Greci è stato per molto tempo il seguente: perché ci sono i molti? In altri termini, perché e come dall’Uno derivano i molti? Questo è il problema da sempre. È il problema del pensiero, il problema del linguaggio: l’uno e i molti. Il problema si era imposto come decisivo soprattutto dopo la radicale esperienza dell’eleatismo, che, negando ogni forma di non-essere, aveva negato ogni fra di molteplicità e aveva ridotto tutto l’essere a unità. Al problema avevano cercato di rispondere già i cosiddetti “pluralisti”, ossia Empedocle (con la teoria dei quattro elementi), Anassagora (con la teoria delle omeomerie) e Democrito (con la teoria degli atomi). Ma la posizione che Platone assume a livello protologico è ben più radicale: egli tenta appunto di spiegare la molteplicità in funzione di un principio antitetico all’Uno, ossia in funzione della Diade, secondo uno schema metafisico bipolare. L’Uno come principio primo e supremo non è, ovviamente, l’uno aritmetico, ma l’Uno metafisico, ossia un principio che dà unità a tutti i livelli, determinando e ordinando il principio antitetico. L’uno aritmetico non è se non una derivazione dell’Uno metafisico. A pag. 159. L’essere è definito come ciò che è generato a partire dai due principi mediante delimitazione e determinazione del principio materiale da parte del principio formale, e che in certo qual modo è come un misto. Questo è il nocciolo della concezione ontologica di fondo di Platone. Ne consegue che i principi medesimi non sono essere, ma, in quanto costitutivi di ogni essere, sono anteriori all’essere, e, quindi, l’unità come principio di determinazione è al di sopra dell’essere, il principio materiale indeterminato come non-essere è piuttosto al di sotto dell’essere. A pag. 160. L’essere, in quanto de-terminato, de-limitato, ordinato e unificato, è, di conseguenza, conoscibile. Infatti, solo ciò che è determinato, limitato, ordinato e unificato risulta essere conoscibile. La verità e la conoscibilità delle cose dipendono, pertanto, dall’azione dell’Uno esercitata sulla Diade, che, di per sé, in quanto indeterminata, illimitata, disordinata molteplicità, sarebbe inconoscibile. Qui assistiamo alla nascita della metafisica. È stato Platone a porre e ad articolare per primo l’idea del sovrasensibile e, quindi, della metafisica. Metafisica e sovrasensibile sono sinonimi. Ciò che a noi interessa è perché Platone ha fatto una cosa del genere, a che scopo. Il punto centrale, come dicevamo prima, è l’uno e i molti. Noi pensiamo l’uno, ma lo pensiamo in relazione a che? Ai molti, e pensiamo i molti in relazione a che cosa? All’uno. Dunque, per pensare l’uno è necessario che ci siano i molti; l’uno senza i molti non è niente, perché sarebbe uno rispetto a che? Lo stesso vale per i molti, naturalmente. Quindi, questa simultaneità, che era presente nei presocratici, in particolare negli eleati, impediva, come sappiamo bene, di stabilire una gerarchia, e cioè l’uno come il bene e i molti, quindi, come il male: Apollo e Dioniso. L’uno, la conoscibilità: perché qualcosa sia conoscibile occorre che sia fermo, sennò come lo conosco se continua a muoversi? Come dicevamo anche la volta scorsa rispetto al movimento: per conoscere il movimento devo fermarlo, devo determinarlo, quindi, fermarlo. Un po’ come la freccia di Zenone: è ferma, allora posso vedere, ma a questo punto non vedo più il movimento, perché non c’è più, l’ho fermato, e quindi che cosa sto pensando? Il movimento? No, perché non c’è più. E, allora, come lo penso il movimento? In che modo, se posso pensarlo solo fermandolo e, quindi, cancellandolo? Pertanto, non c’è movimento. Questo è Zenone. Ci interessa questo aspetto dell’uno e dei molti non solo perché è stata e continua a essere la cosa più importante per il pensiero degli umani, ma anche perché è la questione stessa del linguaggio, e cioè posso pensare qualcosa a condizione che questo qualcosa non sia ciò che io penso che sia. Penso l’uno ma a condizione che l’uno non sia uno ma sia molti, perché pensando l’uno metto in movimento una serie di rinvii che immediatamente mi pone davanti i molti. Posso pensare l’uno solo come molti, ma posso pensare i