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10 ottobre 2018

 

La struttura originaria di E. Severino

 

L’intento di Severino è mostrare che se c’è qualche cosa, allora questo qualche cosa non può non essere. Adesso vi dirò anche il perché lui la fa così difficile. Dunque, se c’è qualche cosa questo qualche cosa non può essere altro da ciò che è. Perché? Anche questo è molto semplice. Se c’è qualche cosa questo qualche cosa, se ammettesse l’eventualità che possa non essere, allora, sarebbe e non sarebbe simultaneamente. E, quindi, quale sarebbe il problema? Si potrebbe dire: non è, va bene, e allora? No, il problema c’è, è che non è utilizzabile. Questo è il motivo per cui Severino scrive tutte queste cose: un elemento non sarebbe utilizzabile, e continua a dirlo per cinquecento pagine, è nulla. Cosa vuole dire che è nulla? Cosa importa se è nulla? Importa perché non è utilizzabile. Per via del modo in cui è strutturato il linguaggio, un elemento del genere è inutilizzabile. Possiamo ancora dire che questo comporta che perché un elemento sia quello che è debba essere incontraddittorio, cioè non debba portarsi appresso la sua negazione. Come dice continuamente Severino, questa negazione deve essere tolta; deve essere tolta ma deve esserci; quindi, deve essere posta ma in quanto tolta. Perché se non ci fosse, e questo lo dirà a breve, allora non ci sarebbe, a fianco dell’essere, il non essere in quanto tolto. Ci sarebbe solo l’essere ma, stando da solo, l’essere potrebbe incappare nel non essere, e quindi occorre che il non essere ci sia ma che sia tolto. Questo è il marchingegno che si è inventato Severino: è necessario che questo nulla, rispetto all’essere, ci sia ma ci sia in quanto tolto. Se non c’è allora all’essere non si oppone nulla, non si oppone il non essere, cioè, l’essere non può più non essere il non essere. E siccome l’essere è determinato dal fatto di non essere il non essere, se io tolgo il non essere non è più determinato da niente, e quindi sprofonda nell’abisso anche lui. Questo è l’impianto di tutto quanto il discorso. Che però comporta un problema. L’idea è di togliere la contraddizione, e cioè lui dice a un certo punto che questa contraddizione dovrà togliersi. Quando si toglie? Quando si risolve il problema del non essere, e che cos’è il problema del non essere visto più in grande? Il Tutto, la totalità degli enti, il mondo per Heidegger, non è che mi appaia tutto simultaneamente, non appare mai concretamente ma appare sempre sotto forma di una determinazione, come qualcosa di immanente, che vedo. Ma perché a questo tutto possa togliersi la contraddizione, cioè il non essere, bisognerebbe intanto riflettere su che cos’è il non essere per questo Tutto. Se io vedo delle cose, tutte le altre non mi compaiono, quindi, non ci sono. Quindi, è come se mi trovassi di fronte alla situazione in cui questo Tutto, sì, c’è ma è astratto, non è mai concreto. Per renderlo concreto occorre che questo Tutto appaia tutto, qui, adesso, in questo istante, cioè tutto ciò che è stato, tutto ciò che è e tutto ciò che sarà, qui, in questo preciso istante. Ciò che appare sono sempre determinazioni, momenti di questo Tutto, e quindi fino a quando questo Tutto non sarà concreto rimane contraddittorio, perché un Tutto che però è fatto di elementi che sono finiti, cioè, l’infinito contiene elementi che sono finiti. E questo è un problema. Questo Tutto si risolverà, secondo Severino, nel momento in cui diventerà il concreto. Ma qual è il problema? Anche ammesso che questo Tutto possa diventare concreto, cioè essere immanente qui e adesso, il problema è il linguaggio. Il linguaggio, e questo Severino lo sa perfettamente, è differente, differente inteso qui non come aggettivo ma come participio presente del verbo differire, cioè come qualcosa che differisce continuamente, che sposta sempre. Si tratta, quindi, di trovare un qualche cosa, rispetto a questo Tutto, quando deve essere incontraddittorio… perché è questo l’obiettivo finale, togliere la contraddizione C, come la chiama lui, che sarebbe la grande contraddizione, quella del concreto rispetto agli elementi