molti solo come uno, cioè, pensando i molti che sono “una” cosa. Quindi, per pensare una cosa occorre che questa cosa non sia ciò che immagino che sia, per dirla in modo un po’ spiccio. Ora, questo problema, che gli eleati avevano posto, è il problema che la metafisica di Platone, e poi quella di Aristotele, ha dovuto in un certo qual modo domare. E, infatti, Platone, come dicevo prima, si accorge – non poteva non saperlo perché aveva letto anche lui gli eleati, anzi, erano ancora lì presenti, vivi e vegeti – si accorge che per conoscere occorre che ci sia l’uno, che l’uno sia quello che è e che sia fermo. Leggeremo infatti il Parmenide, dove tratta dell’uno e dei molti, dopodiché il Sofista, dove tratta la questione della conoscenza, che per potere essere conoscenza deve separare l’uno e i molti. L’Uno è ciò che per Platone consente la conoscenza, i molti la impediscono, e allora per potere sostenere la conoscibilità delle cose devo tenere separati l’Uno e i molti: l’Uno come il bene, ciò che deve essere perseguito, i molti come il male, come ciò che deve essere allontanato. In tutto ciò si intravede la necessità della costruzione, della invenzione della metafisica, che in Platone si appoggia all’Uno, ma perché questo Uno sia assolutamente identico a sé non deve essere pensato. Cosa significa questo? Significa che l’Uno, se lo pongo al di fuori di ogni mutabilità, quindi come idea pura, idea assoluta, come forma, solo a questa condizione proteggo l’Uno dai molti. Quindi, l’Uno deve essere qualcosa di intoccabile, di inaccessibile, deve essere una idea pura e, quindi, non diviene ma è quello che è, immutabile. Ma, appunto, per proteggere questa idea devo porre l’Uno fuori dai molti, devo tenerlo separato, ma per tenerlo separato occorre che l’Uno non possa essere pensabile, perché se lo penso già diventa molti. Ma se l’Uno non è pensabile, tuttavia è necessario perché, pur non essendo pensabile, è ciò che garantisce la conoscibilità: senza l’Uno non si può conoscere perché l’Uno è quello che è, quindi, è fermo, stabile, immobile, è l’essere. In tutto questo, naturalmente, c’è una questione importante, la necessità di reperire un qualche cosa che possa essere utilizzato al fine di persuadere. Il lavoro che facevano gli eleati, per quanto straordinario, non era volto ad educare le persone, il lavoro di Socrate e di Platone invece sì. Platone, sulla scorta di Socrate, deve educare; Socrate non faceva altro che cercare di educare – la Paideia, la formazione , ma per formare qualcuno alla retta via occorre dare una direzione, un τέλος, un fine, una finalità, che deve essere vera, certa, deve essere ciò che è bene perseguire. Per educare qualcuno occorre dargli una direzione, indicargli qual è il bene e qual è il male; il bene è l’Uno e il male sono i molti. Quindi, la necessità di educare, quindi, di governare, passa attraverso la necessità di manipolare, cioè, di indicare alla massa che cosa è bene e cosa è male: governare è manipolare, necessariamente. Ma per fare questo per Platone occorreva inventare la metafisica, e cioè porre questa idea di Uno come bene assoluto, quel bene assoluto che appartiene agli dei, mentre gli umani possono solo avvicinarsi, tendere al bene. Vedremo poi anche l’eros, che sta a metà tra gli dei e gli umani, è qualcosa che spinge gli umani verso gli dei, cioè, verso il bene. Ricordiamoci che l’eros per i Greci non è l’eccitazione erotica, anche, ma è soprattutto la tensione intellettuale verso il bene, verso l’Uno, verso l’unificazione. A pag. 161. Ma lo stesso pensiero teologico più antico si fonda su una concezione bipolare. Già nella Teogonia di Esiodo questo risulta evidente. Fin dall’origine gli dei e le forze cosmiche si suddividono in due sfere polarmente opposte, facenti capo a Gaia e a Caos, che hanno, rispettivamente, le caratteristiche della forma e dell’amorfità: in questa bipolarità si riassume la totalità delle cose che sono. Ma anche nella seconda fase della teogonia, ossia con l’avvento di Zeus, la concezione bipolare rimane un’idea di fondo. A pag. 163. In effetti, il pensiero occidentale, come ho avuto più volte modo di rilevare, risulta condizionato, in