astratti che di volta in volta appaiono. Però, il problema è il linguaggio: finché c’è linguaggio, il linguaggio continua a differire, e continua a differire che cosa? la sua contraddizione, il fatto che ciascuna volta, per dire qualcosa, devo dire un’altra cosa, per dire qualcosa devo dire un’altra cosa, sono sempre spostato. Ecco perché scrive quel libro che si chiama Oltre il linguaggio, perché deve presupporre questo Tutto che all’infinito, questa è la sua ipotesi, cioè quando tutti gli elementi saranno concreti, quando questo Tutto sarà quindi concreto, allora la contraddizione sarà scomparsa, ma questo Tutto incontraddittorio a questo punto non può essere nel linguaggio, perché se fosse nel linguaggio sarebbe preso nel differire continuo del linguaggio e, pertanto, deve essere fuori del linguaggio. Naturalmente, questo comporta dei problemi. Il primo problema, e anche il più grosso, è che affermare che sia fuori del linguaggio posso solo presupporlo. Posso dirlo, ma come posso sostenere una cosa del genere, che qualcosa sia fuori del linguaggio e che da fuori del linguaggio si ponga come la condizione del linguaggio, perché per lui si pone così la questione, cioè questo Tutto, l’incontraddittorio, sarebbe la condizione del linguaggio. Da dove gli viene questa idea, che tutto sommato non è del tutto errata, perché affinché il linguaggio funzioni occorre che ci sia dell’incontraddittorio, perché se qualcosa è contraddittorio non è utilizzabile. Quindi, non ha tutti i torti: perché il linguaggio funzioni occorre che ci sia dell’incontraddittorio, perché un elemento possa essere utilizzabile non deve essere simultaneamente quell’elemento ma anche il suo contrario. Lui cerca una garanzia assoluta, totale, qualche cosa che possa garantire il linguaggio in modo assoluto, cioè l’incontraddittorio totale, questo Tutto che è incontraddittorio. Il fatto è che sarà incontraddittorio all’infinito. È chiaro che si possono muovere una serie di obiezioni a una cosa del genere ma ciò che a noi interessa è in particolare il fatto che questa questione dice delle cose interessanti, e cioè che perché un elemento sia utilizzabile occorre che sia incontraddittorio, e cioè che non sia simultaneamente se stesso e non se stesso. Solo che se si ammette questo si ammette anche che a questo punto questo elemento non venga dal nulla e non torni nel nulla perché se no è contraddittorio, perché e anche non è, e allora si deve ammettere che quell’elemento è eterno, stando a Severino. L’argomentazione è potente, cioè o la cosa diviene, esce dal nulla e torna nel nulla, e quindi è autocontraddittoria, oppure è eterna, non ci sono vie di mezzo, tertium non datur. Ma l’obiezione che noi potremmo rivolgere a Severino è che tutto ciò di cui parla, perché tutta questa cosa possa funzionare, questa costruzione che ha messo in piedi, elaboratissima e complessa e che è anche logicamente ineccepibile, di fatto che cosa ci dice? Queste cose, di cui parla, sono oggetti metafisici o sono atti linguistici? Perché se sono atti linguistici diventa un grossissimo problema, perché queste cose allora sono ciò che lui immagina che siano, per una sua decisione. Quando dice che qualcosa è per sé noto, non è così semplice la questione. Perché sia per sé noto occorre che ci sia qualche cosa, cioè il linguaggio, che mi pone una serie di elementi che mi consentano di giungere alla conclusione che quella cosa è per sé nota, altrimenti questo “per sé nota” non serve a niente. Quindi, fa una costruzione, una teoria, che in effetti è fondata sul linguaggio, non può uscire dal linguaggio, però mostra che perché qualcosa sia utilizzabile dal linguaggio, cioè, ci mostra un aspetto del funzionamento del linguaggio, per cui che qualcosa sia utilizzabile dal linguaggio, perché il linguaggio possa funzionare, occorre che quella cosa sia posta, sia posta come identica a sé, e cioè incontraddittoria. Ecco, questo è tutto ciò che Severino dice ne La struttura originaria. Perché la fa complicata? Avrebbe avuto la capacità, l’opportunità di rendere le cose più semplici. Lo fa perché vuole dimostrare che è così, vuole provare quello che afferma senza ricorrere, però, direttamente al linguaggio. È come se cercasse il fondamento del linguaggio, la struttura originaria come fondamento del linguaggio. Però, il fondamento del linguaggio presuppone, ed è lì che poi va a parare, quell’elemento che è fuori dal linguaggio, perché solo da lì posso garantire tutto il sistema. E, infatti, scrive Oltre il linguaggio. Oltre il linguaggio ci deve essere un qualche cosa che non è più linguaggio, perché se fosse linguaggio sarebbe differente continuamente, quindi, cerca qualcosa che sia identica a sé e incontraddittoria in eterno. Questo gli è stato necessario, solo che si tratta di provarlo. Come? All’infinito. L‘infinito, peraltro, è un altro concetto linguistico; anche questo non è un oggetto metafisico che sta lì da qualche parte, in qualche empireo, è un concetto, quindi, una costruzione linguistica. Quindi, una volta di più ci mostra che non c’è uscita dal linguaggio, che il linguaggio non può essere fondato da qualche cosa che non sia linguaggio stesso, e che il linguaggio per potere funzionare necessita di alcune cose, una delle quali è che l’elemento che viene posto dal linguaggio, l’elemento linguistico, deve essere incontraddittorio per potere essere utilizzato. Solo per questo motivo, non ce ne sono altri. Una proposizione che affermi una certa cosa e simultaneamente neghi quella stessa cosa non è utilizzabile, non posso proseguire a parlare. Siccome deve dimostrare tutto quello che dice fa spesso delle contorsioni argomentative, più o meno plausibili, che però hanno sempre come presupposto il fatto che questa struttura argomentativa sia garantita, sia fondata, ma la conclusione cui giunge è una delle conclusioni possibili, non è sicuramente costrittiva, come lui vuole che sia. Questa serie di argomentazioni che, sì, appaiono corrette, ovviamente, però, ciascuna di queste presuppone sempre che l’elemento, di cui stiamo parlando, sia un elemento identico a sé per virtù propria. Prendiamo l’esempio della lampada sul tavolo. Questa lampada che è sul tavolo, dice Severino, è il concreto; l’astratto è la lampada, è il tavolo, e questo astratto comunque è debitore di un concreto, cioè del fatto che quella lampada mi appare in quanto lampada sul tavolo e non come lampada. Il “difetto” del discorso occidentale, quello della scienza poi, è di immaginare il concetto astratto dell’astratto e cioè prendere questo astratto come completamente astratto dal concreto. Infatti, fa l’esempio: A=B. Questo A=B, se lo prendo come concreto, è come la lampada che è sul tavolo, questo A è A in quanto è in relazione con B, ma in questa relazione A e B sono l’identico, non sono l’uno il soggetto e l’altro il predicato. E, infatti, li scrive in quel modo per dare l’idea di questo concetto: (A=B)=(B=A), dove A=B non è separabile in elementi, perché è il concreto, A=B è chiuso in sé, è un tutto. Il concreto lo posso solo cogliere attraverso degli astratti, perché il concreto in quanto tale è qualche cosa di trascendente. Nell’esempio della lampada sul tavolo, questa proposizione comporta che ci sia una lampada e un tavolo e, quindi, comporta necessariamente ciò con cui ho poi a che fare, con delle astrazioni, la lampada e il tavolo, che però rimangono legati, uniti insieme, per cui quella lampada è quella lampada che è sul tavolo. È sempre con degli astratti, con un concetto astratto del concreto, che io ho a che fare. Invece, il concetto astratto dell’astratto è un’altra cosa, è l’immaginare che queste cose esistano di per sé, al di fuori del concreto. Questo è preso naturalmente da Heidegger, cioè l’immaginare che qualche cosa sia fuori del mondo, che cioè non sia qualcosa con cui sono continuamente in relazione, cioè sia fuori da quello che, prima con Heidegger e poi per molti altri, è diventato il circolo ermeneutico: io colgo qualche cosa, guardando questo qualche cosa lo modifico perché faccio essere questo elemento una serie di cose. Ma il fatto che si modifichi, modifica anche me che lo guardo perché a questo punto lo guarderò in un altro modo. Questo è il circolo ermeneutico e questo è il motivo per cui