modo decisivo, proprio dalla scoperta dell’essere soprasensibile non solo in quanto e nella misura in cui la accetterà, ma anche in quanto e nella misura in cui non la accetterà: infatti, in quest’ultimo caso la non accettazione degli esiti della “seconda navigazione” dovrà essere giustificata e la dialettica polemica connessa con la non-accettazione implicherà sempre in varia misura un condizionamento. Si ricordi, in particolare, che solo dopo gli esiti della “seconda navigazione” si può parlare di “sensibile” e “soprasensibile”, “empirico” e “metempirico”, “fisico” e “soprafisico”. Ed è solo alla luce di queste categorie che i Fisici anteriori e Platone risultano essere “materialisti”, e il cosmo fisico risulta essere non più la totalità delle cose che sono, ma la totalità delle cose che appaiono. E, a maggior ragione, il ragionamento vale per le posizioni assunte dai filosofi posteriori a Platone dopo la sua scoperta. A pag. 164. L’uomo di oggi tende a dividere tutto, come ha fatto con l’atomo. Non solo a livello politico (classi, partiti, correnti, ecc.), e anche a livello morale: divisione della famiglia con il divorzio, lotte fra i sessi, divisioni fra genitori e figli, e così di seguito. L’uomo di oggi ha scavato scissioni di fondo anche nel proprio animo, con ben note conseguenze. E il messaggio platonico potrebbe dire proprio questo, ossia che i problemi connessi a quelle divisioni hanno una sola radice, e possono comporsi solo riportando l’unità nella molteplicità, l’ordine nel disordine, l’armonia nella disarmonia. Chiaramente, non arriva a porre la questione in termini radicali, però si tratta di questo, di cogliere che l’Uno e i molti, non è che vanno di pari e passo, sono lo stesso: l’Uno è i molti, i molti è l’Uno. A pag. 172. Ma per comprendere la ragione per cui Platone non identificava le Idee con i Numeri, che è ciò che più ci interessa, occorre comprendere che il modo particolare dei Greci di intendere il numero si distingue notevolmente dal nostro, come O. Toeplitz ha ben spiegato. Per i Greci il numero era per lo più pensato non come “numero intero”, ossia come una sorta di grandezza compatta, bensì come rapporto articolato di grandezze e di frazioni di grandezze. Di conseguenza, il logos greco risulta essere essenzialmente collegato con la dimensione numerica, appunto nel significato di “rapporto”. Per queste ragioni, risulta del tutto naturale per i Greci connettere le “relazioni” con i numeri, dati gli stretti nessi fra rapporti e numeri. È per questo che vedevano numeri dappertutto: perché il numero è un rapporto, e i rapporti sono ovunque. A pag. 196. Qui parla del bene, dell’Uno. Già Werner Jaeger, e senza far riferimento alle “dottrine non scritte”, aveva capito che “l’Idea del Bene è in realtà la meta di tutte le ricerche che si svolgono nei primi dialoghi platonici”, e il Bene è inteso proprio nella Misura assoluta”. E, concludendo la sua analisi del Liside, scrive: “Quell’Idea del Bene che appare, negli altri dialoghi socratici, punto fisso di orientamento, si rivela misura assoluta e ultima istanza anche rispetto al problema dell’amicizia; poiché, anche senza che Platone lo dica espressamente, è chiaro per il lettore intelligente, che dietro “ciò che primo è caro”, per cui tutto il resto si ama, si cela il valore supremo, il “buono in sé”. Ciò che primo è caro, cioè, è l’Uno l’unico bene che deve essere ricercato. Dicevamo dell’Eros e, infatti, a pag. 208 dice Uno dei caratteri più rivoluzionari dell’Eros platonico, nell’ambito della cultura dei Greci, consiste nella sua figura emblematica di un “demone” e non di un “dio” (una concezione decisamente “eretica” per la teologia e la mitologia elleniche). Ma perché Eros è presentato da Platone come un demone e non come un dio? Perché è una forza “intermedia” e “mediatrice”. Eros non è né immortale né mortale, ma è “intermedio fra divino e mortale”, è forza che porta alla ricerca e all’acquisizione all’immortale. Questo è l’Eros: questa spinta verso l’immortale. Scrive Platone nel Simposio: “Eros è un gran demone: infatti tutto ciò che è demonico è intermedio fra divino e mortale. /…/ Ha il potere di interpretare e di