l’interpretazione è infinita, perché ogni volta che interpreto qualche cosa questa interpretazione mi rimanda a un quid che mi modifica e a questo punto, essendo modificato, l’interpretazione sarà un’altra, e così via all’infinito. Tutto questo per dare un’idea generale, ché la posizione di Severino si può pensare, in effetti, in modo molto semplice anziché renderla più complicata di quanto già sia, complicata perché ha questa idea di dovere dimostrare tutto quello che afferma, il che per un verso va bene, per l’altro lo espone però al fatto di dovere dimostrare la dimostrazione. Lui come se la caverebbe? Beh, la dimostrazione regge in quanto incontraddittoria, però, nell’esempio che fa lui, (A=B)=(B=A), il fatto che questa sia un’identità è qualcosa che non è un fatto di natura ma una cosa che impone lui, è lui che stabilisce che è così. C’è, quindi, un’intenzione, un atto di volontà, il che ci rimanda alla volontà di potenza. Adesso forse è più chiaro ciò che ha in animo di fare Severino. Mancano ancora trecento pagine ma alla fine arriverà a questo, quando parlerà della contraddizione C, la grande contraddizione, arriverà alla necessità di trovare questo Tutto come un qualche cosa che è fuori dal linguaggio, perché se è nel linguaggio è autocontraddittorio perché il linguaggio, differendo, si porta appresso in ogni differire la sua autocontraddizione, cioè il fatto che ciascuna volta per dire una cosa deve differire su un’altra, e poi da questa altra a quell’altra, e così via. Siamo a pag. 174, Capitolo Terzo, L’immediatezza del principio di non contraddizione. Sappiamo che il principio di non contraddizione non può essere mediato da un’altra cosa, sennò ci sarebbe un’altra cosa che viene prima del principio di non contraddizione e che lo domina, e di conseguenza il principio di non contraddizione non sarebbe originario. L’affermazione della contraddittorietà dell’essere è tolta in quanto la posizione dell’incontraddittorietà è posta come immediatezza. Devo togliere la contraddittorietà dell’essere. Perché? Perché, dice, la posizione dell’incontraddittorietà è posta come immediatezza, non è posta da niente ma è qui, in questo istante. Questo è ciò che per Severino è “di per sé noto”. Che l’essere non sia non essere è per sé noto. È evidente che questa proposizione “per sé noto” si potrebbe discutere, perché da una parte ha ragione perché se non fosse così allora quell’elemento sarebbe se stesso e anche un altro; quindi, non sarebbe utilizzabile e nemmeno riconoscibile, non sarebbe noto, se è noto è perché è quello che è. Ma al tempo stesso dire “per sé noto” è come se comportasse un movimento quasi naturale. Quello che dice Severino è vero ma a condizione che ci siano altre condizioni precedenti, che sono quelle del linguaggio, che possono costituire quel processo che porta, in questo caso Severino, a potere affermare che qualcosa è per sé noto. È per sé noto se io so già una quantità sterminata di cose, solo allora è per sé noto; per un bruco non è per sé noto. La negazione dell’incontraddittorietà nega ciò che è il fondamento dell’affermazione che lo pone. Se io nego che qualcosa deve essere incontraddittorio nego il fondamento dell’affermazione stessa, perché questa stessa affermazione, per potere affermarsi, deve essere quella affermazione e non non-quella affermazione. Quindi, per potere negare l’incontraddittorietà io devo affermarla, devo porla. È esattamente ciò che dicevo prima riguardo all’essere e il non essere: devo porlo ma in quanto tolto, deve esserci ma in quanto tolto. L’essere non è non essere perché che l’essere non sia non essere è per sé noto. È per sé noto perché se non fosse quello che è non sarebbe noto, non sarebbe nulla, cioè, non sarebbe utilizzabile se fosse e non fosse la medesima cosa. si badi però – e con ciò si viene a considerare determinatamente quella strutturazione dei sensi dell’immediatezza, cui si accennava nei capitoli precedenti – che il senso secondo il quale l’affermazione dell’essere è una posizione immediata… La posizione, per Severino, è l’evidenza, ciò che appare immediatamente, il fenomeno. …non è il senso secondo il