portare agli dei le cose che vengono dagli uomini e agli uomini le cose che vengono dagli dei: dagli uomini le preghiere e i sacrifici, dagli dei, invece, i comandi e le ricompense e i sacrifici. E, stando in mezzo fra gli uni e gli altri, opera un completamento, in modo che il tutto sia collegato con se medesimo”. Il concetto di Eros come demone mediatore viene illustrato da Platone con una splendida metafora… La metafora di Poros e Penìa. Eros è il figlio di Poros e Penìa, rispettivamente l’abbondanza e la mancanza, la scarsità, e quindi Eros sarebbe entrambe queste cose. E, infatti, conclude dicendo che Eros non è mi né povero di risorse, né ricco. A pag. 217. Ma la via che mediante Eros porta alla visione e alla fruizione del Bello assoluto corrisponde alla stessa via della dialettica, con i suoi procedimenti diairetici (divisione) e soprattutto sinottici (condensazione), che mirano a raggiungere l’Uno. La via erotica che porta alla visione e alla fruizione del Bello assoluto, ossia la “scala di Eros”, è la seguente. Il primo gradino di questa scala consiste nell’amore per la bellezza che è nei corpi, che non è tanto il piacere legato al sesso, quanto la ricerca di quella emozione (di quell’“urto metafisico”, potremmo dire) che produce la visione e la fruizione della bellezza, già a partire da quella che si manifesta nei corpi, e quindi la forma della bellezza che è in un corpo e in tutti i corpi belli. E mediante l’amore della bellezza che è nei corpi dei giovani belli bisogna far nascere in loro la virtù, e quindi bisogna saper crescere con loro. Ma l’uomo, come vedremo, non è il suo corpo, bensì la sua anima. Pertanto, la vera bellezza dell’uomo non è quella del suo corpo, bensì quella della sua anima: la prima è l’apparenza del bello, la seconda è la vera bellezza dell’uomo. E, mediante questo rapporto con la bellezza dell’anima, nascono, nella dimensione dell’Eros, quei discorsi capaci di far crescere i giovani nella virtù e l’amante insieme con loro. Il terzo gradino è quello della bellezza delle attività e delle leggi umane. Ed è su questo terzo gradino che si collocano quelle creazioni nella bellezza che producono figli come quelli che Licurgo lasciò a Sparta e Solone ad Atene. E questa bellezza consiste in quell’armonia e in quella giusta misura che produce la virtù, e in particolare la temperanza e la giustizia che fanno gli Stati ben ordinati. Il quarto grado potrebbe essere per l’uomo di oggi il più difficile da intendere in quanto consiste nelle scienze e nella bellezza che è loro propria. Ma Aristotele ci ha fornito la spiegazione più penetrante, in particolare parlando delle matematiche: “Le supreme forme del bello sono: l’ordine, la simmetria e il definito. E le matematiche le fanno conoscere più di tutte le altre scienze”. L’“ordine”, il “definito” e la “giusta misura” sono appunto connotati essenziali del Bello, che le scienze, e quelle matematiche in particolare, dischiudono e fanno comprendere a largo raggio. Il quinto e supremo grado coincide con la visione del Bello, ossia con quel momento in cui il Bello si manifesta in se stesso, per se stesso, con se stesso, in quella unità di forma che sempre è. Ecco, questo è il tragitto che per Platone occorrerebbe compiere. Vedete che, quindi, c’è una supremazia assoluta dell’ordine, del definito, della misura. Come si giunge all’ordine, al definito, alla giusta misura? Per Platone, puntando verso l’unità, verso l’Uno, perché è l’Uno la misura assoluta, si parte dall’Uno (lo zero non c’era ancora). Questi principi, che sono i principi fondamentali della metafisica, sono quelli che su cui si è costruito il pensiero. Ciò che a noi interessa è intendere come si è costruito il pensiero così come è pensato oggi, pezzo dopo pezzo per millenni. Platone è stato il vero iniziatore e Nietzsche lo ha colto benissimo; infatti, considerava Platone la peggiore sciagura mai capitata all’umanità proprio per questo motivo, perché è stato l’inventore della metafisica, cioè, del Bene come Uno, come giusta misura, come il definito, il determinato in sé, un Uno che non è in relazione ad altro. Vedremo poi che parlerà di un Uno che è in sé e per sé e poi di un altro Uno che, invece, è dialettico. Ma per il momento quello che ci interessa è questo Uno, che è quello metafisico. L’Uno metafisico è una sostanza separata, che non è in relazione con altro, è il puro essere; quindi, è ciò che è, ma ciò che è per sé e non per altro. Quindi, essendo l’Uno la misura di ogni cosa – per misurare si parte sempre da uno – è chiaro che questo Uno diventa ciò verso cui occorre andare. Infatti, Eros è ciò che spinge verso l’Uno, perché l’Uno è il Bene assoluto. Perché l’Uno dovrebbe essere il Bene assoluto? Perché se l’Uno è l’ordine, il definito, la giusta misura, allora l’Uno è posto come la totalità del controllo, è il controllato per definizione, anzi, lui è il controllore, ciò che controlla tutto; i molti no, sono la dispersione, sono la distruzione, i molti sono Dioniso. Era necessario, dunque, per inventare la metafisica questa totale, assoluta, incontrovertibile priorità dell’Uno sui molti, che dovevano essere allontanati come il male. E, infatti, è così per Platone: soltanto se c’è l’Uno, in quanto delimitato, finito, determinato, giusta misura, allora è possibile indicare che cosa è bene e cosa è male e, quindi, dare una direzione, quindi educare, quindi costruire la polis, la civiltà. E, in effetti, è questa una questione che Platone affronta a lungo nella parte centrale della Repubblica. È stata la prima formulazione della metafisica, e cioè la prima affermazione che l’Uno, l’unità, l’ordine, il definito, deve essere prioritario su tutto, sennò non si governa. Negli eleati, invece, non c’era nessuna ambizione di governo, sapevano che non si poteva governare, era un mestiere impossibile, cosa che Freud ripeté duemilacinquecento anni più tardi: governare, educare, psicoanalizzare sono mestieri impossibili. Gli eleati avevano buoni motivi per sostenere una cosa del genere, non solo perché ciascuno è preso dalle sue fantasie, ma perché sapevano che questo Uno non esiste senza i molti; quindi, separare l’uno dai molti era un’operazione totalmente arbitraria e, potremmo dire oggi, ideologica, cioè, un’idea volta a un fine, a un utile ben preciso. La cosa interessante è che sia Platone sia Aristotele, proprio per arginare l’inarginabilità del linguaggio, hanno dovuto prenderlo seriamente in considerazione. Una volta si faceva così: per confutare qualche cosa lo si studiava bene prima, occorreva un’argomentazione, un pensiero, una riflessione. E il pensiero e la riflessione hanno portato sia Platone sia Aristotele a considerare che l’Uno e i molti, che la materia e la forma, che la δύναμις e l’ένέργεια risultano difficili da disgiungere, ma occorre un’azione di forza, che Platone ha compiuto e in parte anche Aristotele. L’obiettivo è sempre quello di tenere separato il bene dal male, per Platone l’uno separato dai molti, per Aristotele la forma dalla materia. Poi, sappiamo che Hegel ha individuato tutto ciò nella struttura fondamentale del discorso religioso. Il discorso religioso è questo: il tenere separato il bene dal male, così come ci sono il Paradiso e l’Inferno, Dio e il diavolo, ecc. È un’operazione ideologica e lo sarà ancora di più con i Neoplatonici, con Plotino in particolare, con i quali la necessità di separare l’uno dai molti, è stata radicalizzata. Sapendo oppure no che l’Uno e i molti costituiscono “il” problema è che non si risolve semplicemente dicendo che l’Uno è il bene e i molti sono il male. Questa, torno a dire, è stata un’operazione ideologica. Infatti, nei dialoghi di Platone, il Parmenide e il Sofista sono dialoghi aporetici, dove non si decide nulla alla fine. Platone cerca di confutare la posizione di Parmenide, del Sofista, anche di Gorgia, ecc., ma gli è impossibile perché Parmenide e gli altri gli mostrano l’impossibilità di separare l’Uno dai molti in modo incontrovertibile: rimane un arbitrio ideologico. Ecco, qui ci parla della città ideale. La città ideale è costruita sulla tirannia, cioè, coloro che sanno, i filosofi, devono imporre il loro sapere a tutti quanti e tutti devono attenersi a questo: tutti devono seguire il bene e non c’è dissenso possibile. La Repubblica di Platone è, in effetti, una oligarchia di pochi