quale il principio di non contraddizione è, in quanto tale, posizione immediata. Distingue, quindi, tra l’affermazione dell’essere e la posizione dell’essere. L’affermazione dell’essere riguarda quella cosa che lui chiamava L-immediatezza, l’immediatezza logica, cioè non posso affermare e nello stesso tempo negare; quell’altra è la F-immediatezza, l’immediatezza fenomenologica, cioè del fenomeno che mi appare, che mi si mostra e che è così come lo vedo. L’immediatezza è infatti, nel primo caso, presenza immediata del contenuto – immediatezza fenomenologica –; mentre in questo secondo caso si tratta dell’immediatezza della connessione tra due determinazioni – immediatezza logica. Immediatezza logica, cioè, la considerazione è che ciò che mi appare non può essere ciò che non mi appare. Mi appare = immediatezza fenomenologica; ciò che mi appare non è ciò che non mi appare = immediatezza logica. Questa immediatezza è d’altronde essa stessa immediatamente presente… Questa immediatezza non è mediata da una riflessione, la stessa immediatezza è immediata. …e cioè appartiene, sia pure in modo tipico, all’orizzonte dell’immediatezza intesa nel primo senso. Cioè, come immediatezza fenomenologica. In altri termini, la realtà che è immediatamente presente si costituisce come un organismo estremamente complesso di connessioni (o di predicazioni). Un gruppo di queste connessioni sono immediate appunto e solo in quanto sono immediatamente presenti… Questo è abbastanza evidente. Tutto ciò che noi chiamiamo reale non è altro che una serie di connessioni. Alcune di queste ci sono evidenti, altre no Che questa cosa sia sul tavolo mi è evidente, non è che debba fare chissà quali ragionamenti. L’espressione di questo tipo di connessioni dà luogo pertanto a proposizioni sintetiche a posteriori. Appunto, sono cose che io traggo dall’esperienza. Come faccio a sapere di questo posacenere sul tavolo? Lo so dall’esperienza; tra quello sterminio di informazioni ci sono quelle che mi inducono a dire che, in base all’esperienza che ho avuto lungo la mia vita, questo posacenere è sul tavolo. Punto 4, Nota. Riservandoci di ritornare con particolare attenzione sull’argomento, avvertiamo qui che la formulazione del concetto di sintesi a posteriori esige la distinzione tra l’individuazione e la permanenza. Cioè, tra l’individuazione di qualcosa e il fatto che questo qualche cosa permane, cioè che sia un’essenza di questa cosa, ed è per questo che posso porla come esperienza; se nulla permanesse che esperienza potrei avere? Nessuna. (L’essenza è una permanenza proprio in relazione al divenire che la investe in quanto individuantesi… L’essenza è la permanenza in relazione al divenire: le cose divengono ma qualcosa permane. …sì che, per questo lato, non è la permanenza che si individua, ma è l’essenza, il significato… Quindi, un elemento linguistico. …che, individuandosi, è un permanere… Quindi, ciò che permane non è la cosa ma il significato di questa cosa con cui ho a che fare. …è un permanere, in relazione appunto al processo – divenire, sviluppo – dell’individuazione). Se infatti si afferma: “Questo libro è sullo scrittoio”, si ha a che fare con una proposizione analitica, in quanto nel concetto di questo libro, hic et nunc, è formalmente incluso il suo essere sullo scrittoio. Tale proposizione ha invece valenza sintetica… La prima parte è quella analitica, sarebbe il concreto, ciò che mi appare. Questo libro è sul tavolo: è questo che mi appare. …se col termine: “Questo libro” si allude a un oggetto (essenza, significato) permanente nonostante un certo numero e un certo tipo di variazioni passate del contenuto immediato, e verosimilmente permanente in relazione a un certo numero e a un certo tipo di variazioni future. Come dire che abbiamo il concreto, questo libro che è sul tavolo; poi, abbiamo l’astratto il concetto sintetico a posteriori che mi individua questo libro che è, sì, sul tavolo, però è un libro particolare, è il libro scritto da Severino, che si chiama Struttura originaria, edito da Adelphi, che è mio, ecc. Quindi, questo sarebbe il sintetico a posteriori, cioè tutta questa serie di