che hanno il controllo di tutto, perché loro sanno, sanno che cos’è il bene. E qui è nata l’idea dello Stato: pochi che sanno qual è il bene per gli altri. Vi risulta che sia cambiato qualcosa da allora? Si potrebbe discutere sul fatto se sia possibile un’altra forma di governo. Forse no, tenendo conto della volontà di potenza di ciascuno: ciascuno cerca in tutti i modi di superpotenziarsi a scapito degli altri. Qui c’è invece un’ultima questione, che è interessante. A pag. 271. A proposito di non pochi problemi, proprio nel punto culminante della sua discussione, mentre si accinge a indicarne la soluzione, Platone chiama in causa il mito e instaura fra logos e mito un nesso strutturalmente inscindibile. Le ragioni fondative di questo nesso vanno ben comprese, se si vuole leggere e intendere l’opera platonica in modo adeguato. A partire dall’età moderna, in conseguenza della “rivoluzione scientifica”, si è interpretata la filosofia, in generale e in particolare, come un passaggio storico dal mythos al logos, e pertanto si è inteso l’evoluzione della filosofia come uno sviluppo del logos stesso e come un suo distacco sempre più marcato dal mythos. Di conseguenza, si è considerato il linguaggio che è proprio del mito come un linguaggio pre-filosofico, se non addirittura a-filosofico, ossia come una forma di messaggio immaginifico e fantastico privo di carattere scientifico-veritativo. Sottolineerei “messaggio immaginifico”, perché riguarda l’immagine. Ma la cosa interessante è questa. A pag. 275. Ma c’è molto di più da rilevare: è Platone stesso che chiama “mito” addirittura la sua opera più grande, più ricca e più articolata, ossia la Repubblica, proprio nell’autotestimonianza finale del Fedro e con esplicite conferme nella Repubblica stessa. Ricordiamo che la Repubblica parte dalla base tematica della “giustizia”, per giungere al vertice supremo dell’Idea del “Bello”, che, come sappiamo, coincide con il “Bello” (il Bello è un modo di esplicarsi del Bene, così come la giustizia è un modo di esplicarsi del Bene e del Bello, in quanto fa prevalere l’ordine sul disordine e quindi porta l’unità nella molteplicità). A pag. 276. Se si è ben compresa la differenza stabilita da Platone fra la comunicazione mediante la scrittura e quella mediante l’oralità, si intende a perfezione il senso in cui Platone considera il proprio scrivere un mythologhein. Ma il mito non riguarda solo la forma – ossia la comunicazione dei messaggi mediante la scrittura, in quanto solo nella dimensione dell’oralità dialettica il discorso si impone come coerente, solido e compiuto ma riguarda anche certi contenuti, ossia certe tematiche, che, per loro natura, non sono esprimibili in rigorosi concetti dialettici. In primo luogo bisogna rilevare che tutte le forme di realtà connesse con il divenire non si possono esprimere se non in forma di mito, in quanto la pura noesis e il puro sapere dialettico sono possibili solamente in riferimento all’Essere immobile ed eterno, e dunque al mondo delle Idee. Cosa accade qui? Accade che, tolto l’Uno dai molti, rimangono i molti, cioè il divenire, ma come mito. Di conseguenza tutte le problematiche connesse con il cosmo e quelle connesse con le anime e, in generale, con la storia vengono trattate da Platone facendo largo uso del mito, ossia nella dimensione del verosimile. Per Platone il mito e il logos sono complementari. Lo rileva anche Reale. A pag. 277. L’errore ermeneutico più grave che non pochi commettono nell’interpretazione di Platone consiste nel mettere in atto sofisticati tentativi di demitizzazione dei suoi miti al fine di trasformarli in puro logos. Ma su che cosa si basa la complementarietà delle due vie parallele del mito e del logos per giungere alla Verità? Nel rispondere a questo problema, ricordo che la posizione assunta da Platone trascende il suo stesso significato storico, in quanto oggi, in seguito alla crisi dello scientismo, il “mito” torna a reimporsi, proprio dal punto di vista sistematico e teoretico. In effetti, ormai da alcuni decenni, l’uomo contemporaneo si sta rendendo conto del fatto che la “scienza” scoperta con la “rivoluzione scientifica” è lontana dal