considerazioni intorno al libro, ma tutte queste considerazioni posso farle a partire da questo libro che è sul tavolo, perché è questo il concreto; poi, chiaramente, lo individuo. Nel concetto di questo oggetto permanente non è infatti immediatamente inclusa la determinazione e la qualificazione delle variazioni del contesto immediato, rispetto alle quali la permanenza si realizza come tale. Poiché ogni variazione del contesto determina una diversa individuazione della permanenza, la relazione tra la permanenza (“questo libro”) e la sua individuazione – e quindi tra la permanenza e un aspetto particolare della sua individuazione (“’essere sullo scrittoio”) – è pertanto una relazione sintetica a posteriori. Sta dicendo che ogni variazione, che può intervenire rispetto a questo libro, magari faccio una riga con la penna, determina un modo diverso del suo permanere, del suo essere libro, permanenza come essenza, determina una variazione ma questa variazione è una relazione che è inserita nel concetto sintetico a posteriori, e cioè dell’astrazione, riguarda non più questo libro che è sulla scrivania ma riguarda questo libro: se io vario qualche cosa non vario il concreto, ciò che mi appare, cioè il libo che è sul tavolo. Siamo a pag. 177. Per riuscire a realizzare la negazione come negazione, per evitare cioè che la negazione sia insieme affermazione, … non si può che ripiegare sull’affermazione che l’incontraddittorio (ossia ciò che è, e non, insieme è e non è) è appunto la negazione che l’essere sia essere – dove l’“essere” vale come “tutto ciò che non è questa negazione”. In questo modo il secondo lato dell’autocontraddittorietà sopra rilevato viene certamente tolto; ma in questo modo non si ha più nemmeno a che fare con la negazione dell’incontraddittorietà, bensì, addirittura, con la determinazione assoluta o esaustiva di ciò che è incontraddittorio: stante appunto che l’incontraddittorio è ravvisato – in base a un atto arbitrario, che della totalità del positivo incontraddittorio tien ferma soltanto l’incontraddittorietà del positivo in cui consiste la negazione limitata dall’incontraddittorietà – nella negazione che l’essere, diverso dall’essere di questa negazione stessa, sia essere. Sta dicendo una cosa molto semplice, di fatto, solo che, come dicevo prima, deve dimostrare tutto quanto perché vuole dimostrare che è proprio così. L’“è” non può stare insieme al “non è”. Mettete questo nella formula (A=B)=(B=A). Sta dicendo che questa incontraddittorietà dell’essere comporta sia l’essere che il non essere ma in quanto concreto, non può essere divisa in elementi a se stanti, perché se la divido allora ciascun elemento diventa contraddittorio, sia l’essere sia il non essere diventano contraddittori. Diventa incontraddittorio nel momento in cui io stabilisco il concreto. E il concreto che cosa mi dice? Mi dice che all’essere io pongo, per toglierlo, il non essere. Queste formule che faceva all’inizio del libro ritornano sempre, anche se non direttamente, ma sono sempre presenti. Queste formule indicano che i due elementi son in una relazione indissolubile, cioè sono l‘identico. L’essere ha necessariamente bisogno del non essere per potere dire che non è non essere; quindi, lo devo porre e poi toglierlo. Se non lo pongo, l’essere rimane lì, in balìa di se stesso; invece, occorre che ci sia il non essere in questa relazione, perché se io pongo l’essere e il non essere, l’uno come il soggetto e l’altro come predicato, allora, ovviamente, ciascuno dei due è contraddittorio. E, allora, l’incontraddittorio dove sta? L’incontraddittorio sta nel fatto che l’uno e l’altro sono in questa relazione concreta, indissolubile, dove l’uno c’è in quanto toglie l’altro, in quanto lo pone e lo toglie. A pag. 180, capitolo 9, Soluzione di un’aporia relativa alla formulazione del principio di identità: significato concreto dell’identità. A) In relazione alla proposizione: “L’essere è essere” si può obiettare che il riconoscimento dell’identità del soggetto e del predicato richiede un confronto, e quindi una distinzione, tra l’essere, come soggetto, e l’essere, come predicato. In tal modo la condizione della possibilità del principio di identità sarebbe data dalla negazione del principio di non contraddizione, visto che per affermare che l’essere è essere, l’essere deve essere in qualche modo diverso dall’essere. Sta dicendo che se io pongo questi due essere come cose differenti tra loro, cioè li astraggo rispetto al concreto, allora è chiaro che uno è il predicato e l’altro è il soggetto, quindi, sono differenti tra loro. Allora, io dico che il primo è diverso dal secondo, quello di sinistra è diverso da quello che è a destra. È chiaro che in questo modo non c’è più la incontraddittorietà ma ciascuno di questi due elementi diventa per sé contraddittorio, perché l’essere dipende da qualcun altro: se dico che l’essere è essere, il secondo essere dipende dal primo e il primo dal secondo; quindi, cosa si perde qui? Si perde l’immediatezza. A questo punto qualcosa è quello che è per via di qualche altra cosa, che fa da mediatore, e quindi non c’è più l’immediato, il per sé noto, cioè si perde quella che lui chiama la L-immediatezza, l’immediatezza logica. b) Anche in questo caso l’obiezione scaturisce dall’intelletto astratto, che presuppone i termini alla loro relazione – relazione che, in questo caso, è la stessa identità di ciò che, pertanto, non è due, ma uno. Questo è importante. In questa frase c’è una cosa su cui bisogna riflettere perché, dice, e questo va al di là dell’obiezione che fa lui perché pone una questione importante, e cioè questa questione scaturisce dal fatto che l’intelletto astratto, che presuppone i termini alla loro relazione, cioè questi due termini, questi due essere, non sono da presupporre alla relazione tra i due. Questa è un’operazione astratta, appunto, come dice, dell’intelletto astratto, perché io astraggo dal concreto, che è la relazione, astraggo gli elementi, e quindi immagino che questi elementi precedano la loro relazione. Non è un concetto che comunemente si può intendere facilmente. Questa lampada che è sul tavolo: questa lampada, di cui sto parlando, non precede, non c’è prima della proposizione che dice “questa lampada che è sul tavolo”, cioè, non c’è prima della relazione della lampada con il tavolo, che è descritta dalla proposizione che dice “questa lampada che è sul tavolo”. Dice relazione che, in questo caso, è la stessa identità di ciò che, pertanto, non è due, ma uno. Sta dicendo che è il pensiero astratto che ci fa pensare che siano due, la lampada e il tavolo. No, è uno, perché ciò che appare, appare come questa lampada che è sul tavolo. Infatti, lui lo mette tra parentesi per indicare che è un uno, un tutto, un fenomeno che appare. Questo fenomeno non è il prodotto della somma delle parti ma è il tutto che appare, un tutto fenomenologico, la F-immediatezza. Bisogna tenere conto che Severino parla sempre del fenomeno, di ciò che appare, e ciò che appare è questa lampada che è sul tavolo, non mi appare la lampada. Dopo, cioè quando mi è apparsa questa lampada che è sul tavolo, allora posso astrarre la lampada e considerarla: vedere se c’è la lampadina dentro, per esempio e altre operazioni. Se dunque l’essere del soggetto e l’essere del predicato sono presupposti alla posizione della loro identità, essi non possono di certo, nella misura in cui sono così presupposti, essere posti come lo stesso… Queste due cose, una volta astratte, non sono più lo stesso, mentre per Severino è fondamentale che queste due cose, che mette tra parentesi, siano lo stesso. …appunto perché questa posizione è la posizione della loro identità, ossia è ciò rispetto a cui essi son presupposti. Questa posizione in cui la lampada e il tavolo appaiono la posizione della loro identità, e cioè “questa lampada che è sul tavolo” è un’identità, è un tutto, se lo scompongo, lo astraggo, non è più a questo punto ciò che mi appare. Se io prendo questa lampada, la metto qua e incomincio a esaminarla, non è più “questa lampada che è sul tavolo”, è un’altra cosa, sarà questa lampada davanti a me e che sto tenendo in mano, e il processo si ripete, perché a questo punto sarà un’unità il concetto di questa lampada che in questo momento tengo in mano per fare qualcosa. Da questo tutto, da “questa lampada che tengo in mano”, astraggo anche la mia mano, volendo, o la lampadina stessa. Però, ogni volta si ripete questo spostamento, e qui è il linguaggio che differisce continuamente, cioè, differendo ci mette di fronte ciascuna volta a ciò che appare. Per dire ciò che appare devo fare apparire un’altra cosa; per dire che cos’è quest’altra cosa devo dire ancora altre cose, e così via all’infinito. Sì che allorquando essi sono posti come lo stesso, si costituisce una struttura logica, per la quale in un primo momento la dualità, l’alterità, è posta come identità. Però, qui dice una cosa che è esattamente il contrario di quanto diceva prima, a meno che non la precisi dopo. Vediamo. Se non si è in grado di sollevarsi al di sopra dell’intelletto astratto, si concluderà pertanto che la condizione dell’identità è la negazione dell’incontraddittorietà, e cioè che l’essere può valere come lo stesso, solo in quanto è altro da sé. Prima diceva Se dunque l’essere del soggetto e l’essere del predicato sono presupposti alla posizione della loro identità e poi, poco dopo, dice Sì che allorquando essi sono posti come lo stesso, si costituisce una struttura logica, per la quale in un primo momento la dualità, l’alterità, mentre prima sembrava dire che in un primo momento si pone come identità. Qui non è molto chiaro, in effetti. Dice prima che si pone come alterità e poi, in un secondo momento, l’alterità è posta come identità. Qui sembra contraddire ciò che diceva prima, e cioè il fatto che questa lampada che è sul tavolo è un’unità, un’identità. Soltanto astraendo posso separare i due elementi, ma questa separazione non precede l’identità originaria, che è quella del fenomeno. Qui occorre che Severino si metta d’accordo. Oltrepassando la prospettiva dell’intelletto astratto si dirà allora che la posizione dell’identità non sopraggiunge in un secondo momento rispetto alla posizione dell’essere, e tato meno rispetto alla posizione dell’essere come soggetto e come predicato. (per quanto riguarda il primo di questi due casi si avverta che una posizione dell’essere che non sia ancora posizione dell’identità dell’essere, non esclude nemmeno che l’essere sia diverso da sé… Se io pongo l’essere non come un’identità col non essere, le due cose insieme, posto ma tolto. Dice: se lo pongo da solo, non esclude che l’essere sia anche diverso da sé perché, se non tolgo l’eventualità che l’essere possa essere anche non essere, questo essere può essere qualunque cosa. Dice: l’affermazione della diversità le sta accanto come non tolta. Permane questa possibilità ma non è tolta; per Severino, invece, bisogna porla e toglierla. Col sopraggiungere della posizione dell’identità con sé di quell’essere così presupposto, si produrrebbe questo: che l’essere che è essere, e cioè l’essere che esclude di essere diverso da sé, sarebbe appunto quell’essere che non esclude di essere diverso da sé. Se non pongo il non essere per toglierlo, questo non esclude affatto che questo essere possa essere diverso da sé e che, quindi, possa essere non essere. La posizione dell’identità è dunque originaria. Cioè, questa lampada che è sul tavolo è originaria rispetto all’astrazione. Sì che dire originariamente che ‘essere è essere non significa istituire un confronto e quindi una identificazione tra l’essere, come soggetto, e l’essere, come predicato, presupposti all’identificazione – ché anzi, stante questa presupposizione, l’essere (soggetto) non è l’essere (predicato). O anche: l’essere, che è essere (l’essere cioè che vale come soggetto della proposizione: “L’essere è essere”), è l’essere-che-è-essere, ossia è l’essere che è posto come identità; e non l’essere che, essendo posto (presupposto), è poi posto come identità (onde identità si costituisce come identificazione dell’alterità). Di nuovo sta dicendo la stessa cosa, e cioè che l’essere che è, se io non lo pongo all’interno di un’identità con ciò che devo togliere, cioè la sua negazione, questo essere rimane passibile di alterità, cioè, questa possibilità di non essere rimane lì, a fianco, non tolta.