pervenire a verità ultimative in modo incontrovertibile, e che, in particolare, i metodi della scienza, per quanto siano indiscutibilmente validi nel loro ambito, non possono essere assunti come metodi esclusivi per l’accesso alla verità. E, di conseguenza, ci si sta rendendo ben conto degli errori che la filosofia stessa ha commesso, assumendo come modello epistemologico appunto i metodi delle scienze particolari. A pag. 278. Si prescinda dalla preminenza data nel passo letto all’immagine, dal momento che chi parla è un pittore (stava citando poco prima De Chirico), e ci si concentri sul concetto del pensare-per-immagini, che è alla base del problema dei nessi strutturali tra mythos e logos: il mito platonico è, appunto, non un semplice “rappresentare immagini”, ma un “pensare per immagini”, ossia un pensare mediante immagini, mentre il logos è un “pensare per concetti”. Sia il mito che il logos, dunque, sono un “pensiero”, sia pure in forme differenti, e lo sbocco cui tendono le due vie del pensiero, nei loro momenti culminanti, è la Verità. Pensare per immagini è tipico del Greco. Ma che cos’è propriamente il pensare per immagini? Per poco che ci si rifletta non è altro che l’analogia. L’analogia è il pensare per immagini: confrontare immagini, metterle vicine. Dire che la filosofia affonda le sue radici nel mito è come dire che il pensiero concettuale affonda le sue radici nell’analogia. Come abbiamo detto tante volte, c’è l’analogia a fondamento di tutto. Il mito è analogia, somiglianze, ecc. A pag. 282. Ricordo che l’Uno e la Diade indefinita sono considerati da Platone, rispettivamente, Principi del Bene e del Male: più precisamente, l’Uno è considerato Principio dell’ordine, della struttura armonica, della giusta misura delle cose a tutti i livelli; la Diade indefinita è invece considerata Principio della molteplicità e della differenziazione, nonché del disordine e delle deficienze. Tali Principi, come ho sopra spiegato, non sono affatto da intendere come Principi che presuppongono una opposizione radicale e quindi inconciliabile, in quanto cooperano in modo sinergico. A pag. 283. All’Uno-Bene risulta contrapposto un principio opposto della molteplicità (principio della moltiplicazione e della graduazione) ugualmente originario, non, però, paritetico e non di eguale rango. È chiaro che Platone non riesce a togliere di mezzo il molteplice e, allora, qual è l’operazione che compie? Il molteplice diventa il mito, diventa qualcosa che deve essere ricondotto, attraverso la filosofia, all’argomentazione veritativa. Si accorge Platone che il mito non è altro che analogia? Sì e no, più no che sì, direi. Tutto ciò che viene in seguito di scientifico, come la logica di Aristotele, è fondato sull’analogia: è un pensiero problematico, è il pensiero degli eleati, cioè, un pensiero che tiene conto del fatto che l’Uno è uno in relazione ai molti, non c’è l’Uno senza i molti, se tolgo i molti non c’è neanche l’Uno, e viceversa. Quindi, il pensiero dell’analogia è il pensiero dell’infondabilità. Infatti, il mito non si pone come fondamento, il mito è un racconto, fatto attraverso immagini, immagini che si combinano tra di loro e che, combinandosi fra loro, formano analogie, formano tutte le figure retoriche, che non a caso si chiamano immagini (figure) retoriche. Ciò che possiamo dire a questo punto è che l’operazione di Platone, l’invenzione, la costruzione della metafisica è stata un’operazione ideologica. La metafisica non è altro che la struttura del linguaggio, certo, ma, tenendo conto che l’Uno e i molti sono lo stesso, è una metafisica entro certi limiti. Anzi, forse questa affermazione a questo punto è da rivedere, perché a questo punto se Uno e molti sono lo stesso allora non viene più bene stabilire un qualche cosa che sia identico a sé. Però, è come se il linguaggio, per potere funzionare, avesse bisogno di separarli. In questo aspetto potremmo dire che è metafisico: deve separare l’Uno dai molti, deve separare il dire da ciò che il dire dice. E questa è la questione centrale che riguarda il linguaggio, di cui ci occuperemo leggendo il Parmenide di Platone, che tratta appunto dell’